mercoledì 9 novembre 2022

“More is different”

di Mario Valle

 
“More is different” è il titolo di un famoso e citatissimo articolo del Premio Nobel per la fisica Phil Anderson che all’epoca fu un vero terremoto.

In sostanza sosteneva che il comportamento dei sistemi complessi non si spiega in termini di una semplice estrapolazione delle proprietà di sistemi più piccoli. 
Al contrario, a ogni livello di complessità compaiono proprietà interamente nuove.

Ma di base l’articolo fu un vero e proprio attacco alla gerarchia. 
Alla gerarchia dei saperi innanzitutto. 

I saperi non sono compartimenti a tenuta stagna, non vi è supremazia di un sapere sugli altri. Sono connessi, interrelati, congiunti. Non vi è un sopra distinto da un sotto. Su questo ci ritorneremo ...


“More is different”. Così non possiamo guardare a fenomeni come le reti sociali e giudicarle come se fossero il gruppetto di amici del muretto, solo un po’ più grande.

No, sono un fenomeno completamente differente che non possiamo affrontare con mentalità vecchia, come purtroppo si è spesso fatto, cioè vietando, proibendo e spaventando.

Così non possiamo guardare al computer e pensare che abbia solo sostituito carta e penna. Ha inventato, invece, un nuovo linguaggio.

Basta guardarsi in giro sulla rete. Nulla a che vedere con i mattoni monolitici di testo cui siamo stati abituati nei nostri vecchi manuali scolastici, per esempio.

Oppure i testi da leggere sullo smartphone, che non possono essere infiniti. Il limite elimina l’inutile creando un differente linguaggio.

Non solo. Prendiamo Twitter, il sito di microblogging. Il testo è limitato a 140 caratteri. Ma è proprio questa limitazione che, oserei dire, ha creato una nuova forma di letteratura. Nei paletti e limiti c’è una nuova libertà.

Tutto questo mi ricorda la “libertà nelle regole” delle scuole Montessori
Che non è il luogo comune che si sente in giro, quello che in queste scuole i bambini fanno quello che vogliono.

È la libertà nei limiti degli origami che creano fantastiche opere d’arte pur nei limiti del non poter tagliare, strappare o incollare la carta.
Porre più limiti sembra equivalga a generare più creatività. 
“More is different”.

Ma torniamo alle forme di comunicazione che le nuove tecnologie rendono possibile.

Di fronte a un messaggio romantico come questo possiamo reagire in due maniere opposte. 
Possiamo reagire come Socrate, che se la prendeva con la nuova tecnologia della scrittura colpevole a suo dire di atrofizzare la memoria.

Oppure possiamo concentrarci su quello che la scrittura in tutte le sue forme rappresenta: comunicazione, espressione di sé, esternalizzazione delle idee. E fare come hanno fatto due maestre lungimiranti di una prima classe statale, contaminate da Montessori.

Hanno detto ai loro bambini di prima: “Scrivete”. “Ma non sappiamo scrivere!” hanno risposto angosciati. “Non è vero, ognuno di voi sa scrivere nella sua lingua: Francesco in franceschese, Matilde in matildese e così via. Scrivete, poi, se volete, ve lo traduciamo”.

Risultato? Ora quei bambini a scrivere non li ferma più nessuno. E non è questo quello che si voleva? O si volevamo solo pagine di bella calligrafia, ma vuote?

“More is different”. Non possiamo giudicare e capire uno stormo guardando un singolo uccello!
Addirittura pretendiamo che i nostri ragazzi continuino a volare come un uccellino quando invece sono diventati uno stormo.
Non possiamo quindi giudicare o utilizzare le nuove tecnologie con una testa vecchia.

Conoscete tutti la metafora dei nativi digitali?

Marc Prensky, l’inventore della metafora spiega che noi, di una generazione precedente siamo come degli immigrati in questo paese dove i nostri figli sono nati: il paese delle tecnologie, dei videogiochi, delle reti sociali.

E come tutti gli immigrati, cerchiamo di integrarci, riusciamo a essere anche molto bravi, ma conserviamo sempre un forte accento straniero, che è il nostro mantenere un piede nel passato.
Ecco, tenere un piede nel passato.

Avere una LIM in aula, utilizzare le nuove tecnologie, di per sé non vuol dire cambiare qualcosa. Come nella foto dove la lezione continua ad essere frontale, come ai vecchi tempi. Tra l’altro uno studio americano mostra come la LIM in aula influenzi davvero poco l’apprendimento, mentre la differenza la fa comunque l’insegnante.

