Intorno al 1850 l’idea di progresso entrò nel terzo periodo della sua storia. Nel primo periodo, fino alla Rivoluzione francese, era stata trattata alquanto casualmente: fu data per scontata e non fu analizzata né da filosofi né da storici. Nel secondo periodo se ne comprese l’enorme importanza, e si cominciò a cercare una legge generale che la definisse e la fissasse.
Fu fondata la sociologia, e nello stesso tempo le impressionanti conquiste della scienza, applicate al benessere materiale, diffusero l’idea. Armonizzava con il concetto di “sviluppo” che era diventato corrente sia nella scienza naturale sia nella metafisica. I socialisti e altri riformatori politici si appellavano ad essa come ad un vangelo.
Nel 1850 era diventata un’idea assai diffusa in Europa, eppure non era accettata da tutti come un’evidente verità. Il concetto di progresso sociale era cresciuto nell’atmosfera del concetto di sviluppo biologico, ma questo sviluppo sembrava ancora un frutto altamente precario della speculazione. La staticità della specie e la creazione dell’uomo, difese da potenti interessi e pregiudizi, furono attaccate ma non scosse. L’ipotesi di una evoluzione organica si trovava più o meno nella stessa posizione in cui si era trovata l’ipotesi copernicana nel sedicesimo secolo.
L’apparizione dell’Origine della specie mutò la situazione sfatando definitivamente il dogma della staticità della specie e assegnando cause reali al “trasformismo”.
Quella che prima era sembrata una brillante congettura diventò ipotesi scientifica, e i vent’anni seguenti videro la battaglia intorno all’evoluzione della vita, contro i pregiudizi di carattere soprattutto teologico, risolversi con la vittoria della teoria.
Con L’origine della specie si arriva al terzo stadio delle sorti dell’idea di progresso. Vedemmo come l’astronomia eliocentrica, togliendo all’uomo la sua posizione di privilegio nell’universo e lasciandolo solo con le sue forze, aveva permesso all’idea di competere con il concetto di intervento provvidenziale. Ora l’uomo subiva una nuova degradazione nell’ambito del suo stesso pianeta.
L’evoluzione, spogliandolo della gloria di creatura razionale creata espressamente per essere il signore della terra, gli rintracciò un albero genealogico senz’altro modesto. E questa seconda degradazione fu il fatto decisivo che instaurò il regno dell’idea di progresso.
Va tenuto presente che l’evoluzione in se stessa non significa necessariamente, quando la si applichi alla società, che l’uomo si muove verso una meta desiderabile. È una concezione neutrale, scientifica, compatibile sia con l’ottimismo che con il pessimismo. Secondo le diverse valutazioni, può sembrare una crudele sentenza come pure una garanzia di continuo perfezionamento. E infatti fu interpretata in tutti e due i modi.
Per basare il progresso sull’evoluzione sono necessari due argomenti distinti. Se si potesse dimostrare che la vita sociale obbedisce alle stesse leggi generali dell’evoluzione alle quali obbedisce la natura, e anche che il processo comporta un incremento della felicità, allora il progresso sarebbe un’ipotesi valida quanto l’evoluzione delle forme viventi. Darwin concluse il suo trattato con queste parole:
Come tutte le forme viventi sono le discendenti dirette di quelle che vissero molto tempo prima dell’epoca siluriana, possiamo essere certi che l’ordinario succedersi delle generazioni non si è mai interrotto, e che nessun cataclisma ha devastato il mondo. Perciò possiamo guardare con una certa fiducia a un futuro sicuro e altrettanto incommensurabilmente lungo. E come la selezione naturale opera solamente per il bene di ogni essere, tutti gli ambienti fisici e mentali tenderanno a progredire verso la perfezione.
Qui l’evoluzionista batte la nota dell’ottimismo. E suggerisce che bisogna cercare le leggi del progresso in luoghi diversi da quelli nei quali finora sono state cercate.
L’opera di Spencer rappresenta il più abile e più persuasivo sviluppo dell’argomento evoluzionistico applicato al progresso. Estese il principio evoluzionistico alla sociologia e all’etica, e ne fu il più eminente interprete in senso ottimistico. Era stato evoluzionista già molto prima del decisivo intervento di Darwin, e nel 1851 aveva pubblicato la Statica sociale, che, anche se non aveva ancora elaborato le leggi evoluzionistiche che cominciò a formulare subito dopo, e anche se era ancora un deista, presenta l’indirizzo generale della sua filosofia ottimistica. Il progresso vi è base di una teoria dell’etica. Il titolo tradisce l’influenza di Comte, ma lo svolgimento si oppone nettamente allo spirito del suo insegnamento, e la sociologia è trattata in modo nuovo.
