martedì 28 luglio 2020

La regola del 3,5%

Quante persone servono per fare una rivoluzione di successo?
La "formula 3,5 per cento" individuata in uno studio scientifico. Meglio la non violenza per sovvertire il potere.

di Maurizio Stefanini

Tre virgola cinque per cento: è questa la formula della protesta secondo la politologa di Harvard Erica Chenoweth.

Ovvero: perché una protesta di piazza possa influire sulla politica di un paese è necessario che vi partecipi almeno il 3,5 per cento della popolazione complessiva.

“La regola del 3,5 per cento”, l’ha definita la Bbc. Trentanove anni, docente di Diritti umani e Affari internazionali alla Harvard Kennedy School e al Radcliffe Institute for Advanced Study, Erica Chenoweth completò la sua ricerca già nel 2011, sull’onda delle Primavere arabe.

A distanza di qualche anno, diversi giornali e opinionisti hanno rispolverato questo studio, proprio adesso che molti altri paesi sono interessati da proteste: Cile, Hong Kong, Ecuador, Nicaragua, Perù, Honduras, Panama, Bolivia, Venezuela, Brasile, Catalogna, la Francia dei gilet gialli, la Londra anti Brexit, Russia, Romania, Algeria, Sudan, Etiopia Libano, Iraq, Iran ...


Diverse le motivazioni, anche se alcuni punti di partenza sono simili: tasse sui carburanti, trasporti o WhatsApp, rivendicazioni sovraniste o anti sovraniste, involuzioni autoritarie.

E può essere differente anche il modo per interpretarle.
Per esempio, la tesi dell’ex senatore Pino Arlacchi – “Perché non bruciano il Venezuela, la Bolivia, la Cina ma il Cile, l’Argentina e simili paesi neoliberal” – potrebbe essere tranquillamente rovesciata in “perché non bruciano il Cile o l’Argentina e invece bruciano Venezuela, Bolivia, Hong Kong e simili socialisti”.
Nell’uno e nell’altro caso basta decidere che certe cose accadono e che altre sono allucinazioni.

L’economista Jeffrey Sachs, nel cercare elementi in comune tra le proteste di Hong Kong, Parigi e Cile, pur evitando i paraocchi ideologici, si è soffermato solo sul paradosso delle proteste che ci sono state in paesi con alti tassi di crescita.
La sua analisi è che tutti questi casi erano accomunati da una scarsa mobilità sociale e dal fatto che la burocrazia aveva perso contatto con la gente comune.
Ma anche in questo caso, si tratta di verità che riguardano solo alcune situazioni.

L’approccio di Erica Chenoweth è interessante perché non si sofferma sull’origine dei moti, ma sul loro possibile esito. 

Realizzato assieme a Maria J. Stephan, direttrice del programma Nonviolent Action all’U.S. Institute of Peace, il suo studio “Why Civil Resistance Works: The Strategic Logic of Nonviolent Conflict” compara 200 rivoluzioni violente e un centinaio di campagne non violente.

La sorprendente conclusione è che la non violenza paga: ben il 53 per cento delle proteste pacifiche ha avuto successo, contro appena il 26 per cento delle rivoluzioni violente. 

Una “efficacia” doppia. 

Inoltre, l’analisi mostra che la non violenza promuove la democrazia, mentre dall’uso della forza può nascere facilmente un’altra tirannia. 

La conclusione è ancora più notevole in quanto la politologa afferma di avere iniziato la ricerca convinta dell’opposto, tant’è che era partita da una indagine sulle motivazioni del terrorismo.

Ma, appunto, c’è una regola: il successo è automatico se si riesce a coinvolgere attivamente almeno il 3,5 per cento dei cittadini. 

Ci sono esempi di successi con proporzioni anche minori, ma il risultato non è garantito.
In compenso, proporzioni maggiori possono non bastare se l’opposizione si divide: è un caso concreto che è stato studiato in Bahrein.

Di questa “formula” hanno discusso in particolare i giornali cileni, quando il 25 ottobre scorso sono scesi in piazza a Santiago 1,2 milioni di persone.
Considerando i 5,6 milioni di abitanti della città si tratta del 21 per cento. Ovviamente, rispetto ai 19 milioni di abitanti di tutto il Cile la proporzione è minore, ma è comunque il 6,3 per cento che è quasi il doppio del coefficiente indicato da Chenoweth.
E alla fine il presidente Sebastián Piñera ha chiesto scusa, annunciando un pacchetto economico in 20 punti per venire incontro alle richieste dei manifestanti.

