sabato 6 ottobre 2018

Giovanni Papini, Chiudiamo le scuole! Tra cretini e talenti di stato

Di Michele Rainone

Foto: Giovanni Papini (Firenze, 9 gennaio 1881 – Firenze, 8 luglio 1956)

Chiudere le scuole?

“I giovani fuori dalle loro fabbriche privilegiate di cretini di stato” – Giovanni Papini, interprete indiscusso del III millennio. Eppure, l’articolo è di quasi cento anni fa: 1 giugno 1914. Interprete indiscusso, ma inconsapevole. 
Se non fosse che la questione salta fuori ogni anno, l’importanza di uno scritto sulla distruttività della scuola, e di tutte le istituzioni simili, sarebbe minima. Siamo dei cretini di stato, insomma: delle marionette istruite, necessariamente destinate a “rivomitare tutto quel che s’è ingozzato in quei forzati banchetti e ricominciare da capo”. 

Dichiarazioni del genere, ispirate al Futurismo più distruttivo, potevano destare scandalo nel XX secolo, ma non sortiscono lo stesso effetto oggi: leggere queste due righe è stato semplice, non ci si è fermati neanche un attimo. Il concetto di scuola inutile, o meglio, utile solo per il tanto chiacchierato pezzo di carta, è talmente diffuso che una reazione del genere è prevedibile. Dai primi del 1900 ad oggi è cambiato tutto, sono poche le eccezioni: il grande libro, e non l’esperienza, distruggeva, distrugge e, secondo molti, continuerà a farlo. L’articolo di Papini, Chiudiamo le scuole!, è attuale, purtroppo. Fastidiosamente attuale ...


Volendo trovare una giustificazione che lo salvi da qualsiasi attacco, si potrebbe far riferimento al suo fervore futuristico, alla distruttività di questo movimento che, per fortuna, non ha prodotto grandi strascichi, almeno in letteratura. Trovare, invece, una giustificazione per tutti coloro che oggi continuano ad attaccare l’istituzione scolastica è impossibile: la loro lettura, di certo non influenzata dal lontano Futurismo, è parziale, fuorviante e, quindi, errata.

Certo, quando leggiamo che la scuola “non insegna quasi mai ciò che un uomo dovrà fare effettivamente nella vita, per la quale occorre poi un faticoso e lungo noviziato autodidattico” non possiamo che essere d’accordo. Questo approccio, però, non è esclusivo. Papini, e non solo lui, inquadra il rapporto scuola-individuo, prendendo in esame la prospettiva dell’insegnamento, o meglio, indottrinamento, e dei suoi protagonisti, e non quella di apprendimento: gli approcci del singolo all’istituzione sono tali e tanti che l’articolo risulta persino offensivo nei confronti dell’allievo. Non saranno mica tutti degli stupidi indottrinati! Non saranno mica tutti robot pronti a ingurgitare centinaia e centinaia di pagine senza un perché, e chissà in che modo! La questione è centrale, molto spesso viene sottovalutata, se non addirittura messa da parte: la conoscenza – quella che tutti, Papini in questo caso, associano alla noiosità dei grandi libri – è frutto di un percorso formativo che presuppone sfide, sacrifici, rinunce; la vera utilità del rapporto scuola-allievo non sta di certo in ciò che si apprende – si tratta, il più delle volte, di puro e sterile nozionismo, così come chiarisce Gramsci in uno scritto del 1919 – ma in ciò che si fa per apprendere, nel percorso che porta alla conoscenza.

Il mondo del lavoro presuppone sì competenza ma altresì resistenza: i veri talenti la sperimentano, giorno per giorno, nell’ambiente scolastico, confrontandosi con queste fantomatiche noiosità che, comunque, rappresentano novità. Cose nuove, e non inutili: esperienza e conoscenza viaggiano di pari passo. Ecco perché frasi come “la scuola fa molto più male che bene ai cervelli in formazione” non dovrebbero essere più accettabili al giorno d’oggi. Eppure, sembra come se Papini stesse parlando della nostra realtà, appoggiato da una schiera infinita di sostenitori. Non deve essere così, almeno non in tutti i casi: sarà che assieme ai “cretini di stato” nascono, e crescono, “talenti di stato”?