Spencer comincia col dimostrare che la costanza della natura umana, così frequentemente invocata, è un errore. Perché il mutamento è la legge di ogni cosa, di ogni singolo oggetto come dell’universo. «La natura nella sua infinita complessità tende sempre verso un nuovo sviluppo». Sarebbe strano se, in questo mutare universale, solo l’uomo rimanesse immutabile. «Anch’egli obbedisce alla legge di un mutamento indefinito». Mette in contrasto i selvaggi senza casa e i Newton e gli Shakespeare; tra questi due estremi ci sono innumerevoli gradi di differenza. Se dunque l’umanità è infinitamente varia, la perfettibilità è possibile.
In secondo luogo il male non è una necessità permanente. Perché ogni male deriva dal non-adattamento di un organismo alla sua situazione; questo vale per tutti gli esseri viventi. Ed è altrettanto vero che il male tende a scomparire. In virtù di un principio essenziale della vita, questo non-adattamento degli organismi viene continuamente rettificato, e uno dei due o tutti e due continuano a modificarsi finché l’adattamento è perfetto. E questo si applica tanto alla sfera intellettuale quanto a quella fisica.
Allo stato attuale del mondo gli uomini soffrono molti mali, e questo dimostra che i caratteri non si sono adattati alla condizione sociale.
Ora per adattarsi occorre che ogni individuo abbia esigenze che possano essere pienamente soddisfatte senza intaccare la possibilità altrui di soddisfazioni simili. Ma la condizione non si è ancora realizzata, perché gli uomini civili conservano alcune caratteristiche della primitiva vita di predoni. L’uomo nella condizione primitiva aveva bisogno di una costituzione morale e nella condizione attuale gliene serve un’altra completamente diversa. Ne è risultato un lungo processo di adattamento destinato a durare ancora molto tempo.
La civiltà è il frutto degli adattamenti già realizzati. Progresso è il frutto dei vari passi del processo. Spencer non dubita che attraverso questo processo l’uomo finirà con l’adattarsi. Tutti gli eccessi e tutte le deficienze scompariranno; in altre parole, scompariranno tutte le imperfezioni. «Lo sviluppo definitivo dell’uomo ideale è logicamente certo – certo quanto ogni conclusione nella quale riponiamo una fede implicita; per esempio, quella che tutti gli uomini devono morire». Qui si afferma la teoria della perfettibilità, su nuove basi, con una fiducia non minore di quella di Condorcet o di Goldwin.
Il progresso dunque non è un caso ma una necessità.
La civiltà è parte della natura, in quanto sviluppo di possibilità latenti nell’uomo grazie all’azione di circostanze favorevoli che non possono non verificarsi in un momento o nell’altro. Qui la discussione di Spencer afferma un fine ultimo.
Il fine ultimo della creazione, dichiara, è quello di produrre la massima felicità possibile, e per raggiungere questa meta è necessario che ogni membro dell’umanità entri in possesso di facoltà che gli permettano di godere il più possibile dell’esistenza, ma in maniera tale da non privare gli altri della possibilità di godere di una soddisfazione simile. Esseri così fatti non possono moltiplicarsi in un mondo abitato da creature inferiori; queste, perciò, devono essere allontanate per lasciare posto all’uomo; e per spodestarle l’uomo delle origini doveva avere una costituzione inferiore che gli permettesse di iniziare l’opera; doveva essere un predone, doveva sentire il desiderio di uccidere. In generale, data una terra non sottomessa ed essendo l’essere umano “designato” a moltiplicarsi e a occuparla, essendo dunque le leggi della vita quello che sono, non poteva verificarsi altra serie di mutamenti di quella che si è in effetti verificata.
L’argomento può essere espresso in una forma che non richiede il postulato di un fine ultimo e non ricorre al concetto di divina provvidenza che Spencer adottò nella sua opera, anche se nella filosofia posteriore fu sostituito dal concetto di un Inconoscibile che si cela dietro tutti i fenomeni. Ma la funzione divina consiste solo nel mettere in moto delle forze immutabili per realizzare i suoi disegni. «Nel mondo morale come in quello materiale prove sempre più numerose vanno gradatamente generando la convinzione che gli avvenimenti non sono in fondo fortuiti, ma sono frutto dell’elaborazione di forze immutabili».
