Neurobiologia vegetale, la rivoluzione delle piante
Capaci di ragionare, comunicare, difendere il proprio territorio: non parliamo né di uomini né di animali, bensì di piante. Dotate di un’intelligenza e una capacità di adattamento superiore a quella dell’uomo, potremmo prenderle da esempio per migliorare il Pianeta. Ci spiega come, il neurobiologo Mancuso.
Di Loredana Matonti
“Non è un’esagerazione affermare che l’apice della radichetta, avendo il potere di dirigere i movimenti delle parti adiacenti, agisce come il cervello di un animale inferiore; il cervello essendo situato nella parte anteriore del corpo riceve impressioni dagli organi di senso e dirige i diversi movimenti della radice”. (Charles Darwin, 1880, ne Il potere del movimento nelle piante).
A conclusioni simili arrivò anche un contemporaneo di Darwin, il celebre teosofo (ndr antroposofo) austriaco Rudolf Steiner, che paragonò la pianta a un uomo rovesciato, cogliendo l’analogia della funzione tra cervello umano e radice.
Più di un secolo dopo, queste intuizioni caratterizzano oggi una nuova frontiera della scienza: la neurobiologia vegetale che eleva le piante a esseri intelligenti, con radici capaci di attività simil-neurale. Esperimenti che stanno letteralmente rivoluzionando il modo di vedere il mondo vegetale. Scalfendo il nostro ego di esseri evoluti e più intelligenti di tutti ...
Lo abbiamo chiesto a uno dei massimi esperti in materia, il professore Stefano Mancuso che ci presenta delle prove davvero intriganti. Associato di fisiologia delle specie arboree alla Facoltà di Agraria di Firenze, dirige il Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (Linv), il primo al mondo specializzato nello studio dell’intelligenza verde, con sede nel polo scientifico universitario di Sesto Fiorentino.
Secondo il professore Mancuso è l’antropocentrismo che ci impedisce di considerare l’intelligenza vegetale: è così radicalmente diversa da quella degli animali che fatichiamo a vederla. Invece, come gli umani, le piante sanno distinguere i propri simili, comunicano in modo straordinario e, talvolta, manifestano persino istinti bellicosi. Difendono se stesse e il proprio territorio, minacciano, aggrediscono…
“Le piante pur non possedendo un cervello come noi, riescono a mostrare e rivelare un comportamento talmente bello e complesso che possiamo solo definirlo ‘intelligente’, afferma Mancuso. Gli animali hanno fondato lo stile del loro problem solving essenzialmente sulla locomozione: se c’è un pericolo scappano, se manca il cibo si alzano e vanno a cercarlo.
Le piante, invece, hanno fatto scelte evolutive diverse e non potendo muoversi hanno sviluppato una sensibilità enorme per poter sopravvivere senza scappare. Il segreto del modello evolutivo delle piante è la loro modularità.
Non hanno organi vitali singoli a cui siano demandate le principali funzioni come gli animali. Respirano con tutto il corpo e anche il “cervello” della pianta è diffuso. Le piante distribuiscono le funzioni che gli animali concentrano in organi specifici. ‘Decentrare’ è la parola d’ordine.
Come Internet, il cui successo è proprio il decentramento. Se uno dei grandi server fosse stato colpito, i dati sarebbero andati persi. Dunque, meglio diffonderli in una rete, continua Mancuso. Secondo la sua teoria, esse riescono a risolvere un problema in modo sempre più efficiente e sono perfino capaci di auto-riconoscersi”.
La vera scoperta dei ricercatori del Linv è legata all’individuazione di una regione dell’apice radicale, chiamata “zona di transizione” che sembra possedere tutti i requisiti per essere considerata una zona “simil-neurale“. Questa, spessa non più di un millimetro, possiede cellule con caratteristiche neuronali capaci di trasmissioni sinaptiche, analoghe a quelle del cervello di un animale inferiore, insetto o celenterato. Sono dotate di sensi e possiedono una capacità percettiva molto più sofisticata degli animali. Solo per fare un esempio, ogni singolo apice di una radice è in grado di percepire e monitorare simultaneamente e continuamente almeno 15 differenti parametri chimici e fisici. Così l’intuizione di Darwin e di Steiner, a più di un secolo di distanza, sembra trovare un suo fondamento scientifico.
“La cosa straordinaria – afferma Mancuso – è che tali apici lavorano insieme come fossero uno sciame di insetti, manifestando l’intelligenza tipica di una comunità. E’ dunque l’intero apparato radicale a guidare la pianta, come una sorta di cervello collettivo o, meglio, di intelligenza distribuita su una superficie che può essere enorme, come una rete di piccoli elaboratori. Ecco che possiamo rimuovere anche il 90% dell’apparato radicale e le piante continuano a funzionare”.
