lunedì 10 febbraio 2020

Sarà possibile creare un computer consapevole?


di Federico Faggin

Dopo aver elucidato i concetti fondamentali di coscienza, computer, e cellule viventi, questo articolo considera la differenza cruciale tra una cellula e un computer, concludendo che una cellula è un nanosistema dinamico basato sulle leggi della meccanica quantistica, mentre il computer è un sistema “statico” che usa le leggi riduttive della meccanica classica.

L’essenza della coscienza è la sua capacità di percepire e conoscere attraverso sensazioni e sentimenti. Però non c’è nessun fenomeno fisico noto che ci permetta di tradurre segnali elettrici, sia nel computer come nel cervello, in sentimenti: si tratta di due classi di fenomeni incommensurabili. 

Per spiegare la natura della coscienza, quindi, l’autore introduce un modello della realtà basato su principi cognitivi anziché materialistici. Secondo questo modello, la coscienza è una proprietà olistica irriducibile dell’energia primordiale di cui tutto è costituito (spazio, tempo e materia). 

Come tale, la coscienza può crescere soltanto se i componenti di un sistema si aggregano olisticamente, come avviene in una cellula. Essendo il computer un sistema riduttivo, la sua “coscienza” non può aumentare con il numero dei suoi componenti elementari (i transistor), e pertanto non può superare quella di un transistor ...


Fare una macchina a somiglianza d’uomo è sempre stato un sogno dell’umanità. 

Però soltanto con l’avvento dell’intelligenza artificiale (IA), verso la seconda metà degli anni cinquanta, questo sogno si è trasformato in possibilità. L’obiettivo dell’IA, sin dall’inizio, è stato di tradurre in algoritmi le percezioni, decisioni e azioni umane in modo da creare macchine intelligenti. I primi passi dell’IA furono concentrati sui cosiddetti problemi difficili, come giocare a scacchi per esempio, e già nel 1960 il computer riusciva a vincere contro giocatori bravi, anche se non campioni. 

Questo successo iniziale incoraggiò gli studiosi di IA a promettere che nel giro di 20 anni avrebbero creato computer più intelligenti dell’uomo. Invece è avvenuto proprio il contrario delle loro aspettative: i problemi difficili per l’uomo si sono dimostrati relativamente facili da programmare, mentre i problemi considerati facili, come il riconoscimento dei volti o la lettura automatica della scrittura umana, si sono rivelati molto difficili. Oggi possediamo computer che sono tra 1012 e 1013 volte più potenti di quelli disponibili nel 1955, e malgrado ciò non abbiamo ancora risolto adeguatamente questa classe di problemi. Come mai? 

Si è anche scoperto che esiste una differenza enorme e inaspettata tra un campione mondiale di scacchi come Kasparov e un bravo giocatore non professionale. C’è voluto il computer IBM “Deep Blue” per sconfiggere Kasparov nel 1997, mentre bastava un computer dieci milioni di volte meno potente nel 1960 per giocare bene a livello del dilettante (“Deep Blue” è un computer con hardware e software specializzati progettato solo per giocare a scacchi, in grado di valutare 200 milioni di posizioni al secondo). Questo ci suggerisce che, a differenza del computer, la strategia umana per diventare più esperti consiste nel figurarsi “scorciatoie” che evitano di dover fare un numero di calcoli esponenzialmente più grande, man mano che uno si cimenta con competitori sempre più agguerriti. 

Una piccola riflessione ci rivela subito che la nostra sopravvivenza è molto più legata alla capacità di riconoscere oggetti, come per esempio imparare a riconoscere una pantera semicoperta da cespugli nel mezzo di una foresta, che non a vincere una partita a scacchi. Perciò l’organizzazione del cervello umano è stata modellata nel corso dei millenni dalla necessità di risolvere problemi di pattern recognition di estrema complessità. E gli scienziati di IA, malgrado sforzi enormi di ricerca durati più di 50 anni, non sono ancora riusciti a capire come faccia il cervello a risolvere questo tipo di problemi con un hardware che è molto più lento dei computer (o almeno così pare che sia). Il vantaggio principale del computer rispetto al cervello è certamente la sua più alta rapidità nel fare operazioni matematiche esplicite – una forza bruta. 

Il cervello invece è molto più veloce del computer a fare operazioni “matematiche” di natura sconosciuta, operazioni che sono alla base del pattern recognition e dell’indirizzamento associativo della memoria – una forza sottile. È come se il cervello avesse scoperto delle scorciatoie nascoste rispetto alle strade che seguiamo noi quando programmiamo i computer. Ogni 30 anni pare che ci sia una rinascita di interesse nell’IA. Fu così verso la metà degli anni ottanta dopo che Paul Werbos scoprì l’algoritmo “back-propagation” che permise di fare reti neurali artificiali molto più potenti di quelle usate negli anni sessanta (che erano basate sul “Perceptron” di Frank Rosenblatt), e oggi la stessa moda è ritornata. 

I quotidiani parlano quasi giornalmente della rivoluzione che è in atto nella robotica e nell’IA, al punto che molte persone famose come Bill Gates, Elon Musk e Steve Hawking hanno messo in guardia l’umanità contro gli imminenti pericoli dell’IA. C’è addirittura un movimento filosofico-tecnologico che si chiama transumanesimo che prospetta la possibilità di scaricare, tra circa 30 anni, la propria consapevolezza in un computer e vivere per sempre all’interno di un computer.

Ma sarà proprio così, o siamo di fronte ad un’altra montatura che tra qualche anno sarà dimenticata? È davvero un pericolo mortale quello che ci sta davanti, o un’altra esagerazione dei media? 

È vero che siamo semplicemente una collezione di algoritmi che una volta figurati potranno essere migliorati e trasferiti ad un organismo in silicio che ci supererà? Siamo davvero macchine? Ecco la domanda chiave: c’è o non c’è una differenza incolmabile tra un uomo e un computer? Secondo la maggioranza degli scienziati e ingegneri, no; secondo me, si. E per me la differenza sta nella consapevolezza: la differenza vitale che ci distingue dalle macchine, argomento di questo articolo.


 CHE COS’È LA CONSAPEVOLEZZA? 

