di Enrica Perucchietti
Secondo la tradizione biblica Mosè morì nel paese di Moab sul monte Nebo all’età di 120 anni. Fu sepolto nella valle ma “nessuno fino a oggi ha saputo dove sia la sua tomba”.
Una leggenda ebraica racconta che il profeta si rifiutava di morire perché non riusciva ad accettare la misteriosa punizione divina che gli avrebbe impedito di metter piede nella Terra Promessa, a causa di un unico peccato commesso a Meriba (che la Bibbia non specifica). Egli pregò il suo Dio che almeno le sue ossa, come quelle di Giuseppe, potessero essere condotte oltre il Giordano. Irremovibile, Jahvè ordinò agli angeli di scendere, uno dopo l’altro, per prendere l’anima del ribelle, ma nessuno ci riuscì, fino a che il Signore fu costretto a scendere su di lui e a sottrargli l’anima con un bacio. Queste le parole sul Mosè mitico, metastorico.
Qualsiasi ricerca sulla figura storica del profeta si muove invece in un oceano di supposizioni, di tesi scientifiche e di ipotesi azzardate che abbracciano i più svariati campi del sapere.
Egittologi, teologi, psicologi, critici e romanzieri si sono occupati e appassionati alla sua figura che, nonostante la densa quantità di studi, appare più mitica che storicamente certa. C’è addirittura chi ha dubitato dell’esistenza di un singolo Mosè, proponendo come Reick, sulla scia freudiana, l’esistenza di ben tre Mosè.
Il faraone dell’esodo
Nonostante i pareri discordi tra gli egittologi, l’esodo biblico può forse collocarsi durante il regno di Ramses ii, al più tardi sotto il regno del figlio, Merenptah.
Se la presenza degli ebrei, chiamati apiru dagli antichi egizi, è attestata già sotto Thutmosis iii, con l’avvento di Ramses ii le notizie si fanno più dettagliate.
Ma nessuna fonte egiziana parla di un’uscita degli ebrei dall’Egitto!
Ciò potrebbe essere spiegato con il fatto che l’esodo, o gli esodi come alcuni storici ritengono più appropriato, non sarebbero stati avvenimenti rilevanti per gli Egiziani.
Grazie alle fonti storiche siamo in grado di fissare dei confini temporali nella nostra ricerca: il soggiorno degli ebrei nel deserto per quarant’anni (sempre che in questo caso, come in altri episodi biblici, il numero 40 non sia prettamente simbolico…) e la presa di Gerico che, avvenuta dopo la morte di Mosè, fissa come limite ante quem l’anno 1250.
Nelle parole bibliche che attestano l’educazione di Mosè a corte e la sua adozione regale, però, lo studioso Andrè Neher ha identificato la figlia del faraone con la regina Hatshepsut, figlia di Thutmosis i, anticipando così la data dell’esodo. Il salvataggio di un bambino ebreo, fatto unico nel suo genere, troverebbe unica ragion d’essere se collocato all’epoca di Hatshepsut. Prima, infatti, gli ebrei erano considerati soltanto come schiavi-operai.
Mosè sarebbe divenuto il pupilllo della regina ma, alla morte di costei, e con l’avvento di Thutmosis iii, il nostro condottiero sarebbe stato costretto alla fuga.
La tradizione esoterica: Eliphas Levi
L’occultista Eliphas Levi, nell’introduzione alla sua Storia della Magia, ha ricondotto le origini della magia alla scienza di Abramo, Mosè, Orfeo, Confucio e Zoroastro.
“I dogmi della magia”, scrive, “sono stati scolpiti sulle tavole di pietra da Enoch e Trismegisto. Mosè le ha epurate e rieccole, è il senso della parola rivelare. Ha dato loro un nuovo velo quando ha fatto della santa Cabala l’esclusiva eredità del popolo d’Israele e il segreto inviolabile dei suoi sacerdoti, i misteri di Eleusi e di Tebe ne hanno conservato tra le nazioni qualche simbolo già alterato, la cui chiave misteriosa si perdeva tra gli strumenti di una superstizione sempre crescente”.
E’ proprio in Egitto che la magia si completa come “scienza universale” e si formula come “perfetto dogma”. Levi ci ricorda che nulla eguaglia la saggezza incisa sulle tavole smeraldine di Ermete.