Non si può trascurare l’ottimismo della visione di Spencer. «Dopo studio paziente», egli scrive, «questo caos di fenomeni in mezzo al quale l’uomo è nato, ha cominciato ad assumere un disegno»; invece che confusione egli comincia a distinguere «il vago profilo di un piano gigantesco. Nessun accidente, niente caso, ma dovunque ordine e completezza. Una ad una le eccezioni svaniscono, e tutto diventa sistematico».
Il potente movimento tende sempre verso la perfezione – verso uno sviluppo completo e un bene più genuino, subordinando in questa universalità tutte le piccole irregolarità o le ricadute, come la curvatura della terra subordina monti e valli. Anche nei mali lo studioso impara a riconoscere solo una forza benevola, che lotta. Ma soprattutto egli rimane colpito della coerente sufficienza delle cose.
Ma il movimento verso l’armonia, l’eliminazione del male, non potrà verificarsi grazie a idealisti che impongano al mondo le loro costruzioni o grazie a governi autoritari. Esso implica un adattamento graduale, una graduale trasformazione psicologica, e vive della libertà individuale. Procede dalle opinioni date e tiene conto delle opinioni opposte. Guizot aveva detto, «progresso e nello stesso tempo resistenza». E per Spencer questa resistenza è benefica, finché proviene da coloro che credono onestamente nella bontà delle istituzioni che essi difendono e nel danno che procurerebbero le innovazioni proposte.
Si osserverà che la dottrina della perfettibilità di Spencer riposa su una base assolutamente diversa da quella della dottrina del diciottesimo secolo. Una cosa è ricavarla da una psicologia astratta per cui la natura umana è docilmente plasmabile nelle mani del legislatore e del precettore. Altra cosa è arguire che la natura umana è soggetta alla legge generale di mutamento, e che il processo per il quale lentamente ma ininterrottamente tende ad adattarsi sempre di più alle condizioni della vita sociale – in quanto i bambini ereditano le attitudini acquisite dai genitori – tende a una definitiva armonia. In questo, una legislazione e una educazione sono utili perché aiutano il processo di inconsapevole adattamento, e rispondono ai mutamenti psicologici che si verificano nella comunità e si rivelano nell’opinione pubblica.
Nei dieci anni che seguirono Spencer indagò le leggi generali dell’evoluzione e disegnò lo schema della sua Filosofia sintetica che doveva spiegare lo sviluppo dell’universo. Egli mirava a dimostrare che è possibile scoprire le leggi del mutamento che governano tutti i fenomeni simili, inorganici, biologici, psichici e sociali. Alla luce di questa ipotesi il progresso reale dell’umanità è dato come fatto necessario, una continuazione del movimento universale, governato dai medesimi principi; e, se si dimostra che il progredire comporta una sempre maggiore felicità, la teologia di progresso è fondata. La prima parte dell’opera, Primi principi, apparve nel 1862; nei vent’anni successivi, vennero la Biologia, la Psicologia e infine la Sociologia; la sintesi del processo universale sviluppata lucidamente e persuasivamente in questi volumi, probabilmente fece più di ogni altra opera, almeno in Inghilterra, per diffondere il significato della teoria evoluzionistica e per innalzare la dottrina di progresso al rango di verità ovvia nella stima popolare, un assioma cui poteva efficacemente ricorrere la retorica politica.
Molti di quelli che furono attratti dalla gigantesca sintesi di Spencer non si resero ben conto che la sua teoria dell’evoluzione sociale, del graduale perfezionamento psichico del genere umano, si basa sulla validità del postulato che i genitori trasmettano ai figli facoltà e attitudini da loro acquisite. Notoriamente, gli esperti discordano in proposito. Un giorno il problema sarà risolto definitivamente, e forse a favore di Spencer. Ma la teoria di un continuo perfezionamento psichico frutto di un processo naturale si imbatte in un’ovvia difficoltà, che non sfuggì ad alcuni critici di Spencer, e cioè nel fatto evidente che ogni grande civiltà del passato progredì fino a un punto in cui invece di avanzare ulteriormente rimase ferma e decadde, per diventare preda di società più giovani, o, se sopravvisse, per ristagnare. Arresto, decadenza, ristagno sono stati una regola. Non è facile conciliare questo fenomeno con la teoria del perfezionamento mentale.