Ciascuno di noi sa dentro di sé di esistere, di essere un sé, un’entità senziente. Ma da dove viene questo “senso di sé?” Esso fa parte di una classe di fenomeni che chiamiamo sentimenti. Siamo sicuri di esistere perché sentiamo di esistere. Il fatto che sentiamo di esistere ci dà la certezza che esistiamo. In altre parole, la certezza che sappiamo di sapere (e anche la certezza che sappiamo di non sapere) è indissolubilmente legata al sentimento stesso: è inerente al sentimento. La consapevolezza è quindi quella speciale capacità di un sé di conoscere attraverso i sentimenti. È ciò che rende senziente il sé. 

Nel resto dell’articolo, userò la parola sentimenti in un senso più generale dell’uso corrente per identificare non solo il senso di sé, ma anche le sensazioni che provengono dai sensi fisici, come vista e udito, le emozioni, i pensieri e i sentimenti più elevati a livello spirituale. La consapevolezza quindi è la capacità di un sé di percepire e conoscere sia il mondo esterno come il mondo interno attraverso una esperienza senziente. 

La consapevolezza è una proprietà inseparabile dal sé che la possiede, e senza questa proprietà il sé non potrebbe esistere. 

La consapevolezza è ciò che ci permette di sentire il profumo di una rosa, cioè di tradurre il profumo, che sono delle molecule particolari che a contatto con i sensori dell’odore nell’epitelio nasale producono certi segnali elettrici, in un sentire. I filosofi chiamano quale (plurale qualia) questo sentire; e questo è stato chiamato il problema difficile della consapevolezza, che nessuno è mai riuscito a risolvere [1].
In altre parole, i segnali elettrici prodotti dai sensori olfattivi producono un’informazione oggettiva che può essere usata anche da un robot per riconoscere gli odori. 

Ma noi facciamo ben di più: noi “traduciamo” questi segnali elettrici in seno alla nostra consapevolezza individuale in un sentimento soggettivo, un quale: l’esperienza senziente dell’odore della rosa. Il quale “odore di rosa” è molto di più del segnale elettrico prodotto dai sensori; è una categoria incommensurabile con quella dei segnali elettrici. È la stessa differenza che esiste tra il segnale elettrico prodotto in un microfono dal suono di una parola e il sentimento che la parola suscita in noi. Il suono della parola è un simbolo che è tradotto dalla consapevolezza in un sentimento, in un quale. 

La parola è il messaggero, il sentimento è il messaggio. I segnali elettrici del computer, come quelli del cervello, non producono sensazioni o sentimenti, anche se possono produrre un’immediata risposta di tipo azione-reazione (risposta condizionata). Questo tipo di risposta condizionata esiste anche in noi, quando per esempio il medico dà un colpo mirato al ginocchio e la gamba balza avanti da sola. Ma il nostro comportamento più importante è di tipo azione-coscienza-risposta, dove la risposta è mediata dalla consapevolezza. Nel momento in cui prendiamo coscienza dell’azione, possiamo decidere che risposta dare in base ad una riflessione che necessariamente coinvolge la consapevolezza a livelli più o meno elevati. Questa è la distinzione che fa la differenza – una differenza incolmabile – tra una macchina ed un essere umano.

I padri della meccanica quantistica come Planck, Schrödinger e Pauli, avevano correttamente percepito che la consapevolezza è fondamentalmente diversa dalla materia-energia che conosciamo. 

Però oggi, la maggioranza degli scienziati, e in particolare i neuroscienziati, considerano la consapevolezza una proprietà emergente, un epifenomeno del funzionamento del cervello, cioè un qualcosa che non esiste per sé; un’illusione. E molti di loro si chiedono addirittura a che cosa serva la consapevolezza, come gli psicologi comportamentisti del secolo scorso. 

La consapevolezza invece è un canale conoscitivo straordinario che le macchine non hanno; una differenza che è fondamentale e monumentale; la differenza tra vita e morte; un miracolo che avviene ogni secondo della nostra vita, che però non riconosciamo come tale poiché è sempre stato parte di noi. La consapevolezza è esattamente ciò che dà significato alla vita.

Che senso avrebbe la vita se non sentissimo niente? Se non sentissimo affetto, gioia, entusiasmo, il senso della bellezza e perché no, anche il dolore? Se fossimo soltanto degli zombie? La consapevolezza è un miracolo che oggi dobbiamo riconoscere in pieno se vogliamo fare un vero passo avanti nella nostra evoluzione; è la differenza sostanziale e irriducibile tra un computer e un uomo. Non parlo di gradi di differenza, ma di una differenza qualitativa e quindi incolmabile perché va al di là del numero di istruzioni al secondo che può fare un computer. 

È una differenza tra ciò che è infinito e ciò che è finito; una differenza che non abbiamo ancora riconosciuto come tale perché la maggior parte degli scienziati, secondo me, sottovaluta la natura della consapevolezza. Per loro la consapevolezza non è ontologica. E questo assunto ha ripercussioni molto gravi perché se pensiamo di essere macchine, ci comporteremo come tali. Questo è il momento storico di prendere coscienza del miracolo della coscienza (consentitemi questo gioco di parole), e mi auguro di riuscire a spiegare con argomenti convincenti il mio punto di vista nel resto di questo articolo.


CHE COS’È LA VITA? 

Molti anni fa ho visto un breve documentario sui parameci e sono rimasto sbalordito. Il paramecio è un protozoo, cioè una singola cellula vivente che assomiglia ad un sigaro in miniatura; un oggetto lungo circa un decimo di millimetro e coperto da migliaia di peluzzi (villi). Questo animaletto nuota con grande rapidità vibrando i villi con moto squisitamente coordinato, evita gli ostacoli e i predatori, cerca cibo, riconosce un altro paramecio con cui poter accoppiarsi, e così via. In altre parole, almeno superficialmente, si comporta come un pesciolino. 
Alla fine del documentario ho esclamato “Ma come fa questa cellula senza un sistema nervoso a comportarsi così?!” Non abbiamo computer potenti abbastanza per replicare il comportamento di questo animaletto. 