L’Egitto è considerato la culla delle scienze e della saggezza; come rileva Levi, “esso riveste con immagini, se non più ricche, almeno più esatte e più pure di quelle dell’India, l’antico dogma del primo Zoroastro. L’arte sacerdotale e l’arte reale vi hanno formulato degli adepti con l’iniziazione”.
Un’allegoria biblica ci introduce nel significato occulto della sua figura: l’Esodo riporta la spoliazione degli Egiziani da parte degli ebrei. Per Levi Mosè che incita il suo popolo a portar via i “sacri vasi”, l’oro e l’argento degli egiziani, simboleggia l’iniziazione a cui Mosè era stato sottoposto e il sapere che con la fuga dall’Egitto il profeta recava con sé: “Questi vasi sacri sono i segreti della scienza egiziana che Mosè aveva appreso alla corte del Faraone. Lungi da noi l’idea di attribuire alla magia i miracoli di quest’uomo ispirato da Dio; ma la stessa Bibbia ci insegna che […] i maghi del Faraone […] prima di tutto compirono con la loro arte delle meraviglie simili alle sue. Così trasformarono legni in serpenti, e dei serpenti in legni, cosa che può essere spiegata con gioco di prestigio o ipnosi. Trasformando l’acqua in sangue, fecero apparire all’improvviso una grande quantità di rane, ma non riuscirono a portare né mosche né altri parassiti […] Mosè trionfò e condusse gli Ebrei fuori dalla terra di schiavitù”.
Qui, secondo Levi, si staglia però lo “scoglio dell’esoterismo”. Levi spiega che i cabalisti temono l’idolatria e la figura umana che attribuiscono a Dio è da considerarsi in forma meramente “geroglifica”, ossia simbolica. Ricordiamo che nel sistema esoterico di Levi la “vera scienza”, ossia la cabala o “tradizione dei figli di Seth” era stata portata da Abramo dalla Caldea e introdotta da Giuseppe, figlio di Giacobbe e Rachele, al sacerdozio egizio, infine raccolta ed epurata da Mosè e occultata sotto simboli e allegorie nei testi biblici, fino alla rivelazione finale a San Giovanni.
L’esodo era l’indice che la vera scienza si stava perdendo in Egitto, perché i sacerdoti si facevano irretire dall’idolatria, pericolo che Mosè volle evitare costringendo il popolo ebraico alla fuga nel deserto.
Mosè si rese conto che l’unico modo per salvaguardare le tradizioni sacre era di “creare” un popolo e di condurlo lontano dalla contaminazione dell’idolatria che imperava in Egitto. Mosè condusse il suo popolo nel deserto e proibì severamente il culto delle immagini. Ma durante il soggiorno sul Sinai il popolo si preoccupò non vedendolo tornare e chiese al fratello di Mosè, Aronne, di costruire un vitello d’oro da adorare.
Nonostante gli ammonimenti e l’isolamento, i ricordi del dio egizio Api seguivano il popolo anche nel deserto. “Tuttavia”, conclude Levi, “Mosè non ha voluto lasciare nell’oblio i sacri geroglifici, e li ha santificati al culto epurato del vero Dio”. Gli strumenti sacri e cultuali del santuario, infatti, non erano altro che simboli della “rivelazione primitiva”.
Hosarsiph, sacerdote di Osiride
Il teosofo e drammaturgo francese E. Schurè ci ricorda nei Grandi Iniziati che il primo nome di Mosè, riportato da Manetone, era Hosarsiph. Questi era figlio di una sorella di Ramses ii e cugino di Merenpath, figlio e successore del faraone. Ma per Schurè Mosè era innanzitutto “il figlio del tempio, poiché era cresciuto fra le sue colonne”. Come attestato anche da Strabone e Manetone, egli sarebbe stato “votato” dalla madre fin dall’adolescenza al culto di Iside e Osiride. Così, come il filosofo Clemente d’Alessandria, Schurè credeva che Mosè fosse profondamente iniziato all’antica scienza egizia, in quanto senza di essa l’opera mosaica sarebbe incomprensibile…
Le origini
Giuseppe Flavio, nelle sue Antichità degli ebrei che si basano su fonti perdute, ricostruisce i 400 anni di schiavitù degli ebrei in Egitto, dal 1650 al 1250 a. C. circa. La nascita di Mosè fu predetta da un “sacro scriba” egiziano che informò il faraone che stava per sorgere “uno che, diventato adulto, avrebbe messo in ombra la sovranità degli egizi e che avrebbe sorpassato tutti gli uomini per virtù, acquistandosi fama eterna”.