Fonte: www.sulromanzo.it/


Il titolo del libro di Giovanni Pappini, nonché l'articolo riportato sopra, hanno destato la mia curiosità. 
Vogliamo leggere qualche riga dell'autore stesso?

Sorvegliare o educare?

In un testo scritto nel 1914 e pubblicato nel 1919 (non a caso a cavallo della traumatica esperienza della Grande Guerra, prima prova generale delle istituzioni di massa novecentesche), Giovanni Papini invita in maniera provocatoria a smantellare il sistema scolastico (Chiudiamo le scuole è infatti il titolo dell’intervento), sostenendone la totale e irredimibile negatività. Anche se il testo è da leggere all’insegna del gusto tipicamente avanguardista per la provocazione e rientra nella condanna rivolta contro tutti i luoghi-simbolo della cultura del passato (musei e biblioteche in primis), vi sono comunque dei punti che meritano di essere considerati con molta attenzione:

1 giugno 1914

"Diffidiamo de' casamenti di grande superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi. Prigioni, Chiese, Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi. Codeste pubbliche architetture son di malaugurio: segni irrecusabili di malattie generali. Difesa contro il delitto - contro la morte - contro lo straniero - contro il disordine - contro la solitudine - contro tutto ciò che impaurisce l'uomo abbandonato a sé stesso: il vigliacco eterno che fabbrica leggi e società come bastioni e trincee alla sua tremebondaggine.

Vi sono sinistri magazzini di uomini cattivi - in città e in campagna e sulle rive del mare - davanti a' quali non si passa senza terrore.
Lì son condannati al buio, alla fame, al suicidio, all'immobilità, all'abbrutimento, alla pazzia, migliaia e milioni di uomini che tolsero un po' di ricchezza a' fratelli più ricchi o diminuirono d'improvviso il numero di questa non rimpiangibile umanità. Non m'intenerisco sopra questi uomini ma soffro se penso troppo alla loro vita - e alla qualità e al diritto de' loro giudici e carcerieri. Ma per costoro c'è almeno la ragione della difesa contro la possibilità di ritorni offensivi verso qualcun di noialtri.

Ma cosa hanno mai fatto i ragazzi, gli adolescenti, i giovanotti che dai sei fino ai dieci, ai quindici, ai venti, ai ventiquattro anni chiudete tante ore del giorno nelle vostre bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello? 

Gli altri potete chiamarli - con morali e codici in mano - delinquenti ma quest'altri sono, anche per voi, puri e innocenti come usciron dall'utero delle vostre spose e figliuole. Con quali traditori pretesti vi permettete di scemare il loro piacere e la loro libertà nell'età più bella della vita e di compromettere per sempre la freschezza e la sanità della loro intelligenza?

Non venite fuori colla grossa artiglieria della retorica progressista: le ragioni della civiltà, l'educazione dello spirito, l'avanzamento del sapere… 

Noi sappiamo con assoluta certezza che la civiltà non è venuta fuor dalle scuole e che le scuole intristiscono gli animi invece di sollevarli e che le scoperte decisive della scienza non son nate dall'insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola o non v'insegnavano.

Sappiamo ugualmente e con la stessa certezza che la scuola, essendo per sua necessità formale e tradizionalista, ha contribuito spessissimo a pietrificare il sapere e a ritardare con testardi ostruzionismi le più urgenti rivoluzioni e riforme intellettuali.

Soltanto per caso e per semplice coincidenza - raccoglie tanta di quella gente! - la scuola può essere il laboratorio di nuove verità.
Essa non è, per sua natura, una creazione, un'opera spirituale ma un semplice organismo e strumento pratico. Non inventa le conoscenze ma si vanta di trasmetterle. E non adempie bene neppure a quest'ultimo ufficio - perché le trasmette male o trasmettendole impedisce il più delle volte, disseccando e storcendo i cervelli ricevitori, il formarsi di altre conoscenze nuove e migliori.

Le scuole, dunque, non son altro che reclusori per minorenni istruiti per soddisfare a bisogni pratici e prettamente borghesi.
Quali?

Per i genitori, nei primi anni, sono il mezzo più decente per levarsi di casa i figliuoli che danno noia.
Più tardi entra in ballo il pensiero dominante della "posizione" e della "carriera".
Per i maestri c'è soprattutto la ragione di guadagnarsi pane, carne e vestiti con una professione ritenuta "nobile" e che offre, in più, tre mesi di vacanza l'anno e qualche piccola beneficiata di vanità.

