di Francesco Lamendola
Curiosa coincidenza delle filosofie materialiste e di quelle idealiste: esse tendono ad identificare lo spirito con l'io; le prime, assorbendo quello in questo; le seconde, al contrario, assorbendo l'io nello spirito.
Ma lo spirito non è l'io: si identifica con esso a causa del corpo; ma si tratta di una identificazione soggettiva e arbitraria, comunque limitata nel tempo; perché, se è vero che non possiamo immaginare un io senza corpo, possiamo però immaginare benissimo uno spirito senza corpo e, dunque, senza io.
Non è che lo spirito sia il contrario dell'io; non è più grande, né più piccolo; non è più vicino, né più lontano: esso è, semplicemente, un'altra cosa. Lo spirito è diverso dall'io: è un ente a sé stante; il quale, fino a quando si trova congiunto ad un corpo, cade nell'illusione di chiamarsi «io», identificandosi con la sua parte transitoria e non essenziale.
E proprio questo è stato il fraintendimento in cui sono caduti le filosofie idealiste e, in parte, anche quelle spiritualiste: aver posto lo spirito come sinonimo dell'io, come una cosa sola con l'io. Invece lo spirito è un ente ontologicamente completo e perfetto, mentre l'io è un ente anfibio e, in ultima analisi, psicologico: è la coscienza che si pone come soggetto, ma soggetto di che cosa? Non di se stessa, perché anch'essa sta fra lo spirito e il corpo, è di natura ambigua: senza l'unione temporanea di corpo e spirito, non vi sarebbe coscienza, quindi non vi sarebbe io. Di che cosa è allora soggetto la coscienza, di che cosa è soggetto l'io?
È soggetto nei confronti del mondo esterno, nei confronti del tu ...
E tuttavia, si tratta di una distinzione reale, di una distinzione ontologica, o non piuttosto di una distinzione puramente apparente? Perché se l'io è un ente transitorio, mentre lo spirito è un ente permanente, allora si può parlare, per l'io, di un dentro e un fuori, ma non lo si può fare per lo spirito.
Lo spirito, in ultima analisi, è uno; anzi, già questa è una definizione ingannevole, perché nasce da una contrapposizione psicologica fra esso e l'io; mentre, come si è visto, lo spirito non è il contrario, dell'io, bensì, puramente e semplicemente, un'altra cosa. Pertanto, non diremo che lo spirito è uno, ma diremo piuttosto che lo spirito non è contrapposizione, dunque non è dualità. La filosofia indiana del Vedanta ha trovato la migliore definizione: esso è «ad-vaita», «non due»; perché, se dicessimo: «uno», già avremmo detto troppo.
Per cogliere una verità così semplice, ma che è sfuggita a fior fiore di filosofi occidentali d'ogni tempo, ci voleva un umile e sconosciuto prete di provincia, Giuseppe Petich (Firenze, 24 gennaio 1869 - Treviso, 22 novembre 1953), il quale, relegato nella oscura mansione di cappellano del Cimitero maggiore di Treviso, nonostante il suo brillantissimo ingegno, perché in odore di modernismo, ha riempito, nei lunghi anni del suo ritiro fra i morti, sessanta quaderni di annotazioni filosofiche personalissime e folgoranti, uno «Zibaldone» che ha il potere di sorprendere, commuovere, lasciare profondamente ammirati i suoi lettori del giorno d'oggi.
Nel primo dei due volumi di estratti da tale «Zibaldone», pubblicato solo recentemente per merito di alcuni estimatori del sacerdote-pensatore, alla data del 26 maggio 1921, si trova questa profonda riflessione (da: «Divagazioni filosofiche del Reverendo Giuseppe Petich», a cura di Giuseppe Meo, con un saggio introduttivo di Pasquale Di Nunno, Roma, Bulzoni Editore, 2002, pp. 224-226):
«Se il Cristianesimo ha un difetto, non è, come dicono alcuni, di essere troppo altruista, ma poco, perché ammette ricompensa. Premio e castigo sono concetti ottimi e necessari per la vita presente, ma non assoluti ed eterni. Sono relativi all'io.