Il faraone, per scongiurare l’adempimento dell’oracolo, ordinò che tutti i bambini maschi degli ebrei fossero gettati nel Nilo.
Il futuro padre di Mosè, Amram, si preoccupò avendo scoperto che la moglie era in attesa di un figlio, ma Dio gli apparve in sogno per rassicurarlo. Non possiamo dimenticare che la radice del nome Mosè è di origine egiziana, derivando dalla parola egizia moses che significa “figlio, fanciullo”, formula abbreviata che ritroviamo nei nomi di faraoni quali Thut-mosis (“figlio di Thot”), Ramses (Ra-Moses “figlio di Ra”), etc. e non dalla radice ebraica mashah che significa “trarre fuori”, da cui erroneamente mosheh “salvato dalle acque”.
Ciò è stato addotto come prova alla tesi freudiana secondo la quale Mosè in realtà sarebbe stato un condottiero egiziano altolocato che solo la leggenda giudaica posteriore avrebbe reso di origine ebraica, mentre la tribù di Levi a cui, secondo la Bibbia, apparteneva, sarebbe stato il suo gruppo di fedeli accompagnatori, formato appunto da scribi e servitori leviti. La tradizione avrebbe alterato i fatti facendo di Mosè un levita. Inoltre, la storia del bambino tratto in salvo dalle acque non può non ricordare una serie di leggende e miti di re ed eroi salvati dalle acque, primo fra tutti Sargon re di Accad (2300 a. C. circa!).
Questo modello “mitico” lo ritroviamo anche nel poema Mahabharata in cui l’eroe indiano Karna, nato dall’amore tra Surja, il dio Sole, e una principessa vergine, viene affidato alla corrente: un carrettiere lo trova e, insieme alla moglie, lo alleva. Del resto anche Romolo e Remo, figli del dio Marte, sono stati abbandonati dalla madre, la sacerdotessa Rea Silvia, nelle acque di un fiume.
Questo tema ricorrente serve a legittimare il protagonista di una storia attraverso la sua particolare origine. La differenza della vicenda di Mosè dagli altri racconti consiste nel fatto che in genere in tutti i miti che riportano l’abbandono dell’eroe bambino, i protagonisti, Sargon, Ghilgamesh, Horus (nascosto dalla madre Iside tra le piantagioni di papiri per sfuggire alla persecuzione del malvagio zio Seth), Edipo, Perseo, Paride, Ercole, Romolo e Remo, Ciro etc. sono sempre figli di origine aristocratica e la loro nobile origine viene rivelata alla fine per legittimare il protagonista attraverso, appunto, la sua particolare origine. Con Mosè, invece, il meccanismo s’inceppa.
Come ha notato Freud, è l’esatto contrario: la famiglia d’origine è modesta, anzi, nella Bibbia non vengono neppure riportati i nomi dei genitori. Essi compaiono soltanto in fonti generazionali supplementari e in testi apocrifi. Il ribaltamento della regola ha fatto riflettere Freud, portandolo a ipotizzare che Mosè, come personaggio storico non poteva che essere egiziano, un nobile, e “deve essere stata la favola a farlo diventare ebreo”.
L’educazione a corte
Il filosofo greco giudaico Filone, contemporaneo di Gesù, ci ha lasciato un utilissimo resoconto su ciò che Mosè imparò a corte: “Aritmetica, geometria, la scienza del metro, ritmo e armonia, gli furono insegnate dai più colti tra gli egiziani. Essi lo istruirono inoltre nella filosofia tradotta in simboli che si trova nelle cosiddette iscrizioni sacre”. Inoltre apprese dagli abitanti dei paesi vicini “le lettere assire e la scienza caldea dei corpi celesti”. Mosè potè approfondire lo studio dell’astrologia presso la stessa corte egiziana. Secondo Schurè, Mosè venne costretto da Ramses all’iniziazione sacerdotale per timore che il giovane aspirasse al trono. L’importante funzione di “scriba sacro del tempio di Osiride” allontanava dal trono ma comprendeva “la simbolica sotto tutte le sue forme, la cosmografia e l’astronomia”.