Quindi per me le nuove tecnologie non sono ne’ da idolatrare ne’ da demonizzare. Sono da capire, non solo da saper usare. 
“More is different”.

Soprattutto perché non vogliamo che tutto rimanga vecchio, anche se apparentemente tutto cambia con la tecnologia, come diceva la famosa frase del principe nel Gattopardo.

Ora, per venire al dunque della mia presentazione, provo a rigirare la frase del principe.

Per me se vogliamo davvero che qualcosa cambi, dobbiamo guardare a quello che rimane costante, che non cambia fra immigrati e nativi digitali.

E per farlo vi parlerò di alcuni aspetti del mondo scientifico in cui sono immerso ogni giorno al CSCS (Centro Svizzero di Calcolo Scientifico). Aspetti che in questo mondo sono scontati, pacifici, mentre nella scuola e nell’educazione sembrano dirompenti e rivoluzionari. 
Almeno questa è la mia percezione.

Il primo aspetto è il sapere tout-court

La scuola ci ha abituati a un sapere a silos: le materie sono separate, i libri sono rigorosamente specializzati, con una gerarchia anche d’importanza tra di loro.

Invece nella realtà il sapere è ad arcipelago, niente aree rigorosamente divise, niente gerarchie. Vi ricordate cosa diceva Phil Anderson nel suo articolo?

I saperi non sono compartimenti a tenuta stagna, non vi è supremazia di un sapere sugli altri. Sono connessi, interrelati, congiunti.

I saperi sono interconnessi, si possono costruire ponti tra di loro, si possono mischiare e integrare.
E questi ponti li costruiamo noi, o meglio, i nostri nativi digitali che in questo mare di internet (ecco qui una piccola porzione della sua struttura) sanno muoversi più spediti di noi, sanno muoversi soprattutto da protagonisti. Vogliono essere artefici del loro sapere. 

Ma è proprio questo mare di sapere, se riusciamo a non separare e isolare, a rendere possibile le scoperte più entusiasmanti che accadono spesso sul confine fra le discipline.

Per esempio questa società che produce turbine eoliche ha preso un’idea dal mondo della zoologia e precisamente dalla struttura delle pinne delle balene e ha creato delle pale da turbina molto più efficienti.

Zoologia e fluidodinamica. Chimica e botanica per i vetri che non si bagnano, campi totalmente separati della matematica riuniti per dimostrare il teorema di Fermat.
Anch’io ho contribuito a una ricerca che è stata pubblicata su Nature, prestigiosa rivista scientifica, mescolando discipline differenti: analisi multidimensionale e cristallografia, visualizzazione e dataminimg.

Ma questi approcci multidisciplinari non si imparano dall’oggi al domani. Bisogna imparare da piccoli a integrare e collegare. E questo trascende le tecnologie e deborda dai limiti del territorio dei nativi digitali.

Ecco che la scuola Montessori, con le sue classi aperte insegna a non creare silos, a non avere paura del diverso, anche se limitato al sapere. Ecco che dove si usano materiali sensoriali, e perciò visibili, la comunicazione trasversale attraverso le età viene aiutata e facilitata.
E dove i più piccoli non hanno paura di presentare il loro lavoro ai più grandi.

E che dire dell’Educazione Cosmica? Insegna proprio che tutto è interconnesso: storia, evoluzione e cultura. Insegna che c’è un’interdipendenza fra noi e il mondo naturale che ci circonda. Ci insegna a guardarci attorno con un senso di meraviglia.

Invece come reagisce spesso la scuola tradizionale?
Con la paura!

E di conseguenza con la proibizione, che tra l’altro allontana ancora di più i nativi da scuola e cultura.

Un caso emblematico: alle medie e alle superiori non si può usare Wikipedia per le ricerche perché se no copiano.
Certo è un problema, se si punta al sapere libresco, alle nozioni appiccicate.

Ma pensiamoci bene: abbiamo mai insegnato loro qual è la differenza tra cercare e fare ricerca?

Per chi lavora in campo scientifico, la differenza è pacifica. 

Ma insegniamo a confrontare le fonti? A capire quali sono le fonti primarie e quali secondarie?

Non solo, la rete fornisce risposte al tocco di un tasto. 

Ma sappiamo porre le domande giuste? 
Nella scienza porre la domanda giusta è già aver risolto metà del problema.

Ancora una volta qualcosa che trascende la tecnologia. 