Com’è possibile che un insieme di atomi e molecole in soluzione a circa 25°C si comporti con la precisione e la coordinazione necessaria per spiegare ciò che ho osservato? Sono convinto che non basti la biologia molecolare con i suoi modelli meccanicistici quasi-classici per spiegare ciò che ho visto. Ci vuol altro! Ci devono essere altri fenomeni fondamentali di cui oggi non conosciamo quasi nulla per spiegare il funzionamento di questo straordinario essere vivente. Mi sono chiesto: “per analogia, se una cellula come il paramecio può elaborare informazione ad un livello così elevato, siamo giustificati a pensare che la funzione del corpo cellulare di un neurone sia quella semplicemente di sommare i potenziali dovuti all’attività delle sinapsi sparse nei suoi dendriti? Molta altra elaborazione di informazione potrebbe avvenire all’interno del corpo cellulare, che per il momento non è presa in considerazione.” Se fosse così, la nostra stima della capacità di elaborazione di un neurone potrebbe essere in difetto di molti ordini di grandezza rispetto a ciò che oggi stimiamo. All’interno di una cellula, gli atomi e le molecole interagiscono individualmente con altri atomi e molecole a livello quantico, non come fenomeni statistici, ma come strutture quantistiche complesse.

Nel qual caso, la probabilità che un elettrone o un protone, per esempio, si manifestino in una certa posizione è determinata dalla configurazione degli atomi e delle molecole che gli stanno attorno. Il comportamento del sistema allora può cambiare in maniera significativa nel tempo e nei vari punti al suo interno, a seconda delle condizioni cangianti all’intorno di ogni punto. In queste circostanze non è giustificabile considerare gli atomi o le molecole come particelle soltanto. L’aspetto ondulatorio della materia deve essere incluso [2]. 

Purtroppo, la difficoltà di questa classe di problemi è enorme, e così dobbiamo accontentarci di usare descrizioni quasi classiche che però sono approssimate e valgono soltanto in certe condizioni. Poi però ci dimentichiamo di aver ridotto il problema e pensiamo di sapere come funziona il tutto perché riusciamo a spiegare una certa classe di fenomeni. In realtà studiamo una cellula come se fosse una macchina fatta di parti che si possono scomporre e ricomporre, esattamente come sono fatte le nostre macchine riduttive. Ma invece non è così! Tutte le macchine che noi costruiamo, inclusi i computer, sono fatte di parti che si possono considerare separate per quanto riguarda la funzione svolta dalla macchina. 

Per esempio, possiamo smontare un motore nelle sue parti e rimontarlo, e il motore funzionerà di nuovo come prima. Però non possiamo smontare una cellula nei suoi componenti atomici e rimontarla, poiché la cellula è un sistema dinamico. Sarebbe come smontare e rimontare un motore mentre gira: un motore può essere propriamente chiamato motore solo quando gira, mentre quando è fermo si dovrebbe chiamare con un altro nome, perché un motore fermo è tutt’altra cosa. La vitalità della cellula, l’essenza di ciò che è una cellula, proviene dal suo dinamismo. Una cellula morta è soltanto una collezione di atomi. Lo stesso avviene per la coscienza. La coscienza esiste soltanto nel dinamismo che è anche una proprietà fondamentale della vita e, come vedremo più avanti, dell’energia di cui tutto è fatto. 

La vita non può esistere senza dinamismo poiché è indissolubilmente legata al dinamismo che osserviamo nelle cellule viventi; e le cellule sono gli atomi indivisibili con cui tutti gli esseri viventi più complessi sono “costruiti”. Quando un biologo vuole creare una nuova forma vivente deve partire già da una cellula vivente; non può mettere insieme gli atomi e le molecole che costituiscono una cellula e ottenere una cellula vivente. Per creare un computer invece, basta connettere tutti i transistor che lo costituiscono secondo uno schema fisso, e voilà, abbiamo un computer. Ma non è così per una cellula!
In una cellula non ci sono connessioni fisse tra i suoi componenti. Uno ione di idrogeno (un protone) che si muove all’interno di una cellula interagisce con un grandissimo numero di altri componenti e l’elaborazione dell’informazione che ne consegue avviene attraverso il dinamismo che esiste all’interno della cellula. Questa è una differenza fondamentale rispetto al computer: una differenza a cui non abbiamo ancora dato sufficiente peso, visto che consideriamo una cellula un sistema biochimico invece di un sistema informatico-cognitivo, come io credo sia più corretto considerarla.

CONFRONTO TRA COMPUTER E CELLULA VIVENTE 

Il computer è un sistema essenzialmente statico, anche se i segnali al suo interno sono dinamici. Statico perché i segnali corrono su strade prestabilite e invarianti. In una cellula invece, i segnali e una grande percentuale delle “strade” sono fondamentalmente dinamici; e i segnali dipendono dalle strade e viceversa. 

Il computer è un sistema prettamente riduzionistico; una cellula è invece un sistema prettamente olistico. 

Questo sistema olistico, noi lo studiamo come se fosse un sistema riduzionistico. In questo modo imponiamo il riduzionismo ad un sistema che non può essere veramente capito se non come sistema olistico. E siccome non possiamo trovare le proprietà olistiche con il riduzionismo -l’unico metodo che abbiamo a disposizione diciamo che non abbiamo scoperto nulla di olistico nella cellula, come la coscienza per esempio, “confermando” così che la coscienza non esiste, quando invece l’abbiamo gettata via come il proverbiale bambino con l’acqua sporca. 

Ovviamente, la ragione fondamentale per cui studiamo una cellula in maniera riduttiva è perché non sappiamo come studiare i sistemi olistici, ma si tratta di una giustificazione parziale perché abbiamo esplorato poco questa direzione in quanto la maggioranza dei biologi molecolari sono convinti che l’olismo non esista alla scala delle cellule. Sotto sotto credono ancora nel mito della fisica classica dove un sistema complesso è esattamente la somma delle sue parti. Ma un sistema olistico non ha “parti” separate dal resto. Ed è proprio per questo che un sistema olistico è più della somma delle sue “parti”. 

Faccio notare che metto le parti tra virgolette poiché siamo noi a decidere quali sono le parti, all’interno della cellula, che costituiscono il tutto. Che diritto abbiamo di decidere che un elettrone è soltanto una particella, per esempio, quando sappiamo già che è anche un’onda; un’onda la cui forma dipende dal resto del sistema in cui si trova? Un elettrone non ha parti. Quando diciamo che un elettrone è stato rilevato in una particolare posizione del rivelatore, descriviamo un’interazione molto complessa tra qualcosa che si comporta come un’onda (che chiamiamo elettrone), e un altro sistema complesso di onde che chiamiamo rivelatore. 