Memorie senza cervello
Occupandosi di intelligenza delle piante, inevitabilmente Mancuso ha dovuto studiarne anche la memoria, inseparabile requisito dell’intelligenza stessa.
Le piante da questo punto di vista sono la dimostrazione più evidente di come l’encefalo sia un “incidente” evolutosi soltanto in uno sparuto numero di esseri viventi, gli animali, mentre nella stragrande maggioranza della vita, rappresentata dagli organismi vegetali, l’intelligenza si è sviluppata anche senza un organo dedicato. Se gli animali, infatti, sono in grado di apprendere attraverso l’esperienza, le piante non sono da meno. Se sottoponiamo una pianta a uno stress ricorrente, ci accorgiamo che a quello successivo reagisce in maniera più efficiente e precisa, come se avesse appreso la lezione. Non solo.
La pianta, a differenza di certi esseri umani, non ha la memoria corta.
Esperimenti eseguiti sulla Mimosa pudica, ad esempio, dimostrano che questa dopo 40 giorni ricorda ancora uno stimolo subito. Un tempo lunghissimo se paragonato agli standard di durata della memoria in molti insetti, simile invece a quello di diversi animali superiori.
Le piante, inoltre, ricordano l’esatto momento in cui devono fiorire. Esse tengono traccia delle loro precedenti esposizioni a siccità, calore, freddo prolungato, agenti patogeni, oltre che della lunghezza del giorno. La memoria di questi eventi permette alla pianta di distinguere, per esempio, l’improvviso crollo della temperatura di una sola nottata dalla prolungata esposizione al freddo invernale che, grazie alla stabilità di questa memoria, promuove la fioritura in primavera. Ma non solo, un callo vegetale (una massa di tessuti indifferenziati) se esposto al freddo, si sviluppa in una nuova pianta che si comporta come se avesse passato un inverno rigido, senza averlo mai realmente sperimentato.
Come ciò possa avvenire senza un cervello rimane ancora un mistero. Alcune ricerche, però, sembrano attestare che la memoria delle piante venga trasmessa per via epigenetica, ossia attraverso proteine che influenzano l’espressione dei geni ma non modificano il genoma stesso.
Piante manipolatrici
Lo studio della neurobiologia ha poi persino dato luogo a interpretazioni diverse rispetto a quelle classiche sulla simbiosi tra animali e piante. Per l’ovvia impossibilità di spostarsi dal luogo in cui sono nate, le piante si trovano spesso a dover collaborare con gli animali, soprattutto in particolari momenti della loro vita, come quando se ne servono per disperdere i loro semi o per l’impollinazione. Di solito, prevedono un “premio” per questi. E’ il caso dell’insetto impollinatore ripagato col gustoso ed energico nettare, o anche dell’uomo, il miglior vettore che una pianta possa sognare su questo pianeta che, in cambio di cibo, bellezza e altri vantaggi, le diffonde per ogni dove. Le cose però non sono sempre così chiare e leali da parte delle piante. In Plant Revolution, Mancuso fa notare come a volte la loro condotta si rivela opportunistica per non dire un po’ losca e manipolatoria nei confronti del cervello animale.
A volte poi, i servigi forniti dagli animali sono utilizzati senza neppure offrire loro alcuna ricompensa. Fin qui nulla di davvero nuovo: inganno, truffa e disinformazione sono pratiche comuni a tutti gli esseri viventi, piante incluse.
Un esempio ci è dato dalle specie vegetali mirmecofile, quelle che attirano le formiche, come le acacie native dell’Africa o dell’America latina. Queste ultime offrono alle formiche cibo, alloggio e bevande gratis, nella forma di graditissime produzioni di nettari extrafiorali e, in cambio, questi insetti si incaricano di difenderle da qualunque aggressore vegetale o animale che possa in qualche modo danneggiare la pianta. Fino ad attaccare persino elefanti o giraffe e a farli desistere dal brucare le loro protette.
Non solo, anche qualsiasi piantina che si azzardi a spuntare nel raggio di qualche metro dalla pianta ospite viene tritata senza pietà. Così, non è raro vedere delle piazzole perfettamente circolari sotto le acacie, prive di qualsiasi vegetazione, chiamate i “giardini del diavolo” dalle popolazioni locali.
A prima vista tutto bene quindi, solo uno splendido esempio di simbiosi mutualistica. Tuttavia le cose non stanno proprio in questi termini e di recente numerosi studi fanno emergere un quadro più inquietante. Sotto la facciata di un idilliaco rapporto di reciproco beneficio, sembrerebbe nascondersi una turpe storia di manipolazione e inganno.