La filosofia di Spencer fu accolta con relativa facilità grazie alle scoperte di Darwin, avvalorate dalla paleontologia, una scienza che si andava sviluppando, e dall’accumularsi di prove materiali che dimostravano che l’uomo era molto antico. La prospettiva temporale dell’uomo fu rivoluzionata dai progressi simultanei della geologia e della biologia, così come l’astronomia copernicana aveva rivoluzionato la prospettiva spaziale dell’uomo. Molti pensatori e molti che non pensavano erano pronti a riconoscere – come dice Huxley – «nel lungo progresso passato dell’uomo, una ragionevole base per aver fede nella conquista, da parte sua, di un futuro più nobile».
La parte documentata del lungo progresso del passato non era piacevole a ricordarsi per chi fosse dotato di immaginazione, e Winwood Reade, un giovane viaggiatore africano, in un vivace libro lo descrive come un lungo martirio. Ma costui era discepolo di Spencer, e le sue speranze per il futuro erano tanto brillanti quanto era buia la sua descrizione del passato. Il martirio dell’uomo, pubblicato nel 1872, fu tanto letto da toccare otto edizioni in dodici anni e può essere considerato come uno dei fattori che contribuirono a diffondere l’ottimismo di Spencer.
Fu un ottimismo non condiviso da tutti i più eminenti pensatori contemporanei. Lotze aveva enfaticamente dichiarato nel 1864 che la natura umana non muterà, né dopo vide ragione di mutare la sua convinzione:
Non ci sarà mai un solo ovile e un solo pastore, non ci sarà mai una cultura uniforme per tutto il genere umano, non ci sarà mai una nobiltà universale. La nostra virtù e la nostra felicità potranno fiorire solo attraverso un attivo conflitto con l’errore. Se si rimuovessero tutti gli ostacoli, gli uomini non sarebbero più uomini, ma un gregge di bruti innocenti, che si cibano delle buone cose che la natura procura tal quale come agli inizi stessi della storia.[1]
Ma anche se noi con Spencer respingiamo l’antico detto, confermato da Lotze come da Fontanelle, che la natura umana è immutabile, la massima dell’armonia definitiva si imbatte nella seguente obiezione. “Se l’ambiente sociale fosse stabile”, si potrebbe dire, “si potrebbe ammettere un adattamento graduale dell’uomo, che ha natura variabile ex hypothesi, il quale raggiungerebbe un definitivo equilibrio. Ma l’ambiente cambia continuamente in seguito agli stessi sforzi d’adattamento dell’uomo: ogni passo che egli fa per armonizzare i suoi bisogni e le sue condizioni, produce nuova discordia e suscita nuovi problemi. In altre parole, non c’è ragione di credere che il processo reciproco, che continua con lo sviluppo della società, tra natura umana e ambiente che l’uomo continua a mutare giunga mai all’equilibrio, e neppure che, mutando il carattere della discordia, le sofferenze diminuiscano”.
In effetti, in base all’elemento neutrale dell’evoluzione si può costruire una teoria pessimistica speciosa quanto una teoria ottimistica. E una teoria siffatta fu elaborata con forza e abilità dal filosofo tedesco E. von Hartmann, la cui Filosofia dell’inconscio apparve nel 1869. Lasciando da parte la sua metafisica e la grottesca teoria del destino dell’universo, vediamo in questa e nelle opere che seguirono con quanta plausibilità un evoluzionista convinto poteva resuscitare la concezione di Rousseau secondo cui civiltà e felicità sono reciprocamente antagoniste, e che progresso significa incremento dell’infelicità.
Lo stesso Huxley, uno dei più eminenti interpreti della dottrina evoluzionistica, non ebbe, almeno negli ultimi anni, un’opinione molto ottimistica dell’umanità. «Non conosco studio così rattristante quanto quello dell’evoluzione dell’umanità come ce la presentano gli annali della storia… L’uomo è un bruto, appena più intelligente di altri bruti»; e «neppure la migliore delle civiltà moderne mi sembra prospettare una condizione umana che rappresenti un degno ideale o almeno possegga il merito della stabilità».
Forse c’è qualche speranza di un grande miglioramento, altrimenti ci sarebbe da dare «il benvenuto a una gentile cometa che la facesse finita con tutte la faccenda».
E giunge alla conclusione che un miglioramento del genere è possibile se ci si oppone deliberatamente ai processi della natura invece di collaborare con essi. «Progresso sociale significa verificare ad ogni passo il processo cosmico e sostituirlo con un altro che potrebbe essere chiamato processo esito».
Come può in pochi secoli l’uomo sperare di conoscere a fondo il processo cosmico che opera da milioni di anni?
«La teoria evoluzionistica non incoraggia previsioni millenarie».
