Quando incomincia il postmoderno? E, innanzitutto, che cos’è il postmoderno?
Citiamo la definizione data dall’Enciclopedia Treccani:
Termine usato per connotare la condizione antropologica e culturale conseguente alla crisi e all’asserito tramonto della modernità nelle società del capitalismo maturo, entrate circa dagli anni 1960 in una fase caratterizzata dalle dimensioni planetarie dell’economia e dei mercati finanziari, dall’aggressività dei messaggi pubblicitari, dall’invadenza della televisione, dal flusso ininterrotto delle informazioni sulle reti telematiche.
In connessione con tali fenomeni, e in contrasto con il carattere utopico, con la ricerca del nuovo e l’avanguardismo tipici dell’ideologia modernista, la condizione culturale postmoderna si caratterizza soprattutto per una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo, e per l’abbandono dei grandi progetti elaborati a partire dall’Illuminismo e fatti propri dalla modernità, dando luogo, sul versante creativo, più che a un nuovo stile, a una sorta di estetica della citazione e del riso, ironico e spregiudicato, del repertorio di forme del passato, in cui è abolita ogni residua distinzione tra i prodotti “alti” della cultura e quelli della cultura di massa ...
Come si vede, non si tratta di una filosofia, se filosofia è interpretazione critica della realtà alla luce della sana ragione naturale, ma semplice presa d’atto di una certa situazione storica, peraltro limitandosi a privilegiare gli aspetti più vistosi e appariscenti. Per esempio, che cosa significa un’espressione come l’invadenza della televisione?
La televisione è invadente per coloro che si lasciano invadere: non è un fatto oggettivo, ma soggettivo.
Compito della filosofia dovrebbe essere capire e spiegare perché la gente si lasci invadere così facilmente da ciò che le nuoce; prendere atto di un simile fenomeno è compito della sociologia e della psicologia. E cosa vuol dire abbandono dei grandi progetti elaborati a partire dall’Illuminismo? Forse quei progetti non erano poi così grandi, visto che sono stati abbandonati; ciò che è veramente grande è anche perenne, perché ha le sue sorgenti in una disposizione naturale dell’uomo. Insomma, c’è una serie di constatazioni, ottenute selezionando alcuni fatti e tralasciandone altri, magari meno vistosi, ma più significativi; ma questo non è fare filosofia, è descrivere parzialmente a soggettivamente un certo stato di cose, senza interpretare un bel nulla.
Pertanto, se qualcuno viene a parlarvi della filosofia postmoderna o dei filosofi postmoderni, dovete rendervi conto che costui s’inganna o cerca d’ingannarvi.
E adesso: quando ha inizio il postmoderno (il termine, sia detto fra parentesi, è tratto dal linguaggio dell’arte novecentesca e originariamente descrive uno stile architettonico)? Le sue radici remote affondano nel pensiero di Nietzsche ed Heidegger, in quanto critici radicali della modernità; quelle più prossime in quello di Jean-François Lyotard (1924-1998), di Gianni Vattino (classe 1936) e di Richard Rorty (1931-2007) nonché, per certi aspetti, di Robert Nozick (1938-2002). Un dettaglio di cui tener conto: Nozick era ebreo d’origine russa; la moglie di Rorty, Amélie Oksenberg, conosciuta a sua volta come filosofa, era un’ebrea di origine polacca.
Se la Scuola di Francoforte era ebraica al 90% e il Circolo di Vienna lo era almeno al 50%, anche nelle matrici del postmoderno vi è una presenza ebraica, specie nei predecessori di riferimento: Jonas, Buber, Lévinass, Rosenzweig.
Ne prendiamo nota e andiamo avanti.
La formulazione più completa di ciò che s’intende per postmoderno è quella data da Lyotard nel suo celebre La condition postmoderne, del 1979.
Lyotard viene dalla fenomenologia di Husserl e dall’immancabile marxismo, che è una presenza fissa in tutti questi pensatori, e afferma che la modernità, che si sta esaurendo nelle società industrialmente avanzate e informatizzate, era caratterizzata dai grandi racconti (grands récits) o “favole per adulti”, che più propriamente si dovrebbero chiamare meta-racconti o meta-narrazioni (métarécits) per il loro caratteristico porsi “oltre” le narrazioni particolari, proprie della società pre-moderna.
Lo scopo delle meta-narrazioni è stato quello di legittimare l’ideologia del progresso illimitato; ma ora quell’ideologia è in crisi, e quindi sono in crisi anche i racconti relativi ad essa.
Altro padre nobile del postmoderno è Gianni Vattimo, teorico del “pensiero debole”. Altra contraddizione in termini, e sia pure tenendo conto dell’inclinazione all’ironia, tanto diffusa tra questi nobili maîtres-à-penser.
Secondo lui, siamo giunti alla “fine della storia”. Non è un pensiero particolarmente originale: lo ha detto, a suo modo, Francis Fukuyama, e prima di lui Oswald Spengler, almeno con riguardo all’Occidente.
