Spesso l’uomo moderno viene paragonato a Ulisse: basti pensare a Dante, a Joyce o a Saba: come l’eroe greco, è continuamente proteso oltre le Colonne d’Ercole, alla ricerca di un segreto da svelare, di un’ultima frontiera da oltrepassare.
Il paragone è giusto, a patto di mettere in evidenza due sostanziali differenze: primo, il figlio di Laerte voleva, sì, divenir del mondo esperto, e delle vizi umani e del valore, ma voleva, ancora più fortemente, fare ritorno alla sua casa, da sua moglie e da suo figlio; secondo, egli era perfettamente consapevole dei rischi che affrontava durante la navigazione, e se in alcuni casi li volle affrontare intenzionalmente, pur potendone fare a meno, fu perché aveva una grandissima sete di conoscenza e quella sete era proporzionata ai mezzi di cui disponeva per difendersi anche dagli eventuali pericoli ...
Ad esempio, volle sì udire il canto dolcissimo e pericolosissimo delle Sirene, ma prese la precauzione di farsi legare all’albero della nave e di far sì che tutti i suoi compagni si tappassero le orecchie con della cera, in modo da non soggiacere alla sua stessa tentazione di dare ascolto a quelle voci e di fermare la nave, andando incontro alla morte.
Invece l’uomo moderno si getta su mari sconosciuti senza alcun desiderio di far ritorno a casa, anzi si direbbe che voglia fuggire dalla sua patria, dalla sua famiglia, dalla sua educazione, dai suoi valori e da tutto il suo mondo spirituale; e inoltre, come abbiamo accennato, sovente non ha affatto la piena consapevolezza di trovarsi in un mare sconosciuto, per cui si spinge avanti in maniera sconsiderata, impreparato sia psicologicamente che materialmente, esponendosi a pericoli mortali dei quali non ha neppure una vaga idea.
Uno dei mari sconosciuti e pericolosi nei quali si è avventurato senza neppure accorgersi di aver oltrepassato le Colonne d’Ercole, cioè di non essere più in acque a lui note, è quello della comunicazione cinematografica, radiofonica, televisiva e, da ultimo, informatica.
Una cosa, infatti, è sapere come si accende un televisore, e, al limite (ma quanti lo saprebbero fare?) come funziona e come lo si aggiusta se si brucia una valvola; un’altra cosa, e ben diversa, è capire come la comunicazione televisiva sia una cosa del tutto nuova e differente rispetto alla comunicazione verbale, non solo dal punto di vista tecnico e quantitativo, ma anche e soprattutto dal punto di vista psicologico e qualitativo.
Intendiamo dire che una cosa vista di persona e poi narrata ad altri e una cosa vista alla televisione, anche se si riferiscono allo stesso evento, hanno un impatto e una risonanza completamente diversi su di noi, sulla nostra coscienza e sulla nostra intelligenza, e generano effetti anch’essi completamente diversi. E non ci riferiamo solo alle differenze generate da certi stratagemmi di cui la televisione dispone per alterare la realtà rappresentata, ma anche a qualcosa di più ampio, di più sottile, di più pervasivo, e contro cui è difficilissimo premunirsi in maniera adeguata.
Ci sia permesso chiarire questo concetto mediante un semplicissimo esempio concreto.
Se un cittadino romano è solito recarsi, la domenica, in Piazza San Pietro, per assistere all’Angelus e ricevere la benedizione papale, vedrà bene, coi suoi occhi, quanta gente c’è in quella piazza, e noterà senza dubbio che ai nostri dì ce n’è molta, ma molta meno di quanta ce ne fosse, nella medesima occasione, dieci, venti o trent’anni or sono: e questo perché potrà fare un confronto fra ciò vede oggi e ciò che vedeva allora.
Un telespettatore che assiste da casa a quell’evento, e che magari abita lontanissimo da Roma, dove forse non si recherà mai in tutta la sua vita, si affida alle immagini che gli vengono mostrate: e chi fa le riprese ha cura di non far notare affatto una tale differenza, inquadrando quei lati della piazza nei quali la folla sembra numerosa come lo era un tempo; la voce che accompagna il servizio, poi si guarda bene dal dichiarare apertamente ciò che qualsiasi testimone oculare, dotato di memoria (e naturalmente di onestà intellettuale) non può non vedere e trarne le sue personali conclusioni.
Questo è un esempio molto semplice di come la televisione ci abitui a considerare “vere” le cose che ci mostra e che ci dice, anche se per chi fa i servizi è cosa relativamente semplice farci credere qualcosa che è molto, ma molto lontano dal vero.