Ho citato queste opinioni per mostrare come l’evoluzione può portare tanto a un’interpretazione pessimistica quanto a un’interpretazione ottimistica.
La risposta alla domanda se essa porta verso una direzione auspicabile o no dipende dai temperamenti. In un’età di prosperità e di auto-compiacimento si è pronti a dare risposta affermativa, e il termine evoluzione viene a comprendere nel linguaggio comune le implicazioni di valore che sono proprie del progresso.
Si può notare che l’auto-compiacimento dell’epoca fu incoraggiato dalla diffusione della cultura scientifica. Una sempre crescente (specialmente in Inghilterra) richiesta di libri e conferenze, rendendo accessibili e interessanti al pubblico profano i risultati della scienza, costituisce un aspetto notevole della seconda metà del diciannovesimo secolo e soddisfare questa richiesta fu un’impresa remunerativa. La letteratura popolare, spiegando le meraviglie del mondo naturale, fece germogliare nello stesso tempo nell’immaginazione umana la coscienza che si viveva in un’era che, grandemente superiore in se stessa a qualsiasi età passata, non doveva essere gravata dal timore della decadenza o di una catastrofe, ma, ispirata dalla fede nelle infinite risorse della scienza, poteva con fiducia sfidare il destino.
Così negli ultimi decenni del secolo l’idea di progresso stava diventando articolo di fede generale. Alcuni potevano manifestarla fatalisticamente, nel senso che l’umanità si muove in una direzione desiderabile indipendentemente da qualsiasi azione dell’uomo: altri potevano credere che il futuro dipende in gran parte dai nostri consapevoli sforzi, ma che niente nella natura delle cose delude la prospettiva di un’avanzata continua e illimitata. La maggioranza non indagò troppo questi punti della dottrina, ma l’accolse con una certa sensazione di conforto: in ogni caso, venne a far parte dell’atteggiamento mentale della gente colta.
Quando Frederic Harrison tenne nel 1889 a Manchester un eloquente discorso sulla “Nuova era” che affermava come «la fede nel progresso umano sostituisse la speranza in ricompense celesti riservate all’anima isolata», l’argomento generale poteva rivolgersi ad ambienti immensamente più vasti di quello dei positivisti ai quali particolarmente era diretto.
Il dogma – perché dogma rimane, nonostante la convinzione di un Comte o di uno Spencer di averne fatto un’ipotesi scientifica – aveva prodotto un importante principio etico. La preoccupazione per la posterità ha operato attraverso tutta la storia come motivo di condotta, ma debolmente, occasionalmente, e in senso molto limitato. Con la dottrina di progresso essa assume, logicamente, un’importanza preponderante perché il centro di interesse si trasferisca alle future generazioni che godranno una situazione di felicità negata a noi, ma che le nostre fatiche e le nostre sofferenze contribuiranno a realizzare. Se si sostiene la dottrina in una forma estremamente fatalistica, allora nostro dovere è rassegnarci ai sacrifici per amore di ignoti discendenti, così come il comune altruismo domanda di accettare lietamente i sacrifici per amore dei nostri simili. Winwood Reade l’accennò quando scrisse «la nostra prosperità si fonda sulle agonie del passato. È dunque ingiusto che anche noi soffriamo a beneficio di coloro che verranno?».
Se si sostiene che ogni generazione può con le sue azioni deliberate determinare per il bene o per il male i destini del genere umano, allora i nostri doveri verso gli altri si estendono non solo nel tempo ma anche nello spazio, e i nostri contemporanei sono solo una parte del “prossimo” verso il quale siamo obbligati. Il fine etico può ancora essere definito, con gli utilitaristi, come la massima felicità del maggior numero possibile di individui: solo che il maggior numero possibile di individui comprende, come osservava Kidd, «i membri delle generazioni non ancora nate e alle quali non si pensa neppure».
Questa estensione del codice morale, se non è ancora notevole nei trattati di etica, negli ultimi anni ha ottenuto riconoscimenti pratici.
Negli ultimi quarant’anni quasi tutti i paesi civilizzati hanno prodotto una vasta letteratura sociologica, che postula generalmente un progresso illimitato.
Ma la “legge” che per Kant un nuovo Newton doveva formulare, che Saint-Simon e Comte non riuscirono a trovare, e con cui la formula evoluzionistica di Spencer ha lo stesso rapporto che ha con la legge di gravitazione, rimane ancora da scoprire (…).