Anzi, si rumoreggia che Picasso abbia detto: “I computer sono inutili, sanno dare solo risposte!”

Ben venga allora quello che vedo a scuola di mio figlio: l’angolo delle parole, per non essere superficiali nella lettura. Oppure le ricerche, brevi, ma vere ricerche.

Dati e informazioni. Il cosa, più che il perché.

Una volta la scuola era l’unico luogo dove si poteva accedere a dati e informazioni, oggi invece ne siamo letteralmente sommersi.

Tanto che si parla di “Google science” la scienza che si può fare quando la quantità di dati è enorme. Un esempio?

Il traduttore di Google non ha dietro una teoria linguistica, ma solamente un’infinità di esempi di traduzione continuamente raffinata dalle correzioni che fanno gli utenti.

Anche al CSCS i supercomputer producono numeri a getto continuo. 

Il problema è comprenderli, il problema per lo scienziato è trovare nei risultati delle sue simulazioni la conferma delle sue ipotesi, oppure nuove e inaspettate idee.

Per questo quello che cerchiamo di fare al CSCS è adattare i numeri alle capacità percettive dello scienziato. In altre parole cerchiamo di rendere concreta l’astrazione dei numeri. Vi ricorda nulla questa frase?

Lo scienziato che studia il clima, o più prosaicamente calcola le previsioni del tempo, vuole vedere il vento sull’Europa.
Lo scienziato che studia il magnetismo terrestre vuole vedere come questo si invertirà nei prossimi 10.000 anni. Certo, vedere con i propri occhi come questo succede richiede rendere concreti i numeri e non solo, rendere visibile anche il campo magnetico, che normalmente non riusciamo a percepire con i nostri sensi.

Ma che differenza c’è con i materiali della scuola Montessori? Anche qui si materializza l’astrazione del teorema di Pitagora.

O si vede quanto è lungo il 1000 o quanto pesa il 100.

Alla stessa maniera al CSCS, o comunque nel mondo scientifico, poteste vedere tanti seri scienziati che scarabocchiano lavagne e gesticolano per materializzare idee astratte.

Per esempio questo è quello che rimane dopo una discussione col mio capo riguardo al progetto su cui sto lavorando.

Quindi è la capacità di immaginare, di manipolare immagini nella mente, di rendere concreta l’astrazione che è importante. La tecnologia viene dopo. Anzi, per far sì che il supercomputer calcoli quello che voglio, devo convertire quello che ho in testa in un programma da dargli in pasto.

Anche in un’attività astratta come scrivere un programma per il supercalcolatore del CSCS bisogna lavorare tantissimo di immaginazione: immaginare come i dati sono collegati tra loro come nel grafo in basso, immaginare come vanno in esecuzione e come interagiscono le varie parti del programma e così via.

Ma permettetemi una piccola digressione.
Quando mia moglie, insegnante, mi ha portato a casa il quadernino di matematica del suo alunno Tommaso, mi sono proprio entusiasmato: ha usato segni grafici per rendere concreta una strategia di calcolo e la struttura è simile a quella che vi ho mostrato prima, un albero, ovvero una struttura che si ritrova dappertutto in informatica.
Poi mi ha raccontato che i suoi alunni avevano domandato se si potevano fare somme più complesse con tante cifre e tanti addendi. Avendo dato loro libertà di inventarsi l’esercizio non li ha più fermati nessuno.


Ed ecco la lenzuolata di addendi che si è inventato Tommaso, all’uso di una strategia grafica per tenere traccia dei riporti ci è arrivato da solo. Perdonate il visibile fotomontaggio, quando stava iniziando le somme, il quaderno era ancora da iniziare.

Quindi ai nostri ragazzi non insegniamo solamente a dipingere, insegniamo loro anche a guardare. E a immaginare, a costruire modelli e immagini nella loro testa.

Per questo smettiamola di snobbare i videogiochi, che aiutano tutto questo, se li guidiamo e seguiamo. In un certo senso anche nei videogiochi possiamo dire: “aiutami a fare da solo”.
( ... )

E infine il senso della comunità

Non esiste più lo scienziato isolato che pensa, solo, nella sua torre d’avorio. Oggi alcune collaborazioni scientifiche contano centinaia di ricercatori che lavorano assieme allo stesso esperimento.

