di Felice Lima
Il c.d. Coronavirus è una grande opportunità per prendere coscienza del rapporto che abbiamo con la realtà.
La mia modesta opinione è che avere un corretto rapporto con la realtà – che non significa “conoscere la verità” – sia il più importante ed efficace strumento per cercare la felicità.Il soggettivismo e il relativismo dei quali il nostro tempo è intriso ci hanno affrancati dal dogmatismo e resi più liberi, ma purtroppo ci hanno rinchiusi nel nostro mondo interiore.
Lo sfacciato sdoganamento etico dell’egoismo e dell’edonismo hanno aggravato la nostra condizione, riducendoci a dei di noi stessi e riducendo il mondo in cui viviamo nella sola rappresentazione che ce ne facciamo.
Il realismo antico concepiva la conoscenza come adaequatio rei et intellectus, attività che costringeva l’uomo a uscire da sé per indagare la realtà e comprenderla.
Il nostro tendenziale atteggiamento odierno consiste nel vivere guardando prevalentemente dentro noi stessi e uscendo da noi solo per prelevare dal reale ciò che riteniamo funzionale ai nostri progetti e alla nostra rappresentazione individuale del nostro ruolo nel mondo.
Noi non ci sogniamo neppure di adattarci al mondo e agli altri. Abbiamo la pretesa di usare il mondo e gli altri ...
Prescindendo da qualsiasi considerazione di natura etica, questo atteggiamento è palesemente disfunzionale.
Noi umani, infatti, siamo una minima – sia in senso spaziale che temporale – manifestazione del reale.
Viviamo pochissimo – un’ottantina d’anni quando va bene, in un universo la cui età è attualmente stimata in 15 miliardi di anni – e occupiamo un infinitesimo dell’universo naturale.
La nostra vita fisica è oggettivamente estremamente fragile e precaria.
Ci sono mille circostanze che possono causare la morte di chiunque di noi in qualsiasi momento.
Lo sapevano benissimo gli antichi.
Fra i tanti, lo scrisse benissimo Seneca e, con parole semplicissime, lo spiega a tutti il Vangelo in tanti suoi brani: per tutti, “Vegliate e state pronti, perché non sapete in quale giorno verrà il Signore” (Mt 24,37-44).
La morte – fatto certo e noto a tutti – è il più grande monito a favore di un sano approccio umile alla realtà.
Ma noi lo abbiamo neutralizzato.
Il nostro tempo si difende dalla morte non pensandoci. Rimuovendola dalla narrazione quotidiana degli eventi.
E, quando questo è più difficile, cercando argomenti che la allontanino da noi: ha avuto il cancro perché fumava, ha avuto l’infarto perché mangiava cibi grassi, ecc..
Il primo grande pregio del c.d. Coronavirus è ricordarci e sbatterci in faccia la morte.
Come fatto oggettivo e come fatto che riguarda tutti e anche noi.
L’altro problema che pone il nostro rapporto con la realtà sta nel fatto che qualsiasi cosa viva è dinamica.
Tutto ciò che è vivo si sviluppa, cambia, evolve.
Le cose sono tendenzialmente fisse. Gli esseri viventi sono dentro un dinamismo per la quasi totalità non controllabile.
Ed è dimostrato scientificamente che, in coerenza con questo, la principale attitudine che hanno gli esseri viventi di ogni ordine è quella di adattarsi all’ambiente, alla realtà.
L’adattamento è frutto della necessità.
E’ il bisogno che genera la virtù.
E’ ancora la Sacra Scrittura a dirlo a tutti con grande semplicità: «Virtus in infirmitate perficitur» (San Paolo, 2 Cor 12, 9) (la virtù si rafforza nella debolezza).
Il nostro tempo, caratterizzato da un atteggiamento di chiusura in se stessi, da un’idea dell’obiettivo della vita come tensione verso la realizzazione dei propri progetti, dalla pretesa del controllo sul presente e sul futuro, dalla presunzione arrogante di potere difendere la nostra vita e i nostri beni dagli accadimenti di oggi e di domani, è l’esatto contrario dell’attitudine dei viventi che ho appena riassunto.
L’ordine e la certezza uccidono la vita e le virtù.
La tendenza a vivere “in difesa”, di noi stessi, dei nostri beni, dei nostri progetti ci rinchiude e ci induce a resistere a qualsiasi vera novità.
Odiamo la necessità e la combattiamo come un male.