Aggiungete poi a questo la sadica voluttà di potere annoiare, intimorire e tormentare impunemente, in capo alla vita, qualche migliaio di bambini o di giovani.
Lo Stato mantiene le scuole perché i padri di famiglia le vogliono e perché lui stesso, avendo bisogno tutti gli anni di qualche battaglione di impiegati, preferisce tirarseli su a modo suo e sceglierli sulla fede di certificati da lui concessi senza noie supplementari di vagliature più faticose.

Aggiungete che sulle scuole ci mangiano ispettori, presidi, bidelli, preparatori, assistenti, editori, librai, cartolai e avrete la trama completa degli interessi tessuti attorno alle comunali e regie e pareggiate case di pena.
Nessuno - fuorché a discorsi - pensa al miglioramento della nazione, allo sviluppo del pensiero e tanto meno a quello cui si dovrebbe pensar di più: al bene dei figliuoli.
Le scuole ci sono, fanno comodo, menano a qualche guadagno: ficchiamoci maschi e femmine e non ci pensiamo più.

L'uomo, nelle tre mezze dozzine d'anni decisive nella sua vita (dai sei ai dodici, dai dodici ai diciotto, dai diciotto ai ventiquattro), ha bisogno, per vivere, di libertà.

Libertà per rafforzare il corpo e conservarsi la salute, libertà all'aria aperta: nelle scuole si rovina gli occhi, i polmoni, i nervi (quanti miopi, anemici e nevrastenici possono maledire giustamente le scuole e chi l'ha inventate!)
Libertà per svolgere la sua personalità nella vita aperta dalle diecimila possibilità, invece che in quella artificiale e ristretta delle classi e dei collegi.
Libertà per imparare veramente qualcosa perché non s'impara nulla di importante dalle lezioni ma soltanto dai grandi libri e dal contatto personale colla realtà. Nella quale ognuno s'inserisce a modo suo e sceglie quel che gli è più adatto invece di sottostare a quella manipolazione disseccatrice e uniforme ch'è l'insegnamento.

Nelle scuole, invece, abbiamo la reclusione quotidiana in stanze polverose piene di fiati - l'immobilità fisica più antinaturale - l'immobilità dello spirito obbligato a ripetere invece che a cercare - lo sforzo disastroso per imparare con metodi imbecilli moltissime cose inutili - e l'annegamento sistematico di ogni personalità, originalità e iniziativa nel mar nero degli uniformi programmi. Fino a sei anni l'uomo è prigioniero di genitori, bambinaie e istitutrici; dai sei ai ventiquattro è sottoposto a genitori e professori; dai ventiquattro è schiavo dell'ufficio, del caposezione, del pubblico e della moglie; tra i quaranta e i cinquanta vien meccanizzato e ossificato dalle abitudini (terribili più d'ogni padrone) e servo, schiavo, prigioniero, forzato e burattino rimane fino alla morte.
Lasciateci almeno la fanciullezza e la gioventù per godere un po' d'igienica anarchia!


L'unica scusa (non mai bastante) di tale lunghissimo incarceramento scolastico sarebbe la sua riconosciuta utilità per i futuri uomini. Ma su questo punto c'è abbastanza concordia fra gli spiriti più illuminati. La scuola fa molto più male che bene ai cervelli in formazione.
Insegna moltissime cose inutili, che poi bisogna disimparare per impararne molte altre da sé.
Insegna moltissime cose false o discutibili e ci vuol poi una bella fatica a liberarsene - e non tutti ci arrivano.

Abitua gli uomini a ritenere che tutta la sapienza del mondo consista nei libri stampati.
Non insegna quasi mai ciò che un uomo dovrà fare effettivamente nella vita, per la quale occorre poi un faticoso e lungo noviziato autodidattico.
Insegna (pretende d'insegnare) quel che nessuno potrà mai insegnare: la pittura nelle accademie; il gusto nelle scuole di lettere; il pensiero nelle facoltà di filosofia; la pedagogia nei corsi normali; la musica nei conservatori.
Insegna male perché insegna a tutti le stesse cose nello stesso modo e nella stessa quantità non tenendo conto delle infinite diversità d'ingegno, di razza, di provenienza sociale, di età, di bisogni ecc.

Non si può insegnare a più d'uno. 