Il nettare fiorale destinato alle formiche infatti, non contiene solo zuccheri, ma anche alcaloidi che inducono dipendenza e aminoacidi non proteici come l’acido gamma-amminobutirrico (GABA), taurina e beta-alanina che svolgono un’importante funzione di controllo sul sistema nervoso degli animali, regolandone l’eccitabilità neuronale e, quindi, il comportamento.
“Ciò che si è scoperto – afferma il professore – è che le acacie si comportano come degli spacciatori provetti: prima adescano le formiche col nettare dolce e ricco di alcaloidi e, una volta dipendenti, ne controllano i comportamenti, ad esempio aumentandone l’aggressività o la mobilità sulla pianta semplicemente modulando la quantità e la qualità delle sostanze neuroattive nel nettare. Non male per degli esseri che continuiamo a percepire come indifesi e passivi ma che, proprio perché radicati al suolo, hanno fatto della loro capacità di manipolare gli animali attraverso la chimica, una vera e propria arte”.
I vegetali manipolano anche gli esseri umani
“Non bisogna pensare che noi uomini intelligenti siamo immuni alla sottile malìa con cui le piante manipolano gli animali. Anzi. Prendiamo il caso dei peperoncini. In particolare pensiamo ai “capsicofagi“, coloro che mangiano regolarmente peperoncini interi piccantissimi, alternandoli ritmicamente ai bocconi del loro pasto. Una “razza” che è presente in ogni parte del mondo, assuefatta all’alcaloide capsaicina che induce dipendenza.
Quando il corpo percepisce il dolore sulla lingua dà il via libera a una cascata di segnali che arrivano al cervello che, per alleviare la sofferenza, produce endorfine, un gruppo di neurotrasmettitori dotati di proprietà analgesiche e fisiologiche simili a quelle della morfina, ma molto più potenti.
La sensazione di benessere delle endorfine inducono dipendenza e sono la chiave per capire l’arcano potere del peperoncino, di cui ogni anno vengono selezionate dall’uomo varietà sempre più piccanti.
La mia teoria è che così come hanno fatto molte altre piante, produttrici di sostanze che inducono dipendenza, anche il peperoncino si è affidato alla chimica per legare a sé il più potente e versatile dei vettori umani: l’uomo.
La capsaicina infatti, a differenza di altri alcaloidi, ha un’azione esclusiva sugli umani e non su altri animali“, racconta il professore.
“Se la mia teoria circa la condizione di schiavitù in cui l’alcaloide ha ridotto noi mammiferi capsicofagi può non convincere, basta farsi un giro in una delle mille fiere del peperoncino che ogni anno si allestiscono in ogni Paese del mondo, in cui i capsicofagi vanno a caccia delle nuove varietà di peperoncini più piccanti, studiando la composizione di salse con nomi da film horror o apocalittici, indossando berretti con stampata la formula della capsaicina. Alcuni se la fanno tatuare persino sulla gola, indossando magliette con la scritta “Pain is good! (il dolore è buono)”. Se non è dipendenza questa! La strategia che questa specie ha messo in atto per rendere dipendente l’uomo e metterlo al suo completo servizio, le ha permesso in pochi secoli di diffondersi sull’intero pianeta. Un’avanzata unica e incontrastabile, alla conquista dei più remoti luoghi della Terra. Nessun altro vettore animale avrebbe potuto fare nulla di simile in così breve tempo”.
Le piante, quindi, spenderebbero energie nella produzione di molecole per controllare il cervello animale, ma a quale scopo?
“Le correnti teorie neurobiologiche sul consumo di droga si basano sulla constatazione che tutte le molecole che creano dipendenza attivano un’area cerebrale deputata alla gestione della dipendenza. Ogni qualvolta che facciamo qualcosa di utile per la nostra sopravvivenza questa zona molto antica del cervello ci ricompensa col piacere, inducendoci a ripetere l’azione. Agendo sullo stesso sistema, le droghe invogliano a reiterare il consumo della molecola che ha attivato il meccanismo della ricompensa, creando dunque dipendenza. Se accettiamo l’idea che i principali alcaloidi (caffeina, nicotina etc.) non siano solo neurotossine prodotte per scoraggiare gli erbivori ma, al contrario, uno strumento col quale certe piante attraggono gli animali e ne manipolano il comportamento, il paradosso è presto risolto, aprendo anche alla ricerca neurobiologica di strumenti efficaci per combattere l’uso delle droghe.
