C'è chi devolve parte del proprio stipendio a un’organizzazione benefica. C'è chi soccorre uno sconosciuto per strada, senza pensarci due volte. Gesti nobili, generosi, che immediatamente riconosciamo come “altruisti”.
Ma ci fermiamo mai a chiederci cosa muove davvero queste azioni? È possibile agire esclusivamente per il bene dell’altro, senza che ne ricaviamo nulla per noi stessi?
C’è chi sostiene che persino il sacrificio più estremo — come mettere a rischio la propria vita per salvare quella di un altro — possa rispondere a un bisogno profondo: proteggere un’idea di sé, essere coerenti con i propri valori, evitare il rimorso. Allora l’altruismo non sarebbe negato, ma reinterpretato: non l’assenza di sé, ma l’unione tra il sé e l’altro. Una forma di interconnessione dove i confini tra dare e ricevere sfumano.
E se invece l’altruismo puro esistesse, ma fosse così raro e silenzioso da passare inosservato? Forse si nasconde nei gesti anonimi, in quelli compiuti senza spettatori, senza riconoscimenti, senza ritorni tangibili. O forse, l’idea stessa di “purezza” nelle intenzioni è una costruzione astratta, lontana dalla complessità dell’animo umano.
Domandarsi se possiamo essere davvero altruisti significa interrogare il nostro modo di vedere gli altri e noi stessi. Significa riconoscere che ciò che chiamiamo “generosità” o “solidarietà” è spesso un intreccio di motivazioni, consce e inconsce. E che forse non c’è nulla di male in questo. Ma il dubbio rimane.
Cosa ci spinge, davvero, quando aiutiamo qualcun altro? È possibile desiderare il bene altrui senza alcuna ombra di ritorno? Oppure l’altruismo è un equilibrio delicato tra il sé e l’altro, un confine poroso dove le intenzioni si mescolano e ognuno, in forme diverse, trova qualcosa?
Fonte: www.riflessioni.it



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