venerdì 13 luglio 2018

La censura migliore è quella che fa credere di non esistere

Anche nel mondo virtuale il concetto di democrazia prova timidamente a farsi strada, tenta di venire alla luce in quella nuova dimensione le cui regole nessuno veramente conosce.

Diciamocelo, fondamentalmente non gliene frega niente a nessuno di conoscerle, basta che “C’è campo!”, che lo smartphone dia segni di vita e non mettiamoci certe idee strane in testa.. che poi in rete ci sono i social dove sfogare il nervosismo senza fare troppi danni!

Il punto è che l'Internet non dovrebbe essere soltanto un mercato, ma è diventato persino qualcosa di peggio, una specie di Far west, un regno dei fuorilegge in cui mettere delle regole chiare e palesi (il che non significa "censure") nero su bianco sta diventando indispensabile.

Sorge persino il dubbio che coloro che gestiscono la rete non la controllino più totalmente. Quindi cosa fare? Si affrettano a sfruttarla finché si può, accontendandosi di guadagnarci sopra il più possibile, puntando quasi tutti i loro sforzi verso quello scopo, anche se spesso a scapito della ricerca, della qualità, dell'equità, dell’efficienza, della sicurezza ..

Ci sono ancora poche regole nella Rete infatti, poche e fumose o - peggio - nascoste e/o ignorate dai più. Regole valide in un punto del pianeta e agli antipodi non più… una fitta nebbia nella quale è facile perdersi!
Certamente è un bell’esempio dell’armonioso funzionamento dell’applicazione delle regole a livello globale, un assaggio di come potrebbe essere il futuro se questo modus operandi si estendesse ad altri ambiti, reali! 😒
In pratica una catastrofe! ...



Eppure in rete alcuni segni di fame di democrazia ci sono, e qui di seguito ne troverete due esempi.

Quindi ben vengano questi giustizieri del web, veri paladini della rete che, tramite i propri siti e blog, testimoniano e denunciano fatti che solitamente non fanno notizia al di fuori dell'ambito degli addetti ai lavori. Un modo di prendersi cura dello strumento di "apertura al mondo globale" ritenuto ormai indispensabile a tutti, e di lavorare per la trasparenza e la giustizia in un mondo virtuale che cresce più velocemente di noi.

Chissà, che la loro consapevolezza, assieme a quella di chi lavora soprattutto nel reale, possa contribuire a costruire un nuovo e giusto equilibrio che per ora fatichiamo a immaginare persino nel mondo "vero"? Lo spero.

Se nella realtà la democrazia non fosse più soltanto una parola, potrebbe approdare anche nella Rete sfuggente? O forse inizierà proprio dalla Rete ..
In ogni caso c’è un bel po’ di lavoro da fare! A cominciare dalla lotta contro l'ignoranza e l'indifferenza passiva della maggior parte degli utenti ^_^ ..
Buona lettura.
Catherine



Lo “shadow ban” è una penalizzazione silente che Instagram applica ai profili, o meglio, ai loro contenuti.

Il problema è che non viene segnalato all'utente, non può accorgersene, e nemmeno i suoi followers.

La censura migliore è quella che fa credere di non esistere: il caso dello shadobanno di CS

di Enzo Pennetta

Mentre gli occhi sono puntati sulla proposta di legge dell’europarlamento sul pretestuoso copyright ammazza blog, altre forme più subdole e per questo efficaci di censura vengono già attuate: il caso dello shadow banning.

Ne avevo sentito parlare dello shadow banning ma era come una di quelle leggende dei periodi cosiddetti oscuri dell’umanità nei quali si favoleggiava di misteriosi mostri marini che tutti assicuravano esistere ma dei quali non esistevano le prove. E così è stato come se all’improvviso mi fossi trovato davanti ad un mitologico kraken quando ho letto con i miei occhi che l’account twitter di Critica Scientifica era stato sottoposto ad un regime di “restrizione temporanea”:


Cosa significhi “temporarily restricted” lo scopriamo sulla pagina di twitter dove si spiega solo però che potrei aver violato le kafkiane community twitter rules tra le quali scopriamo che ad esempio la mannaia del copyright già esiste, in pratica twitter può agire trovando un pretesto qualsiasi in un caso o lasciar fare liberamente a proprio arbitrio.

La misura restrittiva consiste nel blocco della visibilità dei tweet agli occhi di quelle persone che non siano diretti followers, in pratica se io twitto un messaggio questo non sarà visibile al di fuori dei miei followers, anche se dovessi menzionare qualcuno nel tweet questi non verrebbe raggiunto. E così ovviamente se mettessi un hashtag, al di fuori dei miei followers nessuno potrebbe trovare il mio tweet consultando le tendenze.

Esiste quindi un provvedimento in grado di “strozzare” la comunicazione impedendo che vengano raggiunti altri utenti al di fuori della cerchia già raggiungibile di consueto. Il punto è che questo provvedimento è stato preso senza provvedere ad avvisare il titolare dell’account ristretto (nel caso specifico il sottoscritto) che quindi non sarà al corrente della diminuita efficacia della propria azione. Nel caso di CS me ne sono potuto accorgere casualmente solo perché avendo un secondo account e avendo deciso di auto unfollowarmi, su tweepsmap mi è apparsa la lista degli unfollowatori e tra questi CS con la dicitura “temporarily restricted”.

Episodi come questo servono ad evidenziare il fatto che la censura è di fatto operante ad un livello subdolo, che non dobbiamo mai dimenticare che su piattaforme come Facebook, twitter ecc… siamo ospiti in territorio privato e quindi soggetti a regole arbitrarie.