E se inoltre, come credo, riusciremo a dimostrare che anche che la produzione di molecole neuroattive delle acacie è utilizzata per manipolare il comportamento delle formiche, avremo una prova di questa non trascurabile capacità. Un’abilità che cambierebbe la nostra stessa visione delle piante. Da semplici esseri passivamente in balia delle necessità animali a organismi complessi, in grado di manipolare i comportamenti altrui. Un bel ribaltamento di ruoli”, afferma Mancuso.
Piante e tecnologia
Ciò che colpisce nei libri del professore Mancuso, è il consiglio ricorrente di provare a cercare delle soluzioni tecnologiche ai problemi che affliggono l’umanità prendendo esempio dalle piante.
Barbara Mazzolai davanti a un Plantoide - L'articolo: "Plantoide, il robot-pianta che rivoluziona l’agricoltura e il pianeta“
Immaginiamo di poter costruire dei robot ispirati dalle piante, suggerisce il professore. Finora, l’uomo si è ispirato solo ad altri uomini o agli animali per produrli. Abbiamo già gli androidi che si ispirano all’uomo. E allora perché non abbiamo nessun plantoide? Se vogliamo volare è giusto osservare gli uccelli. Ma se vogliamo esplorare i terreni, o se vogliamo colonizzare nuovi territori, la miglior cosa è lasciarsi ispirare dalle piante, che sono maestre in questo campo.
Immaginiamo di poter costruire dei robot ispirati dalle piante, suggerisce il professore. Finora, l’uomo si è ispirato solo ad altri uomini o agli animali per produrli. Abbiamo già gli androidi che si ispirano all’uomo. E allora perché non abbiamo nessun plantoide? Se vogliamo volare è giusto osservare gli uccelli. Ma se vogliamo esplorare i terreni, o se vogliamo colonizzare nuovi territori, la miglior cosa è lasciarsi ispirare dalle piante, che sono maestre in questo campo.
È molto più facile lavorare con i vegetali che con gli animali, perché hanno capacità elaborative, mandano segnali elettrici. Il legame con una macchina è molto più semplice e anche molto più eticamente accettabile. E queste sono tre possibilità alle quali stiamo lavorando per costruire degli ibridi derivati dalle alghe o dalle foglie e, infine, dalla parte più forte della pianta, le radici.
Essere cooperativi come le piante
è il modello del futuro
Le piante c’erano prima di uomini e animali e probabilmente ci saranno anche dopo, a livello di strategie evolutive, non hanno rivali e, visti tutti i problemi che affliggono l’umanità, secondo Mancuso non possiamo che prenderne l’esempio. L’individualismo esasperato della nostra società porta a distruggere beni comuni ed è antitetico rispetto alla cooperazione e alla democrazia verde. In alcuni dei suoi libri suggerisce che dovremmo prendere le piante anche come mirabile esempio sociale.
Il modello animale è solo all’apparenza più stabile ed efficiente: in realtà è un modello ingessato.
Ogni organizzazione in cui la gerarchia affida a pochi il compito di decidere per molti è inesorabilmente destinata a fallire, specie in un mondo che richiede soluzioni differenti e innovative.
Il futuro non potrà che far propria la metafora vegetale. La rivoluzione è già in atto anche se non ce ne accorgiamo.
Grazie a Internet, i casi di organizzazioni non gerarchiche e distribuite, simili a strutture vegetali, si moltiplicano, guadagnano consensi e soprattutto, producono mirabili risultati. Wikipedia è un ottimo esempio: grazie al contributo di milioni di collaboratori è riuscita nell’impresa, apparentemente miracolosa, di produrre un’enciclopedia enorme, diffusissima e soprattutto esatta, senza alcuna forma di organizzazione gerarchica e senza alcun incentivo finanziario.
Sembra incredibile per i nostri modelli che un’organizzazione possa aver successo senza un controllo gerarchico, ma questa è solo l’anticipazione di quello che le società vegetali sanno già fare.
Il futuro che immagino sarà sempre più ricco di modelli che rinunciano a un controllo verticale dei processi decisionali e in cui tutte le funzioni, anche quelle imprenditoriali, così come i diritti di proprietà, saranno ben distribuiti.
Nel 2050 saremo dieci miliardi di persone, tre miliari e mezzo in più di quanto siamo oggi e molti sono allarmati perché ritengono non avremo risorse a sufficienza. Io non appartengo a questa schiera.
Tre miliardi di teste in più, se fossero lasciate libere di creare, non sono un problema, ma un’enorme risorsa.
Sembrerà un paradosso, ma nel prossimo futuro dovremo per forza ispirarci alle piante per ricominciare a “muoverci”. Parola di Stefano Mancuso.
Fonte: www.nogeoingegneria.com
Fonte: www.nogeoingegneria.com
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