Non s'impara qualcosa dagli altri che nelle conversazioni a due, dove colui che insegna si adatta alla natura dell'altro, rispiega, esemplifica, domanda, discute e non detta il suo verbo dall'alto.
Quasi tutti gli uomini che hanno fatto qualcosa di nuovo nel mondo o non sono mai andati a scuola o ne sono scappati presto o sono stati "cattivi" scolari. (I mediocri che arrivano nella vita a fare onorata e regolare carriera e magari a raggiungere una certa fama sono stati spesso i "primi" della classe).
La scuola non insegna precisamente quello di cui si ha più bisogno: appena passati gli esami e ottenuti i diplomi bisogna rivomitare tutto quel che s'è ingozzato in quei forzati banchetti e ricominciare da capo.

Vorrei che i nostri dottori della legge, per i quali la scuola è il tempio delle nuove generazioni e i manuali approvati sono i sacri testamenti della religion pedantesca, leggessero almeno una volta il saggio di Hazlitt sull'Ignoranza delle persone istruite, che comincia così: "La razza di gente che ha meno idee è formata da quelli che non son altro che autori o lettori. È meglio non saper né leggere né scrivere che saper leggere e scrivere, e non essere capaci d'altro".
E più giù: "Chiunque è passato per tutti i gradi regolari d'una educazione classica e non è diventato stupido, può vantarsi d'averla scappata bella".

Credo che pochissimi potrebbero - se sapessero giudicarsi da sé - vantarsi di una tal resistenza. E basta guardarsi un momento attorno e vedere quale sia la media intelligenza de' nostri impiegati, dirigenti, professionisti e governanti per convincersi che Hazlitt ha centomila ragioni. Se c'è ancora un po' d'intelligenza nel mondo bisogna cercarla fra gli autodidatti o fra gli analfabeti.

La scuola è così essenzialmente antigeniale che non ristupidisce solamente gli scolari ma anche i maestri. Ripeti e ripeti anni dopo anni le medesime cose, diventano assai più imbecilli e immalleabili di quel che fossero al principio - e non è dir poco.
Poveri aguzzini acidi, annoiati, anchilosati, vuotati, seccati, angariati, scoraggiati che muovon le loro membra ufficiali e governative soltanto quando si tratta di aver qualche lira di più tutti i mesi!
Si parla dell'educazione morale delle scuole. Gli unici risultati della convivenza tra maestri e scolari è questa: servilità apparente e ipocrisia dei secondi verso i primi e corruzione reciproca tra compagni e compagni.
L'unico testo di sincerità nelle scuole è la parete delle latrine.

Bisogna chiuder le scuole - tutte le scuole. Dalla prima all'ultima. Asili e giardini d'infanzia; collegi e convitti; scuole primarie e secondarie; ginnasi e licei; scuole tecniche e istituti tecnici; università e accademie; scuole di commercio e scuole di guerra; istituti superiori e scuole d'applicazione; politecnici e magisteri. Dappertutto dove un uomo pretende d'insegnare ad altri uomini bisogna chiuder bottega. Non bisogna dar retta ai genitori in imbarazzo né ai professori disoccupati né ai librai in fallimento. Tutto s'accomoderà e si quieterà col tempo. Si troverà il modo di sapere (e di saper meglio e in meno tempo) senza bisogno di sacrificare i più begli anni della vita sulle panche delle semiprigioni governative.

Ci saranno più uomini intelligenti e più uomini geniali; la vita e la scienza andranno innanzi anche meglio; ognuno se la caverà da sé e la civiltà non rallenterà neppure un secondo. Ci sarà più libertà, più salute e più gioia.
L'anima umana innanzi tutto. È la cosa più preziosa che ognuno di noi possegga. La vogliamo salvare almeno quando sta mettendo le ali. Daremo pensioni vitalizie a tutti i maestri, istitutori, prefetti, presidi, professori, liberi docenti e bidelli purché lascino andare i giovani fuor dalle loro fabbriche privilegiate di cretini di stato. Ne abbiamo abbastanza dopo tanti secoli.
Chi è contro la libertà e la gioventù lavora per l'imbecillità e per la morte."