In realtà non sappiamo cosa sia un elettrone, e quando diciamo che l’elettrone si comporta talvolta come onda e talvolta come particella, due concetti antitetici, ci confondiamo le idee. Diamo l’impressione di sapere di cosa parliamo quando invece non è così. Sarebbe meglio dire che l’elettrone non è né un’onda né una particella, ma un qualcos’altro che ancora non sappiamo descrivere.
Un elettrone non è localizzato nello spazio-tempo così come ci appaiono gli oggetti percepiti alla nostra scala spaziotemporale. E anche quando diciamo che abbiamo rilevato un elettrone in una certa posizione, non vuol dire che l’elettrone è una particella. Possiamo solo dire che, nell’interazione con il rivelatore, l’entità che chiamiamo elettrone ha attivato il rivelatore in un particolare piccolo volume spaziale. La particella isolata è un’astrazione, una designazione originariamente inventata dai fisici classici per spiegare il comportamento di sistemi meccanici complessi. Poi la stessa designazione è stata usata anche per descrivere l’elettrone, quando invece l’elettrone non è una particella classica. 

Faccio notare che nel 1999 è stato sperimentalmente dimostrato da Anton Zeilinger, all’Università di Vienna, che anche una molecola di fullerene (C60) interferisce con se stessa – cioè si comporta come un’onda. Quindi queste proprietà ondulatorie, non-locali dell’elettrone e delle altre particelle elementari, si estendono anche agli atomi e alle molecole [2]. 

Pertanto, è ragionevole pensare che tali proprietà vengano usate per elaborare informazione all’interno di una cellula, anche se non sappiamo ancora come ciò avvenga. Però questa possibilità non sarà presa in considerazione se trattiamo le particelle elementari, gli atomi e le molecole soltanto come parti discrete e separabili. Se la consapevolezza è un fenomeno olistico, come penso sia, non può esistere quando la cerchiamo come se fosse separabile dal tutto. Quando imponiamo il riduzionismo alla realtà, dimenticandoci che la meccanica quantistica ci ha già rivelato che l’universo è un sistema irriducibilmente olistico, non possiamo concludere che la consapevolezza è un epifenomeno semplicemente perché non siamo mai riusciti ad isolarla. 

Ecco quindi la differenza fondamentale tra un sistema vivente e un computer. Una cellula è viva ed è un sistema aperto nel senso che scambia continuamente energia e materia con l’ambiente che la circonda, e quindi non è separabile dal tutto. 

La vita di una cellula è indissolubilmente legata all’esistenza di un ambiente con cui essa è in simbiosi. La mutualità che esiste tra una cellula e il suo ambiente è ineliminabile. Addirittura, gli atomi e le molecole di una cellula entrano ed escono da essa in continuazione, al punto che due giorni dopo tutti gli atomi al suo interno non sono più gli stessi di prima. Quindi, anche la struttura fisica della cellula è dinamica in quanto è ricreata momento per momento, mentre invece a noi sembra che sia sempre la stessa. 
Un computer invece ritiene per tutta la sua esistenza gli stessi atomi e molecole che aveva al tempo della sua costruzione – un altro aspetto della “staticità” del computer. Ma come fa una cellula a restare la stessa quando la materia fluisce dentro e fuori di essa in continuazione? In realtà non lo sappiamo, ma è per questo che dico che la cellula è viva, mentre il computer è un sistema essenzialmente morto, chiuso, la cui apparente vitalità dipende dall’energia elettrica che gli forniamo e dal software che ha in memoria. 

E ricordiamoci anche che il software, che dà l’apparenza di vita al computer, è stato pensato e realizzato da un essere vivente e non dal computer. Gli scienziati cercano di capire come funzioni la vita studiandola come meccanismo perché si aspettano che la vita funzioni come funziona un computer. 

Ma chi ha mai detto che la vita è un meccanismo alla stressa stregua di un computer? 

Sono loro ad imporre alla vita una modalità che non le compete necessariamente. E lo fanno malgrado l’evidenza della meccanica quantistica che ci dice che gli atomi e le molecole all’interno di una cellula non si comportano soltanto come particelle isolate. Per non parlare dell’evidenza al nostro interno dell’esistenza di un sé consapevole che ciascuno di noi ha. 

La vita non è riducibile alla fisica classica, mentre un computer si [2]. Allo stesso modo, quando diciamo che il cervello è come un computer, imponiamo al cervello un modello sbagliato, benché sappiamo già che l’elaborazione dell’informazione nei sistemi viventi usa modalità fondamentalmente diverse dal computer. 

E gli stessi pregiudizi ci portano anche a pensare che esista solo la realtà esterna perché è la sola che possiamo misurare con strumenti, mentre affermiamo che ciò che avviene in seno alla consapevolezza è un epifenomeno. Ma chi ha mai provato che solo la realtà esterna esiste? È già ampiamente dimostrato che vediamo il mondo non com’è, ma più o meno distorto dal filtro delle nostre aspettative di come il mondo dovrebbe essere. Chi dichiara la consapevolezza un epifenomeno lo fa forse perché così può continuare a credere che il mondo rispetti la fisica classica? Ma cent’anni fa, il mondo visto con gli occhi della fisica classica era un mondo deterministico, completamente diverso dal mondo probabilistico della fisica quantistica. Siamo sicuri che ora sappiamo tutto della realtà come credevano di sapere i fisici di cent’anni fa? O stiamo ripetendo gli stessi errori che hanno commesso i nostri bisnonni?

Ritengo che nessuno oggi in buona fede possa dire che un computer è consapevole. Però molti scienziati pensano che tra 40 anni, quando i computer saranno molto probabilmente 1010 volte più potenti di oggi, la consapevolezza come d’incanto emergerà dalla maggiore complessità dei computer di domani. Ma se i computer di oggi, che sono 1013 volte più potenti dei computer del 1955 hanno consapevolezza zero, siamo giustificati a pensare che saranno consapevoli fra 40 anni?