Più interessante è vedere perché, secondo Vattimo, siamo giunti al capolinea della storia, nel senso di una storia unitaria: perché l’affermarsi della società di massa e del pluralismo culturale ne ha minato le basi. Di nuovo, una mera (e banale) constatazione al posto di un ragionamento.
Dov’è il ragionamento in base al quale egli afferma la sua tesi?
Il ragionamento, se di un ragionamento si può parlare, è auto-contraddittorio: da una parte egli riconosce che, come dice McLuhan, i mass-media hanno creato un villaggio globale, e quindi le condizioni per lo stabilirsi di un’immagine unitaria del mondo; dall’altro osserva che proprio i mass-media hanno moltiplicato i centri d’informazione e diffusione delle notizie – come possa dire una cosa simile, non si sa – e quindi, semmai, chiude in pareggio con se stesso: uno a uno.
In effetti, il pensiero debole, che scaturisce da queste traballanti premesse (traballanti sul piano logico e speculativo) non è altro che una forma di nichilismo, definizione della quale il filosofo torinese si compiace perché, a suo dire, il nichilismo è una parola chiave della nostra cultura, addirittura una sorta di destino (ancora Spengler, ma non dichiarato!).
E già s’intravedono all’orizzonte le vivide fiamme d’un tramonto wagneriano.
Sì, perché in fondo a ogni nichilista c’è un segreto amore per Wagner e la Cavalcata delle Walkirie, una specie di nietzschiana nostalgia del vivere pericolosamente e del relativo cupio dissolvi.
Seguono lunghi discorsi sulla nostalgia (lupus in fabula), delle totalità perdute, quando avrebbe potuto semplicemente dire: di un’immagine ordinata del mondo. Ma i nichilisti hanno bisogno del disordine, del caos, perché l’ordine va loro stretto, sa di autoritarismo, di bigottismo.
Del resto, Vattimo ama definire il suo nichilismo un nichilismo debole, ovvero “della leggerezza”, vale a dire senza rimorsi né rimpianti: un nichilismo così, sprofondiamoci nel nulla senza malinconie, quasi un foscoliano e naufragar m’è dolce in questo mare.
Insomma, son venuti meno gli assoluti metafisici: ma perché?
La cosa viene osservata, anzi viene posta, ma non si tenta di spiegarla: almeno non in profondità. Ma le spiegazioni del reale devono sempre andare in profondità; altrimenti che spiegazioni sono?
Per colmare le debolezze del proprio pensiero, Vattimo parla di strutturale indebolimento dell’essere e poi distribuisce un certo numero di concetti presi da Heidegger, perché le parole tedesche, come Verwindung (guarigione, accettazione, rassegnazione, svuotamento, ecc.) fanno sempre un certo effetto. Peccato che siano intrinsecamente ambigue, e scelte proprio per questo da Heidegger, altro maestro del nulla, in modo da poter dire tutto e il contrario di tutto, ma sempre con l’aria di chi la sa lunga e non si fa mai cogliere muto e impreparato, di qualsiasi cosa si parli.
In questo senso potremmo anche parlare del posto moderno come della versione pseudo-filosofica della tuttologia, un’attività tipicamente post-moderna. Basti vedere i salotti televisivi coi loro magnifici ospiti fissi, letteralmente blindati in sempiterno nelle loro poltroncine, e certi sedicenti festival della filosofia, come quello che si tiene da qualche anno a Sassuolo in provincia di Modena, vere sagre della più tronfia autoreferenzialità.
Veniamo a Rorty. Egli afferma, modestamente, che dobbiamo sbarazzarci di un modo di pensare due volte millenario. Ce l’ha con quella che chiama la “filosofia ufficiale”: e ci mette dentro tutto, dai greci a Kant, senza distinzione, accomunando democraticamente tutti i filosofi degli ultimi duemila anni in un’unica, acerba reprimenda.
Di cosa sono colpevoli tutti costoro?
I “classici”, come Platone, di aver diffuso dei miti, delle forme di pensiero descrittivo la cui corrispondenza con la realtà oggettiva è quanto mai problematica; i moderni, specialmente Cartesio, Locke e Kant, di aver fabbricato altri miti, perché la loro pretesa di assumere un punto di vista esterno e oggettivo era palesemente velleitaria e infondata.
Secondo Rorty, la filosofia in se stessa è una specie di malattia: meglio dunque abbandonarla e passare alla post-filosofia; che, però, non è la rinuncia pura e semplice a filosofare, bensì un filosofare rinunciando alla fondazione sistematica dell’essere e della conoscenza. Molto bene.
Ci permettiamo solo, sommessamente, una piccola domanda: se si rinuncia alla fondazione dell’essere e del conoscere, quel che resta è ancora filosofia? O è un’altra cosa: chiacchiera, soliloquio?