E quel che abbiamo detto per l’Angelus in Piazza San Pietro vale per gli sbarchi dei migranti, con le eventuali vittime deposte dal mare in riva alla spiaggia; per le manifestazioni, più o meno pacifiche, dei gilet gialli francesi, e il contegno assunto verso di essi dalla polizia di quel Paese; nonché per fatti altamente drammatici e spettacolari, come il crollo delle Twin Towers di New York, le cui immagini ci sono state mostrare decine, centinaia di volte, sempre con gli stessi commenti banali e puramente emozionali, senza che mai la voce di un giornalista onesto ci facesse notare che due grattacieli di quella mole non possono crollare su se stessi, verticalmente, in seguito a un urto esterno, ma solo se vi è una demolizione controllata.
Ma c’è anche un altro senso, dicevamo, più sottile ed elusivo, ma anche più forte e pervasivo, in cui i mass-media, e la televisione in primis, operano in noi una vera e propria distorsione mentale, nell’atto medesimo in cui sembra che ci stiano offrendo solo la realtà pura e semplice, e nient’altro che la realtà.
Si tratta di questo: una cosa vista e sentita alla televisione si colora automaticamente di una tonalità particolare, assume un’aura impalpabile, ma reale, per cui passa dalla dimensione della vita vera a quella della fabula, del mito, senza che ce ne rendiamo minimamente conto.
Un evento visto e udito coi nostri occhi e coi nostri orecchi è pur sempre un evento fra altri eventi; ma un evento visto e udito mediante la televisione è un’altra cosa: appartiene a una dimensione parallela, dove le cose, invece di essere un po’ meno vere, dal momento che, dopotutto, sono cose riportate e trasmesse, diventano, chissà come, più vere.
Lo hanno detto alla televisione; oppure: l’ho visto coi miei occhi (alla televisione!): sono frasi significative, che attestano quanto la televisione sia, di per sé, una fonte autorevole di verità. Quel che essa mostra potrà anche essere stato ritoccato e magari falsificato: di ciò siamo forse consapevoli, ma solo con la nostra parte razionale. Con la parte emotiva, noi siamo immersi nel clima di quel medium: aderiamo a ciò che esso ci narra con tutto il nostro essere, lo accettiamo e nello stesso tempo lo trasferiamo in una regione della nostra consapevolezza che è al di sopra della sfera dell’esperienza comune.
E ora, anche qui, facciamo un esempio: che non è nostro, ma lo ha fatto nel 2011 il giornalista Alessandro Gnocchi, presentando, insieme al professore Matteo D’Amico, il libro di Roberto de Mattei sul Concilio Vaticano II.
Gnocchi osservava che quel che noi sappiamo o crediamo di sapere del Concilio, e quindi ciò che ne pensiamo, viene in grandissima parte dalla televisione (e dai giornali): la narrazione di quell’evento è stata fatta da loro.
Quando si parla o quando si pensa al Concilio Vaticano I, o al Concilio di Trento, o al Concilio di Nicea, ci si richiama ai documenti prodotti da quei concili; ma quando si parla del Vaticano II, la prima cosa che viene in mente sono le immagini mostrateci dalla televisione, e i commenti dei giornalisti televisivi di allora.
In conclusione: tutto ciò che noi sappiamo, o crediamo di sapere, sul Concilio, e dunque anche il giudizio che vogliamo dare di essi, sono condizionati da un fattore che precede ogni nostra operazione intellettuale: un fattore emozionale legato a quelle immagini, al modo in cui ci sono state date e al mezzo che ce le forniva. Il medium è il messaggio!, ammoniva acutamente Marshall McLuhan (questo lo sanno tutti; ma quanti sanno che McLuhan da protestante si convertì al cattolicesimo, adottò la più rigorosa filosofia tomista e non smise mai di mettere in guardia contro le falsificazioni e le ambiguità del mezzo televisivo?).
È vero che lo stesso Paolo VI, a pochissimi anni di distanza dalla chiusura del Concilio riconobbe il fallimento: Ci aspettavamo la primavera, invece è venuto l’inverno. Eppure, in tutti noi è rimasta quella prima impressione positiva, frutto della narrazione mediatica; e probabilmente, in qualche piega della nostra coscienza, essa vi rimarrà sempre.
Ora, lo stesso regime di monopolio lo esercitano sui mass-media: il che ci riconduce al discorso di prima: che tutto ciò che noi crediamo di sapere sia del passato, sia del presente e anche della più stretta attualità, è stato in effetti selezionato e manipolato in modo tale da far sì che noi sappiamo e pensiamo ciò che essi vogliono, e non certo col nostro libero giudizio.
Fonte: www.ricognizioni.it
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