LA CONSAPEVOLEZZA NON È RIDUTTIVA

Sappiamo dalla meccanica quantistica che l’universo è un tutt’uno indivisibile e che ciò che ci appare come una parte isolata è semplicemente un costrutto umano, una approssimazione dovuta alla limitatezza dei nostri sensi e/o del nostro intelletto. Alla scala quantica non ci sono parti separate; ogni “parte” è intimamente connessa con il tutto, e pertanto il “bordo” o confine che attribuiamo ad una parte e che pensiamo separi la parte dal tutto, è solo nel nostro pensiero, oppure nei modelli che usiamo per descrivere la realtà, ma non nella realtà stessa.
Di conseguenza, la conoscenza che guadagnamo studiando le parti in presunto isolamento dal resto dell’universo non può essere sufficiente a comprendere l’operazione del tutto, ma solo quegli aspetti che possono essere spiegati con il metodo usato. Il riduzionismo che presume di conoscere come funziona il tutto semplicemente sommando il funzionamento delle parti è un’approssimazione che funziona per certe strutture, ma non è valida in generale per il semplice fatto che non ci sono parti!

Ma allora, come fa a funzionare un computer che ha migliaia di miliardi di parti? 

Semplicemente perché siamo riusciti ad isolare alcune proprietà di piccole isole di materia, una vicina all’altra, con sufficiente precisione e ridondanza da poter fare una sola operazione semplicissima con grandissimo affidamento: quella di un interruttore. Mi riferisco ad un interruttore elettronico (non meccanico) piccolissimo e velocissimo, ma concettualmente identico all’interruttore che usiamo per accendere e spegnere una lampadina di casa nostra, ma che invece di essere azionato da una mano è attivato da una piccola tensione elettrica applicata al suo elettrodo di controllo.
La complicazione tecnologica è dovuta al fatto che vogliamo mettere miliardi di questi interruttori uno accanto all’altro senza che si influenzino a vicenda, e vogliamo farlo con una affidabilità altissima. Devono funzionare per cent’anni senza fare un solo errore, purché certe condizioni ambientali necessarie (tensione di alimentazione, temperatura, umidità, vibrazioni, ecc.) vengano mantenute entro limiti prestabiliti. Ecco quindi perché possiamo, in linea di principio, smontare un computer nei suoi atomi elementari – i transistor – e se li rimontiamo esattamente com’erano prima, il computer funzionerà come prima. 

Il computer è l’apoteosi di un sistema riduttivo creato apposta in modo che non ci sia niente di estraneo al suo funzionamento, al di là dei suoi interruttori isolati e collegati insieme in uno schema fisso. E come tale, il computer non può possedere una proprietà olistica come la consapevolezza perché, qualsiasi cosa faccia, non potrà mai emergere da esso qualcosa che non sia contenuto nella somma delle sue parti isolate; per costruzione.

La consapevolezza invece, visto che esiste, e viste le sue proprietà olistiche, si appoggia all’organizzazione non lineare di proprietà olistiche della materia, partendo dalle proprietà olistiche delle particelle elementari che sappiamo esistere. Infatti, la consapevolezza non potrebbe essere assolutamente spiegata nel contesto della fisica classica dove le particelle sono completamente separabili e localizzate in punti separati, esattamente come succede con i transistor con cui costruiamo i computer. Un sistema complesso fatto dalla giustapposizione di molti sistemi riduttivi è anch’esso riduttivo, anche se mettiamo insieme miliardi di sottosistemi riduttivi, come facciamo con i computer. Il riduzionismo non può generare olismo: per creare olismo si deve partire dall’olismo. Un sistema olistico complesso può emergere soltanto partendo da componenti più elementari anch’essi olistici, combinati olisticamente e non con una semplice giustapposizione. Per analogia, l’olismo sta al riduzionismo come i numeri reali stanno ai numeri naturali. Benché possiamo creare un numero naturale grande a piacere, l’insieme dei numeri naturali non potrà mai contenere l’insieme dei numeri reali, mentre è vero il contrario: l’insieme dei numeri naturali è un piccolissimo sottoinsieme dell’insieme dei numeri reali.

In altre parole, il grado di infinito dei numeri reali è incommensurabilmente più grande del grado di infinito dei numeri naturali. In questa analogia, il computer “appartiene” alla classe dei numeri naturali, i numeri discreti, mentre una cellula vivente “appartiene” alla classe dei numeri reali – i numeri continui. In questa visione, quando mettiamo insieme miliardi di transistor che interagiscono tra di loro come sistemi isolati, la coscienza dell’insieme non può superare il grado di coscienza del singolo transistor. Per avere un grado di coscienza più alto della coscienza delle parti, bisogna che le “parti” siano loro stesse olistiche e che si combinino olisticamente, non con una semplice giustapposizione. Per esempio, una cellula eucariotica è un sistema olistico che ha un grado di coscienza in più rispetto alla coscienza del suo più alto componente olistico che è il mitocondrio (una cellula procariotica).

Questo grado di coscienza in più è incommensurabile con il grado di coscienza di un gruppo di mitocondri interagenti tra di loro come parti separate (interazione classica) – indipendentemente dal numero dei mitocondri che interagiscono. L’operazione olistica che ha generato la cellula eucariotica, invece, coinvolge una interazione quantica all’interno della cellula eucariotica di un numero sufficientemente alto delle sue cosiddette “parti”. In altre parole, un’interazione quantica è un’interazione che fa uso essenziale delle proprietà ondulatorie della materia e che dà origine ad una nuova classe di fenomeni che non sono possibili con una interazione classica di parti isolate. 


C’È INFORMAZIONE E INFORMAZIONE 

Come ho accennato prima, il sistema nervoso umano non è un computer. È invece un sistema dinamico di una complessità incredibile, funzionante con una estensione delle leggi che regolano il funzionamento di una cellula vivente. La sua complessità è superiore a quella di una cellula per un fattore di almeno 1011, che è il numero di neuroni che cooperano nel cervello. Ad essi si devono poi aggiungere tutti i neuroni, i sensori e gli attuatori che fanno parte del sistema nervoso periferico, anch’esso di grande complessità.

Però il sistema nervoso non è isolato come lo è un computer, ma fa parte integrale del sistema circolatorio, del sistema digerente, ecc. 