Questo ci rende chiusi, impermeabili alla realtà. E conseguentemente statici e, sostanzialmente, morti. Morti nell’anima.
Convinti di avere il controllo, solo perché abbiamo ridotto la nostra vita – il bene da controllare – a pochissima cosa. A quello stupido magazzino pieno di grano di cui parla Gesù quando biasima il ricco di cui al Vangelo di Luca 12,16-21.
Dunque, questa è l’altra ragione per la quale il c.d. Corinavirus è una novità della storia estremamente positiva.
E’ una novità e, soprattutto, è una novità che si impone.
Una novità che ci impedisce di negare la realtà guardando da un’altra parte.
In questi giorni patiamo il dilagare di una retorica insopportabile, che usa in maniera inappropriata parole delle quali non comprendiamo esattamente il significato.
Si parla di “guerra”, di evento il più catastrofico dell’ultimo secolo, di tragedia epocale e simili.
In realtà nell’ultimo secolo, come in tutti i tempi, di tragedie come e ben più gravi di quella qui in discussione il mondo ne ha viste tante.
Ma noi occidentali benestanti non le abbiamo proprio considerate. Perché riguardavano altri.
Quando l’Africa moriva di HIV perché noi difendevamo immoralmente i nostri diritti economici sui brevetti dei medicinali, noi compravamo spensieratamente automobili e televisori.
Il Coronavirus è un evento, finalmente, democratico. Che si impone anche agli egocentrici dolosamente e ostinatamente distratti come noi.
Ovviamente, come tutti gli eventi che interferiscono con le nostre vite, le loro conseguenze non dipendono solo dalla loro natura intrinseca, ma in grande parte anche dal modo con cui noi ci rapportiamo con essi.
Mille esempi si possono fare di cose in sé buone che rovinano le vite di alcuni per come essi le affrontano e, al contrario, di cose ritenute (a torto o a ragione, perché spesso è una questione relativa, di prospettiva) in sé cattive che sono occasione di grandi cambiamenti positivi nelle vite di chi si trova a confrontarsi con esse.
Dunque, come tutte le cose della realtà che ci circonda anche il Coronavirus è per noi solo una possibilità, un’occasione. Una grande opportunità.
Possiamo viverlo come si vede farlo a tantissimi – troppi – come causa di tristezza, di rabbia, di rancore, di paura, di angoscia, oppure come l’occasione per cambiare prospettiva rispetto a noi stessi e alla nostra vita.
Come l’opportunità di uscire dal nostro piccolo progetto meschino e vivere davvero la vita, la cui cifra chiara ed evidente per chi voglia avere occhi per vederla è il mistero, l’imprevedibilità, sotto certi profili la casualità o la provvidenzialità.
Resta la questione economica.
Paradossalmente, nel nostro approccio egotista/meschino all’esistenza, per molti il danno economico costituisce motivo di angoscia ancora più grande dello stesso rischio della vita.
E, paradosso nel paradosso, l’Italia è il paese o uno dei paesi nei quali vi è il più inefficiente rapporto fra debito pubblico e risparmio privato.
Abbiamo più debiti pubblici di tutti gli altri e contemporaneamente più risparmi privati di tutti gli altri.
Siamo un paese nel quale coloro che hanno accatastano.
La quasi totalità di chi ha muore lasciando una grandissima parte di ciò che ha.
Il massimo dell’efficienza economica individuale sarebbe morire avendo speso (essendosi goduti) tutto ciò che si è riusciti a ottenere (guadagnandolo o, come tante volte avviene in Italia, rubandolo).
Invece, moriamo lasciando non spesa e, dunque, sprecata la più gran parte di ciò che avevamo.
Sarebbe, quindi, del tutto ragionevole che chi ha si chiedesse oggi che senso ha essere tristi e angosciati per il rischio di perdere una parte di ciò che ha ma che non si sarebbe comunque goduto.
E poi ci sono tanti – decisamente troppi – quelli che non hanno.
E anche in questo il Coronavirus è una grandissima opportunità.
Per rivedere la principale, più grave e più evidente malattia del nostro tempo: l’immenso e sempre crescente divario fra sempre più abbienti e sempre più poveri o comunque meno abbienti.
Tutti sembrano credere che i problemi dell’economia stiano sul fronte che divide i cosiddetti di destra dai cosiddetti di sinistra, nascondendo così l’evidenza che il fronte è un altro: un modello economico sociale fondato sul potere dei più forti e, dunque, in definitiva, sull’ingiustizia sociale.
