Possibile che il motivo per cui queste patologie sono così comuni nelle società industrializzate sia legato al modo in cui si è evoluto il cuore umano?
di Federica DʹAuria
Un recente studio pubblicato su PNAS, condotto da ricercatori provenienti da Harvard e da altre università degli Stati Uniti, avvalora la tesi secondo la quale il nostro cuore, che presenta caratteristiche molto simili a quello di uno dei nostri parenti più prossimi, lo scimpanzé, abbia subito, nel corso della storia, un’evoluzione determinata dal diverso tipo di attività fisica che gli esseri umani preistorici conducevano rispetto a quella di questi primati ...
Gli studi sostengono che un cuore che deve sostenere carichi di attività di breve durata ha bisogno di forza e potenza ma non di particolare resistenza, e che per permettere un’attività fisica di questo genere effettua contrazioni brevi ad alta intensità. Il ventricolo sinistro deve quindi sopportare la pressione e sostenere la gittata cardiaca per far funzionare il cervello e mantenere la coscienza. Le caratteristiche fisiche di un cuore di questo tipo sono: il volume della camera ridotto, le pareti spesse e una geometria sferica.
Al contrario, il cuore degli uomini delle società pre-industrializzate, che doveva sostenere un’attività moderata e prolungata nel tempo, aveva bisogno di camere più grandi e pareti più sottili, in modo tale da permettere l’aumento del volume di sangue pompato dal ventricolo sinistro ed essendo in grado di riempirsi in modo più rapido e completo a frequenze cardiache elevate, assumendo una forma meno sferica e più allungata. Dunque, se il cuore umano era inizialmente molto simile a quello degli scimpanzé, si è poi dovuto modificare poiché i nostri lontani antenati conducevano uno stile di vita che prevedeva un diverso tipo di attività fisica.
I risultati supportano la prima tesi. La ricerca ha infatti evidenziato che il cuore degli scimpanzé, per la sua conformazione, è più adatto a reggere un’attività fisica molto intensa e di breve durata, mentre il cuore umano, nonostante siano state riscontrate differenze tra i casi specifici, in generale ha una forma tale da sostenere una gittata cardiaca maggiore e quindi reggere più facilmente il ritmo di un’attività fisica di moderata intensità e di lunga durata. Per quanto riguarda le differenze tra i vari gruppi umani, è stato notato che chi conduce una vita sedentaria, rispetto agli agricoltori di sussistenza, presenta un fenotipo più simile a quello degli scimpanzé. Questo perciò avvalora la tesi che le caratteristiche fisiche che differenziano la struttura del cuore dipendano dalla quantità di attività regolare e continua che si pratica nella quotidianità.
Insomma, le differenze tra gli esseri umani sono minime e coerenti con i diversi stili di vita, mentre è stato notato che gli uomini in generale hanno ventricoli dalla forma più allungata e meno sferica rispetto a quelli degli scimpanzé, caratteristica che fa sì che il ventricolo sinistro umano sia in grado di pompare un maggior volume di sangue e di sostenere una gittata cardiaca più importante rispetto a quello degli scimpanzé.
Per quanto riguarda la seconda tesi che gli autori intendevano dimostrare, ovvero la tendenza del nostro cuore a contrarre più facilmente malattie dovute all’ipertensione in mancanza di attività fisica regolare, i risultati suggeriscono che il cuore di chi conduce una vita sedentaria è soggetto a un cambiamento che lo rende più incline a contrarre malattie cardiovascolari. Trattandosi di un rimodellamento che avviene in soggetti poco attivi, questo dato dà ulteriore conferma del fatto che mantenere una vita che comprende attività fisica costante fin da piccoli riduce il rischio di cardiopatia ipertensiva.
La vita degli agricoltori di sussistenza di Tarahumara rappresenta invece la quotidianità tipica dei popoli preindustrializzati, che dovevano arare, coltivare e in generale svolgere compiti che richiedevano un’attività fisica più costante e consistente rispetto a quella della società industrializzata di oggi. Le caratteristiche del loro cuore, infatti, rispecchiano quelle che doveva avere il cuore umano dopo essersi evoluto in modo diverso da quello degli scimpanzé.
Questo importante studio avvalora insomma la tesi che il nostro cuore si sia evoluto in modo tale da aver bisogno di un’attività fisica moderata e regolare per funzionare correttamente, motivo per cui, il modo di vivere tipico delle società sviluppate, che spinge all’inattività, contribuisce significativamente a soffrire di cardiopatia ipertensiva.
Fonte: www.altrogiornale.org
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