E il tutto non è isolato dall’ambiente in cui il sistema nervoso percepisce e agisce. Un uomo è quindi un sistema coerente di cellule, organizzate in almeno quattro livelli gerarchici in più rispetto all’organizzazione di una cellula (anch’essa gerarchica). Sempre nello spirito del confronto tra computer e sistema vivente, faccio notare che anche il concetto di informazione che usiamo, risalente a Claude Shannon (1948), descrive soltanto un particolare tipo di informazione: quella che un osservatore esterno misura senza sapere cosa significhino i bit che egli osserva.
L’informazione di Shannon ha poco in comune con il tipo di informazione che è fondamentale per un essere vivente. Per una cellula, come per un uomo, un solo bit di informazione può essere infinitamente più importante di un altro bit poiché può significare la differenza tra vita e morte.

L’informazione per una cellula ha soprattutto valore semantico, per un computer ha soltanto un valore sintattico. Per l’uomo, il bit che può decidere lo scatenarsi di una guerra atomica non ha la stessa valenza dell’ultimo bit significativo di un numero, un bit che non vale pressoché niente. Ciò che dà valenza semantica all’informazione sintattica, formale, oggettiva di Shannon, è la consapevolezza.

Quando l’informazione di Shannon è “informata” dalla consapevolezza diventa informazione viva perché è illuminata dalla comprensione. La comprensione è un’altra proprietà irriducibile della consapevolezza che esiste ad un livello ancora più profondo della percezione senziente che ho descritto prima. La comprensione si fonda sulla percezione senziente che fornisce i “dati” di partenza, a cui poi si aggiunge un’ulteriore valenza semantica.

La comprensione è quindi la capacità di percepire collegamenti semantici tra gli “oggetti” della percezione; è una specie di percezione dentro una percezione. Spesso la comprensione si annuncia con un “Ahh! Adesso ho capito!” La sorpresa di quando finalmente capiamo qualcosa che ci sfuggiva prima. I dati non sono cambiati, ma ai dati si è aggiunto un senso nuovo che non esisteva prima; un nuovo pattern che è emerso dai dati. Ciò è fondamentale, visto che le nostre decisioni importanti sono basate sulla comprensione più o meno accurata delle situazioni in cui ci troviamo.

Quindi, più alta è la comprensione, migliore sarà la nostra decisione. Il cervello ha a che fare con molti tipi di informazione, però l’informazione più importante è l’informazione semantica.

A differenza del computer dove qualsiasi informazione è rappresentata da bit digitali, nel cervello l’informazione è rappresentata in vari modi: nei neuroni è rappresentata dalla presenza di un impulso elettrico, chiamato potenziale d’azione, che si propaga lungo l’assone; nelle sinapsi, l’informazione è rappresentata dall’ammontare di neurotrasmettitore emesso in un particolare istante di tempo in seguito ad un potenziale d’azione; e nel DNA l’informazione usa un sistema quaternario.

La memoria a lungo termine invece sembra dovuta ad un potenziamento o de-potenziamento, più o meno duraturo, delle sinapsi. La rappresentazione dell’informazione deve essere molto robusta e ridondante e si appoggia, per così dire, su strutture molto più complesse di quelle che usiamo con i computer. Per esempio, c’è evidenza che una memoria potrebbe essere rappresentata da un particolare ciclo limite di un sistema dinamico non lineare, oppure da una struttura gerarchica quasi-olografica dove il messaggio essenziale è presente in qualsiasi ragionevole porzione della struttura informatica, e i messaggi meno importanti sono distribuiti con un grado di decrescente ridondanza nei vari livelli gerarchici.

Questo è particolarmente saliente nelle memorie d’infanzia a forte valenza emotiva che spesso condizionano molti altri aspetti della nostra futura esistenza. Pertanto le memorie sono anch’esse vive nel senso che possono cambiare un po’ alla volta, man mano che le ricordiamo, poiché ogni riattivazione avviene nel contesto cangiante formato dall’esperienza accumulata nel corso della vita. 


UNA POSSIBILE SPIEGAZIONE DELLA CONSAPEVOLEZZA 

Verso la fine degli anni novanta (a quel tempo ero presidente della Synaptics, ditta che ho fondato nel 1986, e che per molti anni si era occupata di reti neurali artificiali) dopo aver cercato per una diecina d’anni di capire se fosse possibile fare un computer consapevole, arrivai alla conclusione che la coscienza potrebbe essere una proprietà irriducibile della realtà. Solo così riuscivo a comprendere l’esistenza di gradi di consapevolezza, partendo da una coscienza di base che doveva essere irriducibile, esattamente come le strutture fisiche di complessità crescente sono costruite dall’aggregazione di strutture più semplici, partendo dalle irriducibili (ma non locali) particelle elementari. 

Se l’energia primordiale da cui è emerso il Big Bang, quell’energia che secondo i fisici ha creato lo spazio, il tempo e la materia del nostro universo fisico, contenesse anche i semi della consapevolezza, ecco che allora non sarebbe più necessario far emergere la consapevolezza dalla materia – un’ontologia incompatibile con la materia – ma la consapevolezza emergerebbe naturalmente dalla coscienza primordiale esistente in seno all’energia di cui tutto è fatto (che chiamerò Energia d’ora in poi).
Il modello sarebbe lo stesso usato dalla cellula vivente che emerge per stadi successivi di organizzazione delle particelle elementari, che sono olistiche in partenza (e quindi devono essere coscienti anche se in misura incommensurabilmente inferiore alla coscienza umana). In questo modo l’Energia si auto-organizzerebbe in sé elementari (entità analoghe alle particelle elementari) che si aggregherebbero poi in sé sempre più complessi (come gli atomi, le molecole, ecc.) con coscienze via via sempre più cognitive.