L’istruzione presso il santuario lo avvicinava inoltre all’arca d’oro “che precedeva il pontefice nelle grandi cerimonie” e che racchiudeva “i dieci libri più segreti del tempio, che trattavano di magia e di teurgia”. Sia Giuseppe Flavio sia Filone riportano che secondo la tradizione Mosè, adottato a pieno titolo dalla famiglia reale, sarebbe stato considerato per lungo tempo come il legittimo successore al trono.
Questa designazione, o gli intrighi di Ramses in favore del figlio Merenptah, gli permisero di essere iniziato ai più arcani segreti magici e sacerdotali, ovvero a uno speciale corso di studi che avrebbe dovuto includere le scienze occulte, comprese negromanzia e divinazione. Anche secondo lo storico e linguista vittoriano sir E. A. Wallis Budge, Mosè “aveva studiato i diversi rami della magia egiziana” e come ci ricorda l’egittologo e romanziere francese C. Jacq “tutti i faraoni erano maghi come parte integrante della loro carica”.
Alla luce delle interpretazioni di questi autori si deve leggere l’affermazione biblica che descrive Mosè come “potente nelle parole e negli atti”, nonostante fosse carente nell’arte oratoria a causa di un problema di balbuzie: il potere dell’espressione indicava, infatti, la capacità di pronunciare formule magiche. Secondo Wallis Budge Mosè sarebbe stato a conoscenza della “corretta pronuncia” di formule magiche, così come la dea Iside era famosa per la sua perfezione di pronuncia degli incantesimi magici, e pertanto in grado, come ci ricorda G. Hancock, di “modificare la realtà e di superare le leggi della fisica alterando il normale ordine delle cose”, arrivando a compiere azioni che agli occhi dei non iniziati non potevano che apparire come prodigi.
Aton e il tetragramma sacro
Come ha giustamente rilevato Hancock, il mistero del nome sacro divino “Jahvè” affonda le proprie origini nella tradizione magica egiziana. Il nome Jahvè deriva dal tetragramma YHWH, trascrizione latina delle iniziali ebraiche della formula basata sul verbo essere “Io sono colui che sono”, che dovrebbe significare che Dio è il solo veramente esistente.
Il nome divino ritenuto impronunciabile viene sostituito durante la lettura dei testi ebraici dal termine Adonai, “Signore”, termine che, per la notevole somiglianza linguistica, alcuni studiosi hanno associato non solo ad “Adonis”, divinità fenicia, ma anche al nome egizio Aton, il dio del culto “monoteistico” del faraone Akhenaton. Nel 1922, infatti, due linguisti, H. Bauer e P. Leander, dichiararono che Adonai non era una parola semitica, ma un prestito “presemitico” di provenienza ignota. Questa scoperta avallò la supposizione che tra Adonai e Aton vi fosse qualcosa di più che una casuale affinità fonetica.
I seguaci di Freud poterono così ipotizzare che il nome di Aton, divinità messa al bando dai sacerdoti di Amon dopo la morte del faraone eretico Akhenaton, fosse entrata nella lingua ebraica sotto mentite spoglie con il significato di “Signore”, ma con riferimento a una divinità, anch’essa unica e assoluta.
La magia dei nomi
Durante l’apparizione nel roveto ardente, Mosè chiede a Jahvè il suo nome.
Come spiegato da J. Frazer nel Ramo d’oro, lo scopo reale della domanda va ricondotto alla figura di Mosè come mago. Infatti, ogni mago egiziano “credeva che colui che possedeva il vero nome, possedeva anche la vera essenza del dio o dell’uomo, e poteva costringere persino una divinità a obbedirgli come uno schiavo obbedisce al padrone. Perciò l’arte del mago consisteva nell’ottenere dagli deì la rivelazione dei loro sacri nomi, ed egli non lasciava nulla di intentato per raggiungere questo obiettivo”. Vedendo in Mosè un sacerdote-mago si spiega il motivo della sua domanda alla quale però trova come risposta l’enigmatica formula rituale “Io sono colui che sono”.
La divinità che gli si è rivelata conosce e pronuncia il nome di Mosè, mentre quest’ultimo non sa il nome dell’entità. Tenta quindi di carpire il vero nome divino, ossia la sua identità, per potersi sottrarre ai suoi comandi, ma non riesce ad ottenerlo e, dovendosi riconoscere sconfitto, non può che sottomettersi al suo volere e divenirne umile servitore e profeta. Da quel momento tutti i suoi poteri sarebbero derivati soltanto dall’onnipotenza divina, e per questo riuscì a soverchiare la potenza dei maghi di corte, il cui potere derivava soltanto dalla tradizione iniziatica.