Alla fine dei suoi ragionamenti, Rorty si consola di aver amputato quasi tutto ciò che fa della filosofia ciò che essa è, sostenendo che bisogna creare nuove maniere di vivere e di pensare. Di vivere? È questo il compito della sua post-filosofia, o non-filosofia?
Ed ecco il solito debito con la matrice marxista: anche Marx vuole usare la filosofia per cambiare il mondo e non per spiegarlo.
Di nuovo ci permettiamo una domanda: cosa significa cambiare il mondo, se si nega il “pensiero forte” e si fa l’elogio del pensiero debole?
Sulla base del pensiero debole, come si può avere la pretesa di cambiare la vita delle persone?
Eppure, è proprio quello che sta accadendo: Rorty è il vero nume ispiratore del Nuovo Ordine Mondiale.
Nulla sarà più come prima, ci dicono e ci ripetono, in particolare dal marzo del 2020, cioè dai primissimi giorni della cosiddetta emergenza sanitaria: ma su quali basi, noi non lo sappiamo. In compenso ce’è qualcun altro che lo sa: quelli stessi che hanno architettato il colpo di stato mondiale camuffato da pandemia e da terribile emergenza sanitaria. Meno male: è una cosa buona che qualcuno lo sappia; anche se prendiamo atto che quel qualcuno non siamo noi.
Resterebbe da dire qualcosa di Robert Nozick, enfant prodige - si fa per dire, poiché era già più che quarantenne – dell’era Reagan, ascoltato e apprezzato filosofo neoliberista con qualche curiosa spruzzatina di anarchismo.
Qualcuno potrebbe contestare il suo inserimento fra i pensatori del post-moderno.
Quanto a noi, il legame fra Nozick e il post-moderno lo vediamo precisamente nella sua particolare forma di libertarismo fondata sul concetto della libertà negativa, ossia della libertà come assenza d’impedimenti.
Egli spinge tanto oltre questo concetto da ritenere leciti i contratti di servitù volontaria, purché sottoscritti fra soggetti consenzienti. In altre parole, Nozick non trova nulla da eccepire se una persona decide di vendersi, o di vendere le proprie prestazioni sessuali, o magari di vendere organi del proprio corpo, purché quella persona sia libera da costrizioni.
Non gli viene in mente che ci sono forme di schiavitù volontaria, o di prostituzione, nelle quali la libertà soggettiva è del tutto teorica: come nel caso di un soggetto poverissimo e disperato che non sa come fare per mantenere la propria famiglia, a meno di vendere un rene o un’altra parte del suo corpo ad una multinazionale specializzata in simili traffici.
Fautore dello stato minimo, talmente minimo che si stenta a capire cosa ci stia a fare, uno stato che non ha il diritto d’imporre o di chiedere praticamente nulla ai suoi cittadini, non lo sfiora neppure la mente che fra i compiti utili dello stato ci potrebbe essere proprio la sorveglianza affinché simili traffici obbrobriosi siano aboliti e il ricco sia messo nell’impossibilità di approfittarsi in maniera tanto sfacciata e inumana di colui che versa in un grave stato di bisogno.
Nozick è un pensatore post-moderno perché teorizza uno stato talmente “leggero” che, dal punto di vista sociale, non serve praticamente a nulla, se non a fare il cane da guardia della situazione esistente (Hegel? tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale); ma si guarda bene dal teorizzare qualcosa che ne faccia le veci, che serva a tutelare il bene comune e a favorire un minimo di giustizia sociale.
E come Jean-François Lyotard annuncia la fine delle narrazioni, o meglio delle grandi narrazioni, evidentemente per socchiudere l’uscio al rientro delle piccole; e Gianni Vattimo teorizza la fine della storia, ma non proprio della storia, bensì della storia unitaria; e Richard Rorty la fine della filosofia, ma non proprio della filosofia in sé, bensì della vecchia maniera di fare filosofia: così Robert Nozick, a ben guardare, teorizza la fine dello stato e della società organica, ma non si capisce bene con che cosa immagini di rimpiazzarli.
Sono tutti così, i pensatori post-moderni: tolgono, aboliscono, mettono in liquidazione, rilasciano certificati di morte e pronunciano orazioni funebri: però nessuno ha compreso se abbiano in mente qualche cosa che valga ancora, non diciamo a capire il mondo, ma almeno a viverlo in maniera umana.
Il loro è un nichilismo che poco si preoccupa del dopo. L’importante, come diceva una vecchia canzone, è finire. L’importante è essere i becchini della modernità. Il che, di per sé, non sarebbe una cosa cattiva: se non fosse che questi signori sono tutti, senza eccezioni, figli a pieno titolo della modernità, benché sazi e annoiati: pertanto non è da loro che può venire una critica seria.
Del 21 Giugno 2022
Fonte: www.accademianuovaitalia.it
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