L’Energia quindi sarebbe la “sostanza” indivisibile e primaria di cui tutto è fatto, una struttura olistica che possiamo considerare come il “corpo” di Uno, dove Uno è la totalità di ciò che esiste, incluso anche il contenuto cognitivo dell’Energia.
Ecco quindi che in questa ipotesi, la natura olistica dell’universo fisico è una proprietà costitutiva, a priori, di tutto ciò che esiste. In questo modello, ogni atto cognitivo di Uno genera un sé elementare, chiamato unità di consapevolezza (UC), simile alle Monadi di Leibnitz [3]. Le UC si comportano come “atomi cognitivi” che interagiscono tra di loro e si combinano per dar vita a sé più evoluti. Lo spazio, il tempo e la materia emergono quindi in seno all’Uno cosciente come strutture di comunicazione tra sé di grado crescente, man mano che la conoscenza di Uno aumenta. In questo modello, tutta la realtà emerge da principi cognitivi, invece che dai principi materialistici su cui si fonda la nostra scienza contemporanea.

Il principio cognitivo fondamentale potrebbe essere il seguente: ogni realtà fisica emerge come conseguenza naturale del “desiderio” di Uno di conoscere se stesso. In altre parole, la materia serve come specchio per riflettere a Uno la sua auto-conoscenza; le strutture fisiche sarebbero quindi i simboli che rappresentano la “struttura” inerente alla conoscenza di sé. Un po’ come le frasi scritte su un pezzo di carta servono a riflettere a noi stessi i nostri pensieri: esse sono simboli dei “sentimenti” esistenti in seno alla nostra coscienza [2].

Partendo da questa ipotesi, ne consegue che il mondo oggettivo e il mondo soggettivo sono due facce della stessa realtà unitaria e indivisibile. La realtà ha inerentemente un aspetto interno e un aspetto esterno, e i due aspetti co-emergono e co-evolvono. Esiste quindi un aspetto cognitivo-semantico – l’aspetto interno – e un aspetto informatico-sintattico – l’aspetto esterno. E quindi l’evoluzione fisica dell’universo materiale rispecchia l’evoluzione cognitiva della coscienza, e viceversa. Il mondo fisico allora rappresenta le strutture fisiche che i sé usano per avere feedback sul loro grado di auto-comprensione.
Sono simboli informatici limitati che la consapevolezza usa per conoscere meglio se stessa. 

L’Uno è una unità indivisibile (olistica) che evolve senza mai perdere la sua unità, co-evolvendo simultaneamente l’aspetto interiore e quello esteriore. L’universo che osserviamo sarebbe quindi il risultato di questa co-evoluzione: emerge all’interno di questa energia cosciente, ed è essenzialmente “fatto” di essa. Ma l’Energia dev’essere vista come il supporto “materiale” della conoscenza che è informazione semantica. Pertanto, materia e consapevolezza sono strettamente accoppiate, però l’aspetto materiale è subordinato all’aspetto cognitivo: la materia è “creata” dalla coscienza, e non viceversa – questa è un’ipotesi monistica e non dualistica. Ecco quindi l’inizio di un modello della realtà che può essere usato per guidare lo sviluppo di una teoria matematica della realtà che parte da principi cognitivi invece che da principi materialistici. La “Federico and Elvia Faggin Foundation” [5], creata nel 2011, ha come obiettivo proprio questo: di promuovere e sostenere lo sviluppo di una teoria matematica che spieghi la fisica come l’aspetto informatico di una teoria della realtà più vasta che parte da principi cognitivi, e include quindi sia il mondo interiore sia il mondo esteriore.

SARÀ POSSIBILE FARE UNA MACCHINA CONSAPEVOLE?

A questo punto penso che il lettore abbia già capito quale sarà la mia risposta al quesito originale. Se il modello che ho descritto è corretto, il computer tradizionale non potrà mai raggiungere un grado di consapevolezza superiore al grado di coscienza delle sue parti olistiche più alte. In questo caso, la parte olistica di grado più elevato è il transistor che funziona usando proprietà quantiche (olistiche) della materia. Pertanto, il grado di olismo di un computer non potrà superare quello di un transistor, non importa quanti transistor siano combinati insieme riduttivamente. Un grado superiore di olismo potrebbe essere raggiunto soltanto se riuscissimo a combinare olisticamente due o più “transistor” (tra virgolette poiché si tratterebbe di un transitor diverso da quello che conosciamo) in una struttura fisica più integrata a livello quantico, e non riduttivamente nel senso classico.
A questo punto non ho ancora un’idea precisa di cosa potrebbe essere tale struttura fisica: forse qualcosa come una sinapsi?

In ogni caso, anche se potessimo realizzare e poi combinare riduttivamente moltissime di queste nuove parti olistiche, il sistema risultante avrebbe un solo grado di coscienza in più rispetto alla coscienza di un computer, sempre inferiore alla coscienza di una cellula vivente per molti gradi.

Ciascuno di noi è una struttura olistica di circa 1014 cellule (la maggior parte batteri) con almeno quattro gradi di olismo in più rispetto al grado di olismo delle cellule eucariotiche (cellula, tessuto, organo, sistema e organismo).

La coscienza al livello del transistor può al massimo essere cosciente del suo stato “on” oppure “off,” ma certamente non può avere alcuna coscienza dello stato complessivo del computer che coinvolge miliardi di altri transistori. Esattamente come un neurone del mio cervello può essere cosciente del suo particolare stato, ma non può essere cosciente del pensiero che mi passa per la testa, anche se il suo stato ha contribuito a una piccola “parte” del mio pensiero. In pratica, cosa vuol dire tutto questo?
Vuol dire che il computer come esiste oggi ha una coscienza minima che non potrà mai aumentare al di là della coscienza del transistor (assumendo che il transistor sia una struttura olistica). In futuro, quando avremo computer quantici, sarà possibile andar oltre il grado di coscienza del computer classico. Con “computer” basati sulla biologia (cioè usando cellule viventi, non componenti biochimici riduttivi), penso che sarà poi possibile andare molto più in là di un computer quantico come lo concepiamo oggi. 

Ma quest’ultima possibilità sarà in un futuro molto lontano, e il funzionamento di un “computer” biologico dovrà per necessità rispettare i principi di funzionamento delle cellule. Pertanto bisognerà abbandonare il determinismo inerente nei computer d’oggi. Il computer classico è governato dalla logica interna dei suoi algoritmi riduttivi di cui la macchina non può essere cosciente. Senza consapevolezza, l’evoluzione del computer sarà completamente vincolata all’uomo, il quale continuerà a migliorare sia hardware che software creando imitazioni sempre più credibili di una macchina intelligente. Pertanto, sono convinto che usando computer classici non sarà possibile creare una macchina veramente autonoma, cioè un robot capace di evolvere da solo, autoprogrammandosi al punto da migliorare in maniera sostanziale il suo comportamento. In altre parole, adattamento, si; apprendimento elementare, si; comprensione, no. 