I movimenti più importanti esaminati dallo studio sono 25: di questi, 20 sono non violenti e 5 sono violenti.
14 di quelli non violenti hanno avuto successo e hanno attratto una media di 200 mila partecipanti, contro i 50 mila dei movimenti violenti.

In particolare, la protesta nelle Filippine di Corazón Aquino contro Marcos, tra il 2003 e il 2006, portò in piazza 2 milioni di persone, mentre arrivò a un milione la sommossa brasiliana del 1984-1985 e a 500.000 la Rivoluzione di Velluto di Praga del 1989. Invece, i 400.000 partecipanti alle proteste nella Germania dell’est nel 1953 erano solo il 2 per cento.
Per questo, il regime comunista resse. Almeno, secondo la regola del 3,5 per cento.

Fonte: www.ilfoglio.it


COME È ARRIVATA CHENOWETH A QUESTE CONCLUSIONI?

Chenoweth ammette che quando iniziò le sue ricerche a metà degli anni 2000, inizialmente era piuttosto scettica rispetto all’idea che le azioni non violente potessero essere più potenti dei conflitti armati nella maggior parte delle situazioni.

Come dottoranda presso l’Università del Colorado, le fu chiesto di frequentare un seminario accademico organizzato dall’International Center of Nonviolent Conflict (ICNC), un’organizzazione senza scopo di lucro a Washington DC. Il seminario presentò molti esempi convincenti di proteste pacifiche che hanno portato a cambiamenti politici duraturi, tra cui, ad esempio, la “Rivoluzione del Rosario” nelle Filippine.

Ma Chenoweth fu sorpresa di scoprire che nessuno aveva confrontato in maniera esaustiva i tassi di successo delle proteste nonviolente contro quelle violente, e questo non fece che acuire il suo scetticismo.

Così, in collaborazione con Maria Stephan, ricercatrice dell’ICNC, Chenoweth eseguì una vasta revisione della letteratura sulla resistenza civile e sui movimenti sociali dal 1900 al 2006, usando un set di dati poi confermato da altri esperti del settore.

Le due studiose hanno principalmente considerato i tentativi di provocare un cambio di regime.

Un movimento è stato considerato di successo se ha raggiunto pienamente i suoi obiettivi:
- a) entro un anno dal suo massimo impegno
- b) come risultato diretto delle sue attività.

Un cambio di regime derivante da un intervento militare straniero non è stato considerato un successo della protesta, per esempio. Allo stesso tempo, una campagna era considerata violenta se comprendeva bombardamenti, rapimenti, distruzione di infrastrutture - o qualsiasi altro danno fisico a persone o cose1. Alla fine di questo processo, le studiose avevano raccolto dati da 323 campagne violente e nonviolente. E i loro risultati - che sono stati pubblicati nel loro libro Why Civil Resistance Works: The Strategic Logic of Nonviolent Conflict - sono stati sorprendenti.

LA FORZA NEI NUMERI

Complessivamente, le campagne non violente hanno il doppio delle probabilità di successo rispetto alle campagne violente: hanno portato a cambiamenti politici il 53% delle volte rispetto al 26% delle proteste violente.

Questo è stato in parte il risultato della forza dei numeri.

Chenoweth sostiene che le campagne nonviolente hanno maggiori probabilità di successo perché possono reclutare molti più partecipanti da una platea molto più ampia, il che può causare gravi interruzioni che paralizzano la normale vita urbana e il funzionamento della società. Ovviamente, le proteste violente escludono necessariamente le persone che aborriscono e temono spargimenti di sangue.
Le proteste nonviolente hanno anche meno ostacoli fisici alla partecipazione: non è necessario essere in forma e in salute per iniziare uno sciopero o una protesta nonviolenta, mentre le campagne violente tendono ad appoggiarsi al sostegno di giovani fisicamente in forma.

E mentre anche molte forme di protesta nonviolenta comportano gravi rischi - basti pensare alla risposta della Cina in Piazza Tiananmen nel 1989 - Chenoweth sostiene che le campagne nonviolente sono generalmente più facili da discutere apertamente, il che significa che le notizie sul loro verificarsi possono raggiungere un pubblico più ampio.

Fonte: extinctionrebellion.it


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