Poi scopri che in un paio di mesi twitter ha sospeso 70 milioni di account sospettati di propagare fake news, una giustizia sommaria che equivale ad uno sterminio di massa di pensieri non allineati:



Tutto questo significa che oltre ad impegnarci a contrastare le leggi manifestamente censorie come quella sul copyright va sollevato il problema della gestione privata di un bene comune e soprattutto di sensibilità politica e democratica, un interesse di sicurezza nazionale che non può restare di esclusivo dominio di un proprietario: anche su queste strutture private lo Stato deve poter dire la sua.

Impossibile? La Cina, nel bene o nel male, insegna che ai colossi di Internet si può imporre la legge delle nazioni e del loro interesse sovrano.

Intanto mi tengo kafkianamente lo shadobanno, senza sapere perché e senza sapere fino a a quando.

Un saluto a quelli che comunque riusciranno a leggere i tweet di CS.
Fonte: www.enzopennetta.it


La giungla del Web

Ehi, vi ricordate di quando vi avevamo promesso che Internet sarebbe stata l’Eldorado dell’informazione, il primum movens della conoscenza, a cui tutti avrebbero potuto contribuire per creare un mondo migliore? 
Beh, non era proprio così, ma quasi.


E comunque sì, mi costituisco.

C’ero anch’io tra quelli che predicavano un imminente luminoso futuro grazie alla «società della conoscenza» promessa dal World Wide Web. Sono passati quasi vent’anni da quando scrissi un’entusiastica prefazione a un libro che parlava della nascente «borghesia digitale», nuova classe sociale che da New York a Kathmandu, grazie all’accesso alla rete e alla massa di informazioni disponibile, avrebbe goduto di una spinta propulsiva. Perché la conoscenza è potere, almeno così credevamo.] Sembrava tutto così facile.

Poi, in un batter di ciglia, il Web si è popolato di pericoli, agguati, bufale, teorie del complotto, liti furibonde che finiscono – a migliaia – nelle aule di tribunale, fake news. 

E ancora tribù che vivono in bolle che non comunicano con l’esterno o, quando lo fanno, lo fanno quasi esclusivamente in funzione della conferma della coesione del gruppo. Perché nel frastuono di fondo dell’informazione in rete dobbiamo fare i conti anche con i nostri pregiudizi cognitivi, che ci spingono inesorabilmente a ingannarci senza che ne siamo minimamente consapevoli.

E le notizie sulle dinamiche più o meno perverse della rete si accavallano a velocità supersonica. 

Solo nelle ultime settimane abbiamo scoperto, da «Science», che sui social le bufale vengono condivise di più e più rapidamente delle notizie vere. 

E però d’altra parte una ricerca di Reuters Institute e Università di Oxford ci informa che i siti di informazione mainstream, quelli dei grandi quotidiani per esempio, sono molto più visitati dei siti che propagano fake news. 
Come dire: chi condivide le fake news, spesso ne ha letto soltanto il titolo.

E poi è scoppiato il caso Cambridge Analytica, la società di marketing on line che ha raccolto da Facebook i dati di 50 milioni di utenti realizzando profili psicologici per influenzare le scelte di voto durante le presidenziali americane del 2016. E bastano 170 like – secondo una ricerca pubblicata nel 2013 sui «Proceedings of the National Academy of Sciences» – per predire colore della pelle, preferenze sessuali e inclinazioni politiche di un profilo. Dal marketing commerciale personalizzato alla manipolazione politica il passo non è brevissimo, ma nemmeno poi così lungo.


Insomma, più che il paradiso della conoscenza il Web ricorda la pubblicità di una compagnia telefonica che vidi anni fa all’uscita dell’aeroporto di Johannesburg: It’s a Jungle out there: Need a guide?. 


Forse sì, ci sarebbe davvero bisogno di quattro punti cardinali per orientarsi in un ambiente a cui non eravamo preparati. 
Anche perché in quella giungla sono davvero mantenute molte delle promesse dell’inizio. 
Il problema è trovarle.
E al momento guide affidabili non ce ne sono. Ma stiamo cominciando a prendere le misure al mare di informazione, controinformazione e rumore bianco che popola la rete. 

Ce ne parlano in queste pagine Walter Quattrociocchi e Matthew Fisher, Joshua Knobe, Brent Strickland e Frank C. Keil, in due articoli che esplorano la polarizzazione delle posizioni politiche, il tribalismo in rete e il modo in cui la radicalizzazione delle discussioni sta alterando la nostra concezione di verità.

Secondo dinamiche di confronto che tendono a privilegiare la competizione rispetto alla cooperazione.

Quello plasmato dalla rete è un mondo nuovo e complesso, al quale dobbiamo ancora adattarci. Trovarci un «centro di gravità permanente» sarà più facile per i Millennial, che ci sono immersi dalla nascita. «Magari non ricorderanno quanto sono alte le montagne o lunghi i fiumi – chiosa Carlin Flora a p. 54 – ma saranno capaci di scoprire il segnale nel rumore».
Fonte: www.lescienze.it 

L'Internet non è solo un mercato in cui comunque la crescita semi-monopolistica dei grandi gruppi sembra irrefrenabile. Internet è oggi anche il potere, di Stati e grandi aziende, di concedere o meno a un cittadino i diritti fondamentali ricordati da Masera e Scorza: consultare una notizia, non essere spiati, essere dimenticati.

Internet è anche il terreno in cui i grandi gruppi dettano una propria politica estera, potenzialmente superando il controllo degli Stati e aprendo interrogativi inediti...

(www.lastampa.it) 

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