La comprensione di una situazione richiede una consapevolezza al livello della complessità globale della situazione; e ciò è impossibile con il grado di coscienza del transistor. E senza comprensione, non sarà mai possibile capire come funziona il proprio software e quindi modificarlo in meglio. È la comprensione umana che permette di migliorare gradualmente il software che poi viene caricato in un computer o in un robot. Ed è la stessa comprensione che permette all’uomo di cambiare se stesso al livello del proprio comportamento globale. Comprensione che proviene dall’alto grado di consapevolezza che l’essere umano possiede. Sicuramente i computer continueranno ad evolvere in sistemi sempre più potenti, ma solo perché saranno migliorati grazie alla comprensione umana, non perché saranno in grado di farlo da soli. 

L’idea che i computer classici possano diventare più intelligenti di noi è una fantasia pericolosa. Pericolosa perché, se l’accettiamo, ci autolimiteremo ad esprimere una piccolissima frazione di quello che invece siamo. Tale idea ci toglie potere, libertà e umanità: qualità che appartengono alla nostra consapevolezza, non alla “macchina”, abbassandoci al livello di una povera imitazione di ciò che veramente siamo. Secondo me, il vero pericolo del progresso informatico non sarà quello di creare macchine che prenderanno il sopravvento sull’umanità perché saranno più “perfette” di noi. Il vero pericolo sarà che uomini di cattiva volontà potranno causare gravi danni all’umanità usando computer e robot sempre più potenti a fini malefici. Ma allora sarà l’uomo, non la macchina, il responsabile dei guai. 

Francamente, trovo l’idea che le macchine possano ribellarsi all’uomo fuori da ogni reale possibilità: un’idea dovuta alla personalizzazione del computer e alla proiezione sul computer di qualità che esso non ha. Ciò detto, il fatto che macchine sempre più potenti possano andare in mano a persone irresponsabili e malvagie è un pericolo che la società dovrà affrontare al più presto, soprattutto quando queste persone operano all’interno dei nostri governi, abusando del potere, delle risorse e della fiducia che la popolazione gli ha affidato. A mio avviso, questo problema può essere risolto soltanto se ciascuno di noi cambia la sua concezione di sé, identificandosi non solo con il proprio corpo, ma soprattutto con la propria consapevolezza con la quale può conoscere la sua vera natura.

È la nostra consapevolezza che ci permette di scoprire chi siamo attraverso la ricchezza della nostra esperienza umana. Solo con questa comprensione potremo trovare e sviluppare quei valori spirituali che tutti portiamo dentro di noi; valori fondamentali e necessari per il benessere di tutti gli esseri viventi del nostro pianeta. In ultima analisi, in un mondo interconnesso olisticamente, ciò che facciamo agli altri, lo facciamo a noi stessi. 


BIBLIOGRAFIA
1. David Chalmers (1995). “Facing Up to the Problem of Consciousness.” Journal of Consciousness Studies 2(3): 200-219
2. Federico Faggin (2015). “The Nature of Reality.” Atti e Memorie della Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti, Padova, Volume CXXVII (2014-2015)
3. Gottfried Leibniz, Monadology and Other Philosophical Essays. Macmillan Library of Liberal Arts, 1965
4. Henri Bergson (1907). “L’Evoluzione Creatrice.” Rizzoli classici moderni, 2012 5. fagginfoundation.org

Federico Faggin è nato a Vicenza e si è laureato in Fisica all’Università di Padova nel 1965 con 110 e lode. Nel 1968 si è trasferito nella Silicon Valley, California, USA dove vive tuttora. 

Faggin è stato l’artefice di un gran numero di realizzazioni tecnologiche d’avanguardia che si sono succedute da quando aveva 19 anni, lavorando inizialmente per varie ditte, e poi per ditte da lui fondate. Nel 1961, all’Olivetti, Faggin progettò in parte e costruì un computer elettronico sperimentale a transistor. Dopo la laurea, sviluppò processi di fabbricazione per circuiti integrati, tra cui ci fu il MOS Silicon Gate Technology (Fairchild, 1968), la tecnologia che permise di fare le prime memorie dinamiche, le prime memorie non-volatili, i primi microprocessori e i sensori d’immagine a CCD. Questa tecnologia fu poi adottata in tutto il mondo ed è ancora in uso oggi. 

Faggin passò poi al progetto di circuiti integrati tra cui ci furono: il primo circuito MOS con porta autoallineante al silicio (Fairchild 3708, 1968); il primo microprocessore al mondo, l’Intel 4004 (1971), i microprocessori Intel 8008 (1972), 4040 (1973), e 8080 (1974); il microprocessore Z80 (1976) e il microcontrollore Z8 (1978), prodotti dalla Zilog, azienda da lui fondata e diretta (questi due sono ancora in produzione nel 2015). Nel 1982, fondò e condusse la Cygnet Technologies che inventò un sistema pionieristico di voce-dati e di posta elettronica per il personal computer (1984).

Nel 1986, fondò e condusse la Synaptics, dove vennero progettati alcuni chips con reti neurali artificiali, il Touchpad (1994) e il Touchscreen (1998); dispositivi che hanno rivoluzionato l’interfaccia uomo-macchina nelle apparecchiature mobili. 

Federico Faggin ha ricevuto decine di riconoscimenti e onorificenze negli Stati Uniti, Europa, e Asia, tra cui spiccano il Kyoto Prize for Advanced Technology (1997, Kyoto, Giappone), il Lifetime Achievement Award dalla European Patent Organization (2006, Brussel, Belgio), 8 lauree ad honorem, e la 2009 National Medal of Technology and Innovation, consegnatagli dal Presidente Barack Obama alla Casa Bianca nel 2010. Dal 2011, Faggin si sta dedicando a tempo pieno allo studio della consapevolezza attraverso la Federico and Elvia Faggin Foundation, una fondazione no-profit da lui creata. 
Email: fedefaggin@gmail.com

Fonte: disf.org

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