Più che la scuola stessa mi sembra che l'autore ne critichi i contenuti, e sicuramente non ha tutti i torti.
Catherine


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5 commenti:

  1. Questo è un trattato sulla Verità. Nasciamo e dobbiamo fare quello che vuole mamma e papà. Poi ci bagnano la testa senza il nostro consenso e ci mollano all'oratorio, poi ci chiudono nella prigione scuola, dove cercano di indottrinarci con le stronGate che hanno insegnato a loro. Non sono neanche colpevoli, sono inconsapevoli, a parte qualche illuminat*, non di $ion, ovvio. Poiché mancano di ogni fondamento dell'organizzazione, "insegnano" solo teoria. Pratica doppio zero. Anche perché a loro non serve, mentre a Noi che poi dovremo "lavorare" per mangiare è indispensabile procedere parallelamente con Teoria e Pratica. La teoria te la scordi quasi subito, perché fondata sulla memoria a pappagallo e non sul "Concetto". E dovessi avere una Logica Concettuale e non Memoriale, ti sbeffeggeranno perché non capisci la matematica spiegata da "loro".
    Tanto è vero che quando entri nel "Lavoro", devi istruirti di nuovo applicando la teoria alla pratica e la pratica alla teoria. Esperienza m'insegnò. Ora c'è Internet. Non si ha più bisogno di monumentali enciclopedie. Con l'esercizio s'impara a distinguere ed a scegliere. Fuori i "padroncini" dalle Nostre Vite. Il neonato va RISPETTATO come ogni qualsiasi altro Animale. Non s'incarcera in case, chiese, scuole. Sono d'accordo al 1000 per 1000 con il Pensiero di Giovanni Papini, Pensiero che da sempre ci tengono rigorosamente nascosto.

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  2. LA SCUOLA E' ASSOLUTAMENTE NECESSARIA.
    Senza la scuola sarebbe impossibile costruire una società tecnologica di automi certificati.
    La scuola è solo memoria, va avanti chi ne ha di più, poi solo chi abbassa il groppone e fa l'eco dei potenti ha un futuro.
    Il sapere è una cosa aliena, l'omogeneizzazione delle menti è lo scopo primario, tutto il resto solo chiacchere.

    E i Nobel?
    Tranne pochissimi sono spazzatura, il premio massimo a chi unge meglio le ruote del carro dello sfruttamento.
    La scienza è solo lingue penzoloni alla ricerca di notorietà e fondi, chi paga ha la ricerca confezionata su misura.

    Alle elementari ero in lotta feroce con altri tre per chi era l'ultimo della classe, il record però è mio, sono stato il primo a prendere uno zero spaccato, forse era una premonizione.

    Gianni

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  3. La Vera Cultura e la Vera Conoscenza non nascono tra i polverosi testi della Scuola,ma hano origine invece dal profondo desiderio di Sapienza innato e autodidatta che vive da sempre nella natura umana .Un desiderio libero da regolamenti e da costrizioni che se appagato può condurre lo studente prima e il futuro cittadino poi ad aprire la porta del futuro.Sono d*accordo con il Papini,la scuola non serve a nulla,tranne che a far prosperare e ad arricchire quel mondo parallelo che la circonda,noi non abbiamo bisogno di Maestri perché grazie alle nostre singole potenzialità e al nostro infinito desiderio di conoscenza,lo possiamo diventare.Emilio

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  4. A me piace moltissimo l'idea di scuola della Kirghisia di Silvano Agosti ^_^

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  5. Una bella esperienza scolastica pochissimo nota.

    In Inghilterra alcuni decenni fa non ricordo chi, ha aperto una scuola con collegio per i lontani, specializzata per i difficili e ribelli, assolutamente rivoluzionaria dai risultati spettacolari.
    Il suo concetto era che i bambini sono degli angeli che diventano demoni quando si cerca di controllarli.

    C'era una sola regola, non disturbare, per il resto potevano fare quello che volevano, potevano studiare o non studiare, partecipare alle lezioni seguendole o leggendosi un fumetto, frequentare o non frequentare, nessun giudizio e nessuna critica per il loro conportamento.

    Da uno a sei mesi anche i più ribelli e indomabili ritornavano angeli, diventando studenti profittevoli, rispettosi dei diversi, allegri e collaborativi, aiutavano chi era indietro, nel frutteto raccoglievano solo il frutto che mangiavano, e si divertivano nel verde.

    Grandissime critiche da ovunque poi....da ovunque gli mandavano i casi difficili.

    Gianni

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