di Angelo Panebianco
Se la storia, come sosteneva Benedetto Croce, è sempre storia contemporanea, lo è in due modi diversi, anche se collegati. Lo è perché il passato viene sempre inevitabilmente riletto alla luce delle preoccupazioni del presente. Ma lo è anche perché la storia viene usata, manipolata, semplificata eccessivamente, banalizzata e anche falsificata per piegarla alle esigenze delle polemiche dell’oggi, per farne uno strumento utile ai nostri scopi, più o meno partigiani, del momento.
In altri saggi, Mieli indaga su alcuni momenti di passaggio, di svolta, della storia occidentale.
È vero che persino la banalizzazione e la falsificazione del passato sono modi, spesso inconsapevoli, di rendere omaggio alla storia, di riconoscere l’importanza che ha per noi.
Poiché, per definizione, il futuro è incerto e largamente imprevedibile, non ci limitiamo a cercare nel passato lumi per comprendere cosa sia meglio fare nel presente (e questo è certamente un modo sano e corretto di fare i conti con la storia), ma ce ne serviamo come arma polemica per imporre, contro le resistenze altrui, la nostra visione delle cose presenti, per spingere gli altri a fare scelte che consideriamo giuste o per noi convenienti, e anche per giustificare scelte già fatte, per esempio per conferire legittimità a un nuovo regime politico ...
È inevitabile che ciò accada, ma è anche certo che le continue banalizzazioni e semplificazioni della storia hanno spesso effetti intossicanti, ci rendono ciechi di fronte alle necessità dell’oggi, ci spingono a commettere gravi errori di giudizio, e a fare scelte sbagliate.
Il libro di Paolo Mieli, che arriva in libreria in questi giorni, In guerra con il passato (sottotitolo: Le falsificazioni della storia), edito da Rizzoli, prende l’avvio dalle continue manipolazioni della storia per mostrare che ci sono modi più proficui e utili di fare i conti con il passato. Nel titolo è racchiuso il significato di questo lavoro. Ma, a giudizio di chi scrive, in questo libro c’è di più.
C’è il senso del mestiere di osservatore e di commentatore dei fatti pubblici così come Mieli lo ha sempre inteso. Opporsi alle banalizzazioni del passato è un modo per dire a chi ci legge o ci ascolta che rispettare il passato, e la sua complessità, è necessario, anche se non sufficiente, per comprendere il presente, e la sua complessità.
Fare giornalismo, scriveva Raymond Aron, significa impegnarsi in un genere assai rischioso, significa fare «storiografia del presente», senza reti, e senza mai possedere tutte le informazioni che, sul nostro oggi, possiederanno (forse) solo gli storici futuri.
Solo a distanza di tempo, anche anni, rileggendoci, capiremo, col senno del poi, se quel giudizio, quella valutazione che demmo tempo addietro, era corretta o no. Un modo sicuro, dice Mieli, per accrescere le possibilità di errore qui e ora, è partire da concezioni distorte o troppo semplificate del passato. Solo se arriviamo a comprendere quanto complessa sia sempre la storia, quanto intricate (e anche moralmente ambigue) fossero quelle situazioni del passato che gli storici cercano faticosamente di ricostruire e di comprendere, possiamo «rispettare» il presente, riconoscere la sua inevitabile complessità (e la sua ambiguità). Non c’è altro modo per difenderci dai «terribili semplificatori», che ci circondano da ogni parte, quelli che hanno risposte perentorie su tutto, quelli che pretendono che il presente sia trasparente, facilmente leggibile per chiunque.
Il libro si compone di un insieme di saggi densi e brevi, che traggono spunto dalla recente pubblicazione di opere storiografiche di pregio su alcuni momenti cruciali della storia occidentale, antica, medievale e moderna. Mieli si serve dei migliori risultati della ricerca storica per smontare luoghi comuni, pregiudizi, falsificazioni. Si tratta di restituire al lettore il senso della complessità delle vicende storiche esaminate. In modo quasi sempre implicito, per lo più solo accennato, si tratta anche di cercare nel passato spunti utili per orientarsi nel presente.
Il libro si compone di un insieme di saggi densi e brevi, che traggono spunto dalla recente pubblicazione di opere storiografiche di pregio su alcuni momenti cruciali della storia occidentale, antica, medievale e moderna. Mieli si serve dei migliori risultati della ricerca storica per smontare luoghi comuni, pregiudizi, falsificazioni. Si tratta di restituire al lettore il senso della complessità delle vicende storiche esaminate. In modo quasi sempre implicito, per lo più solo accennato, si tratta anche di cercare nel passato spunti utili per orientarsi nel presente.
Alcuni dei casi esaminati riguardano vicende le cui ombre si allungano sull’oggi, continuano a condizionarci.
Ad esempio, la tesi secondo cui l’azione di Robespierre, e il Terrore giacobino, furono un effetto dell’influenza dell’Illuminismo è stata spesso utilizzata (con l’esplicito intento di influenzare il nostro presente), per screditare le idee illuministe. Ma esiste anche una plausibile e documentata tesi opposta, secondo la quale all’Illuminismo non possono essere imputati quei misfatti. Anche la valutazione del presente cambia a seconda che si sottoscriva una tesi o l’altra.