Ma lo spirito non è né io, né universalità e comunanza, perché questi due concetti nascono già da l'io e vi si oppongono. Ora, gli opposti son sempre più vicini dei diversi. Lo spirito diventa io per la localizzazione nel corpo, ma per sé non è né io, né opposto all'io, ma diverso. Non è dunque né individuale né sociale, benché tenda a qualcosa di analogo al sociale. Lo spirito ammette trasformazione radicale che la materia non ammette.
La materia è sempre quella e, se cresce, cresce per aggiunta, aggiunge a sé ciò che preesisteva.
Lo spirito crea, innova.
Così lo spirito cresce per una assimilazione che lascia sì qualche cosa di primitivo, ma che può arrivare fino a non potersi più riconoscere nel termine "ad quem" della mutazione il termine !a quo": cangiamento, ripeto, radicale. Non si riduce dunque lo spirito a materia, pur deprezzando od eliminando l'io e la stessa società (ch'è un io più vasto). […]
Ma questa rinuncia alla ricompensa non va fatta "tout court" e per disprezzo di sé, ma ragionatamente secondo la teoria esposta della durata temporanea della personalità pur nell'immortalità dello spirito. Non deve essere però ima immortalità come quella di Gentile, perché egli identificando io e spirito, fa morire lo spirito individuale. Invece io lo cangio, non lo uccido, e fò notare che anche ora non regge l'identità perché il mio spirito non è il mio io. Il mio io è cavallo dello spirito e del corpo ed è, se mai, una parte (spiritualmente intesa) dello spirito. È un sentimento, un'idea, un centro, uno scopo.
Del resto chi (per ragioni storiche) non sapesse acconciarsi a pensare lo spirito disincarnato, come senza io, potrebbe adoperare il termine "sopraspirito". S'intenderebbe allora che dall'io (cioè da quello che io chiamo lo spirito localizzato) sboccia un quid superiore, non chiuso ma […] ineffabilmente aperto, pubblico, uno, solidale e pur antimateriale per antonomasia.
Per me l'io è soltanto un punto di riferimento e, senza dubbio, conferisce una totalità e una tinta caratteristica a tutti gli altri elementi spirituali, fusi con lui ed in lui; ma, specie per opera dei Tedeschi, molti non sono capaci di pensare il pensiero, la volontà, il sentimento e tutta la psiche senza l'io, perché ne fanno come la base dello spirito (ch'è arbitrario, vedi p. e. il bambino e rifletti quanti atti psichici facciamo senza riferirli all'io; […] L'idea stessa è (proprio come l'io) un punto, una tonalità, una tinta caratteristica di e in un processo psichico più ricco, vario, ineffabile.
[…] questo concetto così riucco, da noi barbaramente irrigidito in pochi duri schemi, non viene interrotto ma si continua dopo la morte ed è superiore alle frontiere dello individuo fin da questa vita (Comunione sociale, fusione delle anime, identità della verità, etc.).»
Dunque, abbiamo detto che vi sono molti io, ma un solo spirito; anzi, che vi sono molti io, ma che lo spirito è non opposizione e non dualità.
Ciò fornisce un orientamento per coloro i quali faticano a conciliarsi con l'idea che lo spirito, una volta separatosi dal corpo, perda la sua unicità e si fonda in maniera indifferenziata con tutti gli altri io, come il fiume che si perde nel mare.
Il fatto è che lo spirito non è descrivibile con le categorie concettuali con le quali si può descrivere il corpo e si può tentare di descrivere l'io, perché, come abbiamo visto, esso è qualche cosa di radicalmente diverso. Per il corpo, possiamo dire che esso è uno, due, tre, ecc.: possiamo pensare quanti corpi vogliamo, ciò non rappresenta in alcun modo un problema.
E lo stesso possiamo fare per l'io: possiamo immaginare un io, due io, tre io e così via, all'infinito.