Anche in questo caso, a prescindere da qualsiasi valutazione etica, la difesa dell’accumulo di ricchezze che non verranno fruite in danno di chi non ha neppure ciò che è indispensabile è oggettivamente disfunzionale.
Il Coronavirus infligge a tanti sacrifici anche molto dolorosi.
Sarebbero eliminati d’un colpo se si prelevasse il denaro necessario dal surplus di chi può perdere senza patire reali conseguenze da tale perdita.
La natura rende il Coronavirus democratico con riferimento alle questioni sanitarie.
Renderlo democratico con riferimento alle questioni economiche è compito nostro.
Quelli che ho provato a riassumere (i temi sono complessi e richiederebbero ben maggiore approfondimento) sono solo alcuni dei tanti lati positivi dell’esperienza di questi giorni.
Mi fermo segnalando un altro tema: solo il presente è.
Il passato non c’è più e il futuro non c’è ancora e, per ognuno di noi, potrebbe addirittura non esserci mai.
Il passato non c’è più e il futuro non c’è ancora e, per ognuno di noi, potrebbe addirittura non esserci mai.
E’ qui e ora che dobbiamo vivere bene e felici.
Come dimostrano le vite di tantissimi, in ogni tempo e in ogni luogo sta a noi scegliere il nostro approccio con ciò che ci accade, perché, diversamente da ciò che tanti crediamo, la nostra più autentica libertà non è quella di sceglierci la vita (che quasi sempre «ci accade mentre siamo impegnati in altri programmi»), ma quella di accettare o no ciò che ci accade.
Luminose sul punto le pagine del Diario di Etty Hillesum: «C’è una grande differenza tra cercare la sofferenza e accettare la sofferenza. Nel primo caso si tratta di un masochismo morboso; nel secondo, di un sano consenso alla vita. Non dobbiamo cercare di “soffrire”, ma quando la sofferenza arriva, non dobbiamo fuggirla. Ed essa ci arriva a ogni passo - cosa che non impedisce alla vita di essere bella! E’ cercando di giocare a nascondino con la sofferenza, maledicendola, che si soffre di più»; «Il dolore non è il luogo del nostro desiderio, ma quello della nostra piena verità ... Non pretendo che dobbiamo fare del dolore uno stato di elezione. Si deve invece fare di tutto per liberarsene. Ma lo si deve anche conoscere. Il vero uomo non è padrone del proprio dolore, non lo fugge, non ne è lo schiavo. Deve esserne il redentore».
Dunque, anche il Coronavirus come tutte le cose che accadono è l’ennesima occasione per scegliere chi e cosa vogliamo essere.
Se esseri infelici, tristi e arrabbiati, in definitiva a ben vedere ingrati rispetto al tantissimo che abbiamo (la vita per prima), oppure aperti alla vita, umili e grati e, conseguentemente, felici.
Se il vangelo sembra citazione non convincente, interessante è la chiusa di un libro di Paul Watzlawick (paradossalmente, rispetto a quanto ho sostenuto fin qui, autorevole figlio del relativismo), Istruzioni per rendersi infelici: Nei Demoni, uno dei personaggi più enigmatici che Dostoevskij abbia mai creato dice: “Tutto è buono ... Tutto. L’uomo è infelice perché non sa di essere felice. Soltanto per questo. Questo è tutto, tutto! Chi lo comprende sarà subito felice, immediatamente, nello stesso istante ...”. Così disperatamente semplice è la soluzione».
Per non restare al solo piano intellettuale e trasferire il tutto sul piano più appassionante del reale, la capacità di vivere sperimentando avventure che diano senso all’esistenza, mi permetto di riportare una scena di un film che amo moltissimo: “Viaggio in Inghilterra”. Tratto da un bellissimo libricino (Diario di un dolore) che racconta la vera esperienza del lutto di C.S. Lewis per la morte della amata moglie: «Non so se Dio ci vuole necessariamente felici. Io credo che ci voglia capaci d’amare e di essere amati. Vuole che cresciamo. Da piccoli crediamo che i giocattoli ci diano tutta la felicità del mondo. E la nostra stanza dei giochi è il mondo intero. Ma qualcosa, qualcosa deve spingerci fuori dalla stanza dei giochi, nel mondo degli altri. E questo qualcosa è la sofferenza».
Anthony Hopkins in una scena del film Viaggio in Inghilterra
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