Oppure si consideri il caso dell’alleanza innaturale del primo Cinquecento di Francesco I, re di Francia, competitore e rivale dell’imperatore Carlo V, con l’impero ottomano. Un re cristiano si allea a un impero islamico che sta terrorizzando ormai da secoli, per terra e per mare, mezza Europa, allo scopo di logorare e indebolire un altro re cristiano. Con la tacita approvazione, per giunta, del pontefice. Un mondo complesso e ambiguo, senza dubbio.
Ma se osserviamo i giochi mediorientali attuali, le alleanze delle potenze occidentali, così come della Russia, con le varie autocrazie locali, islamiche e non, non possiamo forse osservare un mondo altrettanto complesso e altrettanto ambiguo?
O ancora, si consideri la questione dell’antisemitismo e delle sue origini. L’antisemitismo, come tanti hanno sostenuto, è una conseguenza dell’affermazione del cristianesimo, oppure era già presente nel mondo pagano, pre-cristiano? Comprenderne le origini può aiutare a capire meglio le cause della sua persistenza.
Il re di Francia Francesco I (in primo piano sotto il baldacchino) e l’imperatore Carlo V
(al suo fianco a destra) ritratti da Taddeo Zuccari
Proprio perché è ormai comune a tanti la percezione e la convinzione che le nostre società siano investite da cambiamenti radicali, appare utile ripensare ad altre epoche nelle quali i contemporanei avevano la stessa nostra consapevolezza.
Un buon modo per farlo è concentrare l’attenzione su atteggiamenti e scelte (spesso difficilissime e drammatiche) di uomini che in quelle vicende ebbero il ruolo di protagonisti. Ad esempio, nella Atene ormai in declino, sul punto di soccombere di fronte al potere di Filippo di Macedonia, gli uomini di maggior valore sono divisi: Demostene rifiuta di accettare l’inevitabile e invita i suoi concittadini a resistere; Isocrate, al contrario, pensa che solo abbracciando la causa macedone Atene possa avere ancora un futuro. È un dilemma (opporsi, anche se senza speranze, al nemico o aprirgli le porte sperando nella sua benevolenza) che si ripresenta continuamente nei Paesi o nelle civiltà in declino.
Ancora, in tutti i momenti di passaggio (si tratti della transizione dalla Repubblica romana all’Impero, della rivolta della Fronda in Francia o della guerra di Secessione americana), atteggiamenti e scelte di pochi leader collocati in posizione privilegiata, come Augusto e Antonio dopo l’uccisione di Giulio Cesare, o come Mazzarino o Lincoln, fanno la differenza. In ogni caso, osservarne atteggiamenti e scelte ci aiuta a ricostruire la complessità della congiuntura storica in cui sono coinvolti.
Pur nella estrema diversità delle situazioni, ci sono molti fenomeni sempre ricorrenti. Per esempio, non si è mai estinto il vizio di mettere in piedi processi per corruzione o sottrazione di denaro pubblico contro gli avversari politici. Il processo contro Verre, ex propretore della Sicilia, che diede tanto lustro al suo inflessibile accusatore, Marco Tullio Cicerone, non sarebbe stato imbastito se Verre non fosse stato legato alla fazione politica perdente, quella di Silla.
Nelle cronache degli ultimi decenni, qui in Italia, anche se non solo, possiamo trovare diversi casi che hanno affinità con quella vicenda storica. Meritano poi grande attenzione quelle figure, come Enrico III, re di Francia, ultimo della dinastia dei Valois, che fecero la scomoda scelta di opporsi al fanatismo (in quel caso, religioso) di qualunque segno: egli immaginò di porre termine alle guerre di religione favorendo un’alleanza dei moderati (cattolici e protestanti) contro gli estremisti di entrambi i campi.
Nelle fasi in cui il vento del fanatismo e dell’estremismo soffia più impetuoso è difficile resistervi.
Però, per tanti che si inchinano di fronte agli estremisti, ce n’è sempre qualcuno che non lo fa, che non si piega.
Quel qualcuno, spesso una figura di grande qualità e spessore, merita più attenzione e interesse di tutti quelli (la maggioranza, anche di principi e re, in qualunque epoca) che si limitano a seguire la corrente.
Contro l’argomento secondo cui solo un atteggiamento partecipe e simpatetico possa aiutarci a comprendere le vicende storiche, Mieli sostiene che al fine di «sottrarci a qualsiasi tentazione di guerra con il passato giova guardare ad esso con una qualche autoimposizione di una buona dose di imperturbabilità».
Mieli ha ragione. Quella disciplina autoimposta, insieme a una accurata documentazione, rende pregevoli le ricostruzioni contenute in questo libro. Più in generale, può aiutarci a sfuggire all’influenza dei banalizzatori, dei teorici dei complotti, e di tutti gli altri addetti alla sempre fiorente industria della falsificazione del passato.
Fonte: www.corriere.it
Fonte: www.corriere.it
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