Li possiamo pensare l'uno accanto all'altro, come soldatini messi in fila, oppure sparsi e mescolati, come le erbe ed i fiori di un campo. Li possiamo anche pensare scaglionati nel tempo: prima uno, poi l'altro; e non facciamo fatica a concepirli in maniera separata, perché uno può esistere senza l'altro, o esistere prima o dopo di un altro.
Per lo spirito, le cose vanno altrimenti.
Lo spirito non viene prima o dopo, non ha un dentro e un fuori; non è legato né al tempo, né allo spazio; non è determinato né dall'essere uno, né dall'essere due.
Di conseguenza, quando lo spirito si separa dal corpo, non si dovrebbe dire - se non in senso puramente figurato - che esso ritorna all'unità e che si fonde con tutti gli altri spiriti; perché gli spiriti non sono veramente distinti l'uno dall'altro, se non quando si trovano legati ad un corpo e ad un io; ma, quando si sciolgono da essi, la distinzione cade.
Che cosa diventino gli spiriti, quando si distaccano dal corpo, non si può dire: si può dire soltanto che cosa non diventano e che cosa non sono. Non diventano uno e non restano più due, tre, ecc.; non appartengono più al mondo del visibile e delle cose conosciute. Noi non possediamo né gli strumenti concettuali per pensarli, né gli strumenti linguistici per descriverli.
È a questo punto che subentra la consapevolezza di quanto noi (e quando diciamo «noi», intendiamo i nostri io) siamo infinitamente piccoli, limitati, inadeguati a comprendere e descrivere il mistero dell'Essere. Non è una differenza quantitativa, ma qualitativa. Il più grande di noi è come niente; noi tutti siamo come niente, di fronte al pensiero dell'Essere.
Di qui, per chi abbia maturato la coscienza della propria infinita piccolezza, scaturisce la devozione: perché l'unico atteggiamento possibile, davanti ad un mistero così grande, è la preghiera di lode e di ringraziamento; è l'inno alla sublime magnificenza dell'Essere.
Noi siamo come niente, nondimeno l'Essere ci ha tratti dal non essere e ci ha dato l'esistenza, trafiggendoci, allo stesso tempo, con le frecce di una acuta nostalgia, di uno struggente desiderio di fare ritorno là, di dove siamo venuti: alla nostra vera dimora, che non è quella materiale, e, dunque, non è quella del corpo.
Gli enti sono tutti stranieri, sono tutti pellegrini, sono tutti simili alla cerva assetata che anela, in mezzo al deserto, ai rivi delle acque.
Dalla nostra piccolezza, scaturisce la rivelazione sconvolgente di tutta la bellezza, di tutto lo splendore, di tutta la luce che inonda la nostra via e che pervade il nostro essere, pur così fragile e limitato.
Ecco allora che questo niente che siamo, diviene qualche cosa: diviene parte essenziale di un disegno armonioso, perfetto, ineguagliabile. E anche questo è un mistero, non meno sublime del pensiero dell'Essere: quello di come il niente diventi qualche cosa, e di come questo qualche cosa divenga essenziale per l'esistenza del tutto.
Di nuovo, le categorie del Logos razionale risultano inadeguate a rendere conto di un tale prodigio; questa è una realtà indescrivibile e inconcepibile, dunque una realtà che va ben oltre la ragione. Da quando la filosofia è diventata succube della scienza, ha provato vergogna a parlare di un qualche cosa che non poteva né concettualizzare, né descrivere, e pertanto ha smesso di parlarne. Come se il non parlare di una cosa eliminasse il problema.
Colui che lo ha fatto in maniera esplicita e radicale, imprimendo una svolta irreversibile al pensiero moderno, è stato Kant (cfr. il nostro saggio: «L'"io penso" kantiano e l'autocastrazione del pensiero moderno», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice). Di negazione in negazione, si è arrivati fino a Wittgenstein ed alla sua celebre, drastica conclusione: «Bisogna tacere quello che non si può dire».
