martedì 16 novembre 2021

La lunga marcia della menzogna

 
Secondo Jacques Derrida (1930 - 2004) è possibile tracciare una (veritiera) storia della menzogna solo considerandola in una dimensione collettiva, inserita come architrave di un sistema fondato sull'ideologia e sulla collaborazione con il potere. 
È proprio lì che la dissidenza assume il valore di vocazione alla verità.

Cosa succede se combiniamo insieme il Derrida di Storia della menzogna e il Vàclav Havel de Il potere dei senza potere? Ne sortisce una lettura estremamente illuminante sulle menzogne collettive che camminano a passo spedito nel corso della storia, così da concludere che la menzogna stessa abbia una sua storia, e che questa conosce il proprio trionfo in una modernità tutt’altro che libera.

Nell’azzardarne un excursus storico, una domanda sottotraccia rischia di rendere il tentativo impossibile: come fa a essere veritiera una storia della menzogna? Uno di quei quesiti che verrebbero liquidati sbrigativamente da Bertrand Russell come logica autoreferenziale, perché della menzogna è impossibile dimostrare la veridicità. 
Ma Jacques Derrida è evidentemente un ottimista e ritiene di poterci riuscire partendo da una definizione: “La menzogna non è un fatto o uno stato, ma un atto intenzionale, il mentire” ...


E già da qui uno sprovveduto troppo abituato a dare per scontato l’ovvio, che volesse cercare di capire dove il padre del decostruzionismo voglia andare a parare, ricorderebbe che solo ciò che è vero può essere un fatto o uno stato, e che la menzogna è quella narrazione fatta con l’intenzione di alterare la verità. Infatti, ci ricorda il nostro, menzogna ed errore non sono la stessa cosa. Si può dire una menzogna senza la consapevolezza né tantomeno l’intenzione di dirla, e questo esime da qualsiasi responsabilità personale quando la si racconta agli altri.

Bisogna subito avvertire che Derrida sceglie di non affrontare – pur ammettendola – in maniera troppo approfondita la questione più spinosa, e cioè se sia possibile mentire a se stessi. Ognuno di noi, infatti, sa in cuor suo fino a che punto e in che termini sia disposto a concedersi una buona dose di bugie pur di arrivare indenne alla fine della giornata. In ogni caso, egli ritiene che questo tipo di menzogna, certamente implicata da quella collettiva, non possa assurgere a oggetto di sapere teorico. Il mentire è preso in considerazione solo nei confronti dell’altro.

Quella che Derrida affronta, a partire dalle polemiche lanciate sul New Yorker da Hannah Arendt verso gli ultimi anni Sessanta del Novecento, è la menzogna elevata a sistema, cioè quella che ci coinvolge come cittadini. Dopo aver ricordato che la politica è terreno fertile per eccellenza della menzogna, risponde positivamente alla domanda iniziale sulla possibilità di stilare una storia della stessa: nella modernità non è cambiato soltanto il concetto di menzogna, ma anche la pratica del mentire.

Soltanto nella nostra modernità la menzogna avrebbe raggiunto il suo limite assoluto e sarebbe diventata completa e definitiva (…) Non il sapere assoluto come fine della storia, ma la storia come conversione alla menzogna assoluta.


L’excursus si muove all’interno della dicotomia metafisicamente certa tra vero e falso. 

L’esperienza del totalitarismo ci dimostra che il punto più alto di realizzazione di un regime coincide con il rovescio della gerarchia: come una sorta di Padre eterno, il potere si appropria della dicotomia vero-falso e la stravolge, fondando se stesso sul primato della menzogna. Il potere genera realtà attraverso la manipolazione del linguaggio. 

Cosa succede, però, al di fuori dell’esperienza del totalitarismo in senso stretto?

Derrida, che riprende il filosofo russo Aleksander Koyrè, trova una singolare coincidenza tra quello che avviene nel totalitarismo conclamato e nella sedicente libera modernità. 

Nell’epoca della comunicazione di massa, l’arte machiavellica principale del mentitore consiste nel:

(…) dire la verità sapendo che non si sarà mai presi sul serio dai non-iniziati. Sorta di «cospirazione in pieno giorno» in cui Hannah Arendt riconosce anche spesso la figura della menzogna moderna: dire la verità allo scopo di ingannare coloro che credono di non dovervi credere, gli ingenui che si credono abbastanza astuti, scettici e iniziati per far parte del numero di quelli che sanno ciò che è necessario credere.