In queste comunità la valutazione dell’autorità e dell’affidabilità di uno scienziato avviene in maniere differenti da quelle cui siamo abituati. Per esempio più sono citato, più salgo nella considerazione dei miei pari. Anche i riconoscimenti non c’entrano nulla con voti o col denaro. Spesso il solo fatto di essere riconosciuti come esperti in un determinato campo è ricompensa sufficiente. Vi ricordate la storia di Grigorij Perelman? Ha dimostrato la famosa congettura di Poincaré e ha rifiutato un premio da un milione di dollari perché considerava ricompensa sufficiente essere riuscito nella dimostrazione.

È interessante notare anche che queste comunità hanno internamente i propri anticorpi contro chi si comporta male: si chiama peer-review. Ovvero il tuo lavoro viene continuamente verificato dai tuoi pari.

Ma questo è esattamente quello che avviene nelle reti sociali frequentate dai nostri ragazzi! Magari non si incontrano faccia a faccia, ma imparano presto di chi fidarsi, chi vale la pena di seguire, come nelle comunità scientifiche. Certo, qui la tecnologia del social-networking è fondamentale, ma il come comportarsi si impara a scuola.

Ma non si imparerà a creare una comunità se ognuno è costretto nel suo banco, senza nemmeno guardarsi, anzi isolati nella competizione per avere i voti più alti. Avrete sicuramente letto di Maria Montessori ne “La scoperta del bambino” la critica feroce al banco. Critica che vale ancora oggi.

Invece in una scuola Montessori non si creano inutili barriere, la comunità, il senso di appartenenza si apprende naturalmente.
E si collabora e si impara a portare in ogni gruppo un certo modo di lavorare e di porsi.

In fin dei conti la famosa vignetta non è lontana dalla realtà.

Bene, abbiamo guardato ad alcuni aspetti della vita dei nativi digitali dal mio particolare punto d’osservazione. Ho messo l’accento sul fatto che molti aspetti naturali in ambito scientifico, possono servirci per capire come il nativo digitale apprende e si muove nel mondo d’oggi. Tutti aspetti che a mio avviso sono trasversali rispetto alle tecnologie.

Ma allora queste tecnologie sono buone o no? 
Ci devono o non ci devono stare nelle scuole e in particolare nelle scuole Montessori?

Non potendo fare questa domanda direttamente alla Dottoressa, io l’ho girata alla sua allieva diretta Grazia Honegger Fresco.

Mi dice: “Maria Montessori era molto curiosa, avrebbe sicuramente provato e studiato che cosa si poteva fare con computer e reti sociali. Curiosa ma concreta. Avrebbe usato questi materiali secondo le modalità di tutti gli altri materiali: libera scelta, individualizzazione, autocorrezione e così via. Ricordiamoci però che è donna dell’800” In un certo senso sta a noi continuare il suo lavoro nello stesso spirito, senza stravolgerlo e senza seguire solo la moda della tecnologia a scuola o come dicono gli americani “jumping on the bandwagon”.
( ... )

Insegnare ai nativi digitali non vuol dire che dobbiamo essere più bravi di loro nell’uso delle tecnologie. 
Tanto non ci riusciremo mai.

E neppure dobbiamo contrapporci a priori col funereo: “Ai miei tempi…”

Ma dobbiamo collaborare, ognuno per quello in cui è bravo: loro con la tecnologia, noi con lo sguardo lungo sul perché e sulle implicazioni della tecnologia. 

Insomma, anche qui: “Aiutami a fare da solo”.

Ma alla fine, quello che reputo importante, lo scriveva già Montaigne, a metà del 1500.

Meglio una testa ben fatta, che sa immaginare, mescolare i saperi, collaborare e condividere, che una testa piena di nozioni che tra l’altro divengono obsolete rapidamente. 

E questo vale per insegnanti, educatori, studenti e per i nostri figli.

Grazie per l’attenzione!

Tratto dall'intervento di Mario Valle all'occasione delle Giornate di Studi Montessoriani (2011): "Se faccio capisco: l’apprendimento dei nativi digitali tra esperienza e tecnologia”.
Per leggere l'articolo completo:
 More is Different

Mario Valle lavora da oltre trent’anni nei campi più disparati della scienza e dal 2003 è al Centro Svizzero di Calcolo Scientifico (CSCS) di Lugano, a stretto contatto con scienziati e ricercatori, utilizzando quotidianamente supercomputer e tecnologie di punta.
Tramite suo figlio, che ha frequentato una scuola Montessori, si è avvicinato a questo mondo e si è appassionato alla concreta scientificità delle idee della Dottoressa Montessori. Ora studia e approfondisce questi temi e condivide le sue riflessioni in pubblicazioni, corsi e presentazioni pubbliche.

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