Invece, là dove non si può più dire nulla per mezzo del Logos strumentale e calcolante, si può sciogliere la preghiera di lode e di ringraziamento alla magnificenza dell'Essere. Vi è una parola che pretende di dare un none alle cose, perché vorrebbe dominarle; e vi è una parola che esprime soltanto stupore e ammirazione, la quale è del tutto disinteressata.
Noi abbiano bisogno di questo secondo genere di parola. L'abbiamo dimenticata, come se appartenesse ad una civiltà del passato: e, in effetti, è proprio così.
La civiltà moderna ha smarrito la parola di lode, perché essa ha sviluppato solo la parola della definizione e del dominio, la parola interessata e non quella disinteressata.
Abbiamo smarrito la strada di casa, la strada dell'Essere.
Per ritrovarla, dobbiamo reimparare a stupirci davanti all'incanto del mondo, a lodare e a ringraziare lo splendore dell'Essere.
Solo così ritroveremo la parte più vera di noi stessi, quella imperitura.
Del resto chi (per ragioni storiche) non sapesse acconciarsi a pensare lo spirito disincarnato, come senza io, potrebbe adoperare il termine "sopraspirito". S'intenderebbe allora che dall'io (cioè da quello che io chiamo lo spirito localizzato) sboccia un quid superiore, non chiuso ma […] ineffabilmente aperto, pubblico, uno, solidale e pur antimateriale per antonomasia.
Per me l'io è soltanto un punto di riferimento e, senza dubbio, conferisce una totalità e una tinta caratteristica a tutti gli altri elementi spirituali, fusi con lui ed in lui; ma, specie per opera dei Tedeschi, molti non sono capaci di pensare il pensiero, la volontà, il sentimento e tutta la psiche senza l'io, perché ne fanno come la base dello spirito (ch'è arbitrario, vedi p. e. il bambino e rifletti quanti atti psichici facciamo senza riferirli all'io; […] L'idea stessa è (proprio come l'io) un punto, una tonalità, una tinta caratteristica di e in un processo psichico più ricco, vario, ineffabile.
[…] questo concetto così riucco, da noi barbaramente irrigidito in pochi duri schemi, non viene interrotto ma si continua dopo la morte ed è superiore alle frontiere dello individuo fin da questa vita (Comunione sociale, fusione delle anime, identità della verità, etc.).»
Dunque, abbiamo detto che vi sono molti io, ma un solo spirito; anzi, che vi sono molti io, ma che lo spirito è non opposizione e non dualità.
Ciò fornisce un orientamento per coloro i quali faticano a conciliarsi con l'idea che lo spirito, una volta separatosi dal corpo, perda la sua unicità e si fonda in maniera indifferenziata con tutti gli altri io, come il fiume che si perde nel mare.
Il fatto è che lo spirito non è descrivibile con le categorie concettuali con le quali si può descrivere il corpo e si può tentare di descrivere l'io, perché, come abbiamo visto, esso è qualche cosa di radicalmente diverso. Per il corpo, possiamo dire che esso è uno, due, tre, ecc.: possiamo pensare quanti corpi vogliamo, ciò non rappresenta in alcun modo un problema.
E lo stesso possiamo fare per l'io: possiamo immaginare un io, due io, tre io e così via, all'infinito.
Li possiamo pensare l'uno accanto all'altro, come soldatini messi in fila, oppure sparsi e mescolati, come le erbe ed i fiori di un campo. Li possiamo anche pensare scaglionati nel tempo: prima uno, poi l'altro; e non facciamo fatica a concepirli in maniera separata, perché uno può esistere senza l'altro, o esistere prima o dopo di un altro.
Per lo spirito, le cose vanno altrimenti.
Lo spirito non viene prima o dopo, non ha un dentro e un fuori; non è legato né al tempo, né allo spazio; non è determinato né dall'essere uno, né dall'essere due.
Di conseguenza, quando lo spirito si separa dal corpo, non si dovrebbe dire - se non in senso puramente figurato - che esso ritorna all'unità e che si fonde con tutti gli altri spiriti; perché gli spiriti non sono veramente distinti l'uno dall'altro, se non quando si trovano legati ad un corpo e ad un io; ma, quando si sciolgono da essi, la distinzione cade.