Guardando indietro, notiamo come la storia dell’idea sia stata in rapporto con lo sviluppo della scienza moderna, con lo sviluppo del razionalismo e con la lotta per la libertà politica e religiosa.
I precursori (Bodin e Bacone) vissero in un tempo in cui il mondo si andava consapevolmente emancipando dall’autorità della tradizione e andava scoprendo che la libertà è un difficile problema teorico. L’idea prese forma definitiva in Francia quando il vecchio schema dell’universo fu distrutto dal trionfo della nuova astronomia e il prestigio della Provvidenza, cuncta supercilio moventis, andò impallidendo di fronte alla maestà dell’immutabilità delle leggi naturali.
Cominciò allora una lenta ma continua restaurazione del regno di questo mondo. I sogni oltremondani dei teologi, “ceux qui reniaient la terre pour patrie”, e che avevano governato per tanto tempo, perdettero ogni potere, e la dimora terrena ritornò a far parte degli affetti umani, ma con la nuova speranza che potesse diventare più adatta all’esistenza di esseri ragionevoli.
Abbiamo visto come la credenza che l’umanità si muova verso la felicità terrena fosse diffusa da alcuni eminenti pensatori, come pure da alcune «persone non molto fortunate che avevano molto tempo da perdere». E tutti gli alti sacerdoti ai quali il credo deve il suo successo furono razionalisti, dall’autore della Histoire des oracles al filosofo dell’Inconoscibile.
Per guadagnare autorità e spiegare il suo significato, l’idea di progresso dovette superare un ostacolo psicologico, che si può definire l’illusione della finalità. È certo agevole fantasticare di una società, enormemente diversa dalla nostra, che esisterebbe in qualche luogo sconosciuto, per esempio nei cieli; è molto più difficile accogliere e riconoscere come un dato di fatto che l’ordine delle cose che ci è familiare è così poco stabile che i nostri discendenti potrebbero nascere in un mondo tanto diverso dal nostro quanto il nostro è diverso dal mondo degli antenati del periodo pleistocenico.
L’illusione della finalità è forte.
Gli uomini del medioevo non avrebbero mai immaginato che in un tempo non lontano l’idea del Giudizio Universale non avrebbe più suscitato alcuna emozione né interesse. Nella sfera speculativa Hegel, e anche Comte, sono un esempio di questa limitazione psicologica: non si resero conto che i loro sistemi non potevano essere definitivi come non lo erano stati i sistemi di Aristotele e di Cartesio. È stata la scienza, forse, più di ogni altra cosa – la meravigliosa storia della scienza degli ultimi cento anni – che ci ha aiutati a superare questa illusione.
Ma se accettiamo i ragionamenti su cui si basa il dogma del progresso non dobbiamo portarli all’estrema conclusione? Se ci liberiamo dall’illusione della finalità è legittimo esonerare dall’emancipazione il dogma stesso? Non deve anch’esso sottomettersi alla sua stessa negazione della finalità? Il processo di mutamento, che viene chiamato ottimisticamente progresso, non spingerà a sua volta il “progresso” a lasciare quella posizione eminente che oggi occupa con evidente sicurezza, come un trono? Ἒσσεται ἧμαρ ὂτεν verrà un giorno, nel volgere dei secoli, in cui una nuova idea ne occuperà il posto per guidare l’umanità.
Un’altra stella, che ora non si nota o è invisibile, monterà nel cielo dei valori intellettuali, e i sentimenti umani saranno sottoposti alla sua influenza, i progetti umani risponderanno alla sua guida. Sarà il criterio col quale saranno giudicati il progresso e le altre idee. E anch’essa sarà a sua volta sostituita.
In altre parole, non suggerisce lo stesso progresso l’idea che ha un valore dottrinario soltanto relativo, e corrisponde solo a uno stadio non molto avanzato della civiltà, così come la provvidenza, ai suoi tempi, era un’idea che aveva valore relativo e corrispondeva a uno stadio ancor meno avanzato? O si dirà che questo è soltanto un trucco dialettico sconcertante, giocato sotto la protezione dell’oscurità in cui il dio prudente di Orazio ha celato e messo al sicuro il futuro?
[1] Microcosmos, libro VII, 5. La prima edizione apparve in Germania nel 1856-65. Lotze era ottimista circa la durata della civiltà moderna: «Nessuno può pretendere di prevedere il futuro, ma a giudizio umano si direbbe che oggi ci sono più garanzie che nell’antichità contro eccessi ingiustificati e contro forze esterne che possano danneggiare la vita della civiltà».
Fonte: www.futurimagazine.it
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