Magia egizia
Dobbiamo infatti ricordare che le prime piaghe facevano parte della tradizione magica egiziana e proprio i maghi di corte, su invito del faraone imitarono le gesta “miracolose” di Mosè e Aronne mutando prima i bastoni in serpenti, poi l’acqua del Nilo in sangue (“ma i maghi d’Egitto con le loro magie operarono la stessa cosa”) e facendo uscire una moltitudine di rane dalle acque del Nilo. Soltanto alla quarta piaga, quella delle zanzare, i maghi tentarono di compiere “la stessa cosa con le loro magie, per produrre zanzare, ma non riuscirono”. Allora i maghi, ammessa la sconfitta, riconobbero nelle gesta di Mosè “il dito di Dio”. Ma non è solo la Bibbia ad attestare una connessione tra la tradizione magica egiziana e gli incantesimi operati da Mosè e Aronne.
La trasformazione del bastone magico in serpente che avviene per la prima volta al momento della rivelazione divina nel roveto ardente, era una magia tipica dei maghi egiziani ed è per questo che il prodigio non impressiona per nulla il faraone che incita i maghi e incantatori di corte a imitare l’incantesimo. Come ci ricorda ancora Wallis Budge, fin dall’antichità i sacerdoti egizi vantavano un controllo occulto sui rettili velenosi e tutti i maghi possedevano meravigliosi bastoni d’ebano come quello di Mosè. J. Böhme ha invece insistito sull’equazione volontà-iniziazione.
La volontà, che coincide con la libertà, suscitata dall’iniziazione e ispirata da Dio può condurre a compiere qualsiasi prodigio: “la Volontà che va risolutamente avanti, è la fede; essa modella la sua forma in spirito, e sottomette a sé tutto; per suo mezzo un’anima riceve il potere d’influire su un’altra, di penetrarla nelle sue più intime essenze. Quand’essa agisce con Dio, può rovesciare le montagne, spezzare le rocce […] può operare tutti i prodigi, comandare i cieli, il mare, incatenare la morte stessa; tutto le è sottomesso”.
Il Papiro Westcar
I sacerdoti egiziani si vantavano inoltre di saper controllare le acque. Così il papiro Westcar riporta una storia risalente alla Quarta Dinastia, ossia circa 1.550 anni prima di Mosè, basata sulle gesta di Tchatcha-em-ankh, un Kher Heb o Alto Sacerdote egizio legato alla corte del faraone Snofru. Il documento ci racconta di una gita in barca del faraone in compagnia di venti bellissime fanciulle. Una di queste fece cadere all’improvviso in acqua un gioiello a cui teneva molto. Vedendo la disperazione della giovane il faraone fece chiamare Tchatcha-em.ankh il quale “pronunciò alcune parole magiche e costrinse una parte delle acque del lago a sovrapporsi all’altra. In tal modo riuscì a trovare l’ornamento e lo restituì alla fanciulla […] Poi il mago pronunciò di nuovo alcune parole magiche e le acque del lago tornarono come erano prima che egli ne portasse una parte sull’altra”.
La vicenda narrata dal Papiro Westcar appare analoga alla divisione delle acque del Mar Rosso operata da Mosè. Questo particolare, come le fonti ivi esposte, hanno convinto due autori così diversi ma del calibro di Wallis Budge e di Hancock dell’appartenenza di Mosè “a un’antica, e prettamente egizia tradizione occulta”. Secondo Wallis Budge “Mosè compiva con grande abilità rituali magici e aveva una profonda conoscenza degli incantesimi e delle formule magiche che accompagnavano ogni atto […] I miracoli che compì […] lasciano credere che egli non fosse solo un prete, ma anche un mago di alto livello e forse persino un Kher Heb”, un Sommo Sacerdote!
Come Sommo Sacerdote Mosè avrebbe avuto accesso all’intera tradizione occulta egizia, alle conoscenze esoteriche e alle pratiche della scienza magico-religiosa che la casta sacerdotale custodiva, quel corpus di conoscenze segrete che studiosi, egittologi, avventurieri, sognatori, persino medium del calibro di Edgar Cayce, hanno invano cercato e tentano tuttora di ritrovare sotto le sabbie del deserto.
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