Che cosa diventino gli spiriti, quando si distaccano dal corpo, non si può dire: si può dire soltanto che cosa non diventano e che cosa non sono. Non diventano uno e non restano più due, tre, ecc.; non appartengono più al mondo del visibile e delle cose conosciute. Noi non possediamo né gli strumenti concettuali per pensarli, né gli strumenti linguistici per descriverli.
È a questo punto che subentra la consapevolezza di quanto noi (e quando diciamo «noi», intendiamo i nostri io) siamo infinitamente piccoli, limitati, inadeguati a comprendere e descrivere il mistero dell'Essere. Non è una differenza quantitativa, ma qualitativa. Il più grande di noi è come niente; noi tutti siamo come niente, di fronte al pensiero dell'Essere.
Di qui, per chi abbia maturato la coscienza della propria infinita piccolezza, scaturisce la devozione: perché l'unico atteggiamento possibile, davanti ad un mistero così grande, è la preghiera di lode e di ringraziamento; è l'inno alla sublime magnificenza dell'Essere.
Noi siamo come niente, nondimeno l'Essere ci ha tratti dal non essere e ci ha dato l'esistenza, trafiggendoci, allo stesso tempo, con le frecce di una acuta nostalgia, di uno struggente desiderio di fare ritorno là, di dove siamo venuti: alla nostra vera dimora, che non è quella materiale, e, dunque, non è quella del corpo.
Gli enti sono tutti stranieri, sono tutti pellegrini, sono tutti simili alla cerva assetata che anela, in mezzo al deserto, ai rivi delle acque.
Dalla nostra piccolezza, scaturisce la rivelazione sconvolgente di tutta la bellezza, di tutto lo splendore, di tutta la luce che inonda la nostra via e che pervade il nostro essere, pur così fragile e limitato.
Ecco allora che questo niente che siamo, diviene qualche cosa: diviene parte essenziale di un disegno armonioso, perfetto, ineguagliabile. E anche questo è un mistero, non meno sublime del pensiero dell'Essere: quello di come il niente diventi qualche cosa, e di come questo qualche cosa divenga essenziale per l'esistenza del tutto.
Di nuovo, le categorie del Logos razionale risultano inadeguate a rendere conto di un tale prodigio; questa è una realtà indescrivibile e inconcepibile, dunque una realtà che va ben oltre la ragione. Da quando la filosofia è diventata succube della scienza, ha provato vergogna a parlare di un qualche cosa che non poteva né concettualizzare, né descrivere, e pertanto ha smesso di parlarne. Come se il non parlare di una cosa eliminasse il problema.
Colui che lo ha fatto in maniera esplicita e radicale, imprimendo una svolta irreversibile al pensiero moderno, è stato Kant (cfr. il nostro saggio: «L'"io penso" kantiano e l'autocastrazione del pensiero moderno», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice). Di negazione in negazione, si è arrivati fino a Wittgenstein ed alla sua celebre, drastica conclusione: «Bisogna tacere quello che non si può dire».
Invece, là dove non si può più dire nulla per mezzo del Logos strumentale e calcolante, si può sciogliere la preghiera di lode e di ringraziamento alla magnificenza dell'Essere. Vi è una parola che pretende di dare un none alle cose, perché vorrebbe dominarle; e vi è una parola che esprime soltanto stupore e ammirazione, la quale è del tutto disinteressata.
Noi abbiano bisogno di questo secondo genere di parola. L'abbiamo dimenticata, come se appartenesse ad una civiltà del passato: e, in effetti, è proprio così.
La civiltà moderna ha smarrito la parola di lode, perché essa ha sviluppato solo la parola della definizione e del dominio, la parola interessata e non quella disinteressata.
Abbiamo smarrito la strada di casa, la strada dell'Essere.
Per ritrovarla, dobbiamo reimparare a stupirci davanti all'incanto del mondo, a lodare e a ringraziare lo splendore dell'Essere.
Solo così ritroveremo la parte più vera di noi stessi, quella imperitura.
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