Derrida, a questo punto, ci spiega il fulcro della sua ricognizione storica della menzogna, il passaggio dalla società segreta alla società dei segreti, in cui la cospirazione si svolge alla luce del giorno. E’ plausibile una storia della menzogna, perché – per dirla sempre con Arendt – la menzogna come possibilità è strettamente connessa all‘azione, al cambiare il mondo e, in definitiva, alla politica.

Resta tuttavia muta una domanda, e cioè: come può chi subisce il potere, e quindi chi è costretto a patire il dominio della manipolazione della realtà, liberarsi dal giogo? Che cosa significhi vivere nel post-totalitarismo ce lo dice il Vàclav Havel ne Il potere dei senza potere. Dissidente del regime comunista, perseguitato per la sua adesione al movimento Charta 77, dopo la liberazione dal regime fu presidente della Cecoslovacchia. Nel 1978 scrisse questo libro, attuale più oggi che allora, in cui chiarisce il senso della dissidenza che sinteticamente si può definire come una domanda autentica, irriducibile di verità.

L’ideologia, cioè la vittoria della tesi sulla realtà, è quell’elemento decisivo che garantisce la continuità del potere. Ma il potere post-totalitario non ricorre a strumenti rozzi per affermarsi sui cittadini, ricorre al contrario a quello più subdolo: la loro collaborazione.

Havel, per spiegare in che senso ciò avviene, ricorre all’esempio di un fruttivendolo che esponga sulla vetrina del suo negozio un cartello con la scritta “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”. 

Con questo atto di pubblica fede nel potere – e il contesto in cui ciò avviene è quello della dittatura vera e propria, diremmo “classica” – il fruttivendolo contribuisce a creare il panorama della vita quotidiana in collaborazione tacita con gli altri cittadini negozianti che esporranno cartelli simili, cosicché la collaborazione con il potere finirà per configurarsi come legittimazione dello stesso. Il fruttivendolo di Havel è al tempo stesso vittima e strumento del sistema, dunque nel post-totalitarismo si crea una situazione di auto-totalitarismo sociale.

Nel sistema post-totalitario, (…) ognuno è a suo modo vittima e supporto. Quello che noi intendiamo per sistema, non è allora un ordinamento che altri imporrebbero ad altri, ma è qualcosa che penetra in tutta la società e che tutta la società contribuisce a creare, qualcosa che sembra sì inafferrabile, perché ha carattere di mero principio, ma che è in realtà “afferrato” da tutta la società come aspetto importante della sua vita.

Havel, a questo punto, chiosa con un’affermazione sbalorditiva per chi non concepisce la zona grigia di un’adesione personale, dettata da esigenze di sopravvivenza, anche senza esplicita coercizione, al potere: l’uomo è sì costretto a vivere nella menzogna, ma la costrizione nasce dalla sua capacità di riuscire a svolgere la sua vita proprio all’interno di questa. 
Di conseguenza non soltanto il sistema aliena l’uomo, ma l’uomo alienato “appoggia questo sistema come progetto involontario”, realizzando quella complicità che porta il potere a defraudare il cittadino della sua identità, perché a sua volta il cittadino se la fa togliere.


Che cosa può fare, allora, il nostro eroe della menzogna, il fruttivendolo che espone slogan graditi al potere? 

Può cominciare a smettere di esporli. Può ad esempio iniziare a dire la verità nelle riunioni sindacali. Facendo questo, risponde all’esigenza di non scendere più a patti con il sistema che lo fa sopravvivere come automa. Egli può riappropriarsi della sua irriducibile domanda di “vita nella verità”. 
E’ in questo tipo di vita nuova che nasce e si sviluppa la dissidenza.

In particolare quest’ultima, secondo Havel, come “struttura parallela” al potere non è da considerarsi chiusa, come se fosse un ghetto. Al contrario, diventa quel luogo non soltanto ideale, ma politico nel senso più ampio del termine, in cui quella domanda irriducibile diventa vera e propria espressione dello stare nel mondo per chiunque. 
Nel post-totalitarismo che nasce dall’incontro tra dittatura e civiltà dei consumi, i cittadini si trovano stretti, per dirla con il Leopardi de La ginestra, in social catena, in una convivenza civile determinata dalla menzogna.

Il dissidente è colui che riscopre la propria vocazione alla verità e che fissa un limite, il più forte, al potere: gli oppone la sua dignità di essere umano, imparando a non seppellirla sotto una coltre di finta quiete.

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