Solo per quanto riguarda la plastica si calcola che dal 1992 – cioè da quando si è cominciato a raccogliere dati a riguardo – la Cina abbia ricevuto il 45 per cento di tutti i rifiuti prodotti, arrivando nel 2016 ad assorbire più del 70 per cento di tutti i rifiuti di plastica.
La Cina prendeva dai rifiuti quello che poteva riciclare e bruciava il resto, sopperendo a una carenza di materia prima causata dall’ancora diffusa povertà del paese.
Tutto questo è stato possibile fino a quando, nell’estate del 2017, il governo cinese ha deciso di diminuire le importazioni dei rifiuti plastici e cartacei, imponendo a partire dal 1 gennaio 2018 il blocco delle importazioni di 24 tipologie di rifiuti, tra cui plastica, carta da macero e scarti tessili, a cui nel 2019 sono state aggiunte altre 16 tipologie, tra cui rottami di auto e navi demolite. Si trattava infatti di materiale considerato di bassa qualità, i cui costi di importazione e riciclaggio non erano più convenienti per il mercato cinese ...
La Cina prendeva dai rifiuti quello che poteva riciclare e bruciava il resto, sopperendo a una carenza di materia prima causata dall’ancora diffusa povertà del paese.
Tutto questo è stato possibile fino a quando, nell’estate del 2017, il governo cinese ha deciso di diminuire le importazioni dei rifiuti plastici e cartacei, imponendo a partire dal 1 gennaio 2018 il blocco delle importazioni di 24 tipologie di rifiuti, tra cui plastica, carta da macero e scarti tessili, a cui nel 2019 sono state aggiunte altre 16 tipologie, tra cui rottami di auto e navi demolite. Si trattava infatti di materiale considerato di bassa qualità, i cui costi di importazione e riciclaggio non erano più convenienti per il mercato cinese ...
Un mercato in stallo
Questi problemi, negli ultimi mesi, abbiamo imparato a conoscerli bene anche in Italia, ma negli Stati Uniti si stanno verificando in scala molto maggiore. Gli Stati Uniti sono stati infatti i più grandi esportatori di rifiuti verso la Cina, e il blocco delle importazioni deciso dal governo cinese ha significato un improvviso stallo nel riciclo dei rifiuti, oltre che un aumento dei costi.
Molte città si sono trovate a dover scegliere tra pagare molto di più per riciclare i propri rifiuti negli impianti statunitensi, oppure disfarsi di tutti i i rifiuti, anche quelli frutto della raccolta differenziata, in discariche e inceneritori (in Italia sono chiamati anche termovalorizzatori quando il calore prodotto dalla combustione dei rifiuti viene utilizzato per produrre energia elettrica).
Alana Semuels ha raccontato in un articolo sull’Atlantic come nel concreto questo stia modificando il processo di riciclo negli Stati Uniti, mostrando i casi di diverse amministrazioni cittadine che si sono ritrovate a dover rinunciare a fare la raccolta differenziata, a causa di un mercato senza sbocchi. A Franklyn, nel New Hampshire, per esempio, il costo per il riciclo dei rifiuti è passato da 6 dollari per tonnellata del 2010 ai 125 dollari per tonnellata attuali, una cifra insostenibile per una città dove gli abitanti vivono in gran parte sotto la soglia di povertà.
Alana Semuels ha raccontato in un articolo sull’Atlantic come nel concreto questo stia modificando il processo di riciclo negli Stati Uniti, mostrando i casi di diverse amministrazioni cittadine che si sono ritrovate a dover rinunciare a fare la raccolta differenziata, a causa di un mercato senza sbocchi. A Franklyn, nel New Hampshire, per esempio, il costo per il riciclo dei rifiuti è passato da 6 dollari per tonnellata del 2010 ai 125 dollari per tonnellata attuali, una cifra insostenibile per una città dove gli abitanti vivono in gran parte sotto la soglia di povertà.
E quindi: ha ancora senso stare a dividere plastica e carta, se poi alla fine non possiamo far altro che bruciare tutto?
Aumentano discariche e rifiuti inceneriti
Il Guardian ha raccontato la storia di Chester, un città della Pennsylvania dove si trova un grande inceneritore dell’azienda Covanta. Da quando è attivo il blocco delle importazioni in Cina, nell’inceneritore di Chester arrivano ogni giorno 200 tonnellate di rifiuti riciclabili che non trovano altra destinazione. Solo una piccola parte di tutta questa spazzatura, però, arriva dalla città di Chester: gran parte dei rifiuti che vengono inceneriti lì proviene infatti dallo stato di New York, dall’Ohio, dal North Carolina e da molti altri stati.
Questa grande quantità di rifiuti crea anche un secondo problema: preoccupazione principale degli abitanti di Chester è che i fumi dall’inceneritore emettano sostanze tossiche che possano causare danni alla salute dei cittadini, in particolare quelli che abitano nei pressi dell’impianto, che spesso appartengono a minoranze etniche e sociali.
Nonostante tra i cittadini di Chester si registri una percentuale di cancro alle ovaie 24 volte maggiore che nel resto della Pennsylvania, e nonostante circa il 40 per cento dei bambini soffra di asma, l’azienda Covanta ha sempre detto di aver fatto tutti i controlli necessari per verificare la qualità dell’aria nella città, sostenendo che le emissioni di diossina siano molto al di sotto del limite consentito. Covanta ha anche sempre sostenuto che gli inceneritori siano il male minore in casi come questo, dato che l’alternativa sarebbe spedire depositare i rifiuti in discarica. «In termini di gas serra – ha detto Paul Gilman, responsabile della sostenibilità ambientale di Covanta – è molto meglio mandare i prodotti riciclabili in un impianto che recuperi energia, vista la quantità di metano che viene prodotta dai rifiuti lasciati in discarica».
Secondo uno studio pubblicato lo scorso giugno sulla rivista scientifica Science Advance, il blocco delle importazioni di rifiuti da parte della Cina comporterà che entro il 2030 ci saranno 111 milioni di tonnellate di rifiuti di cui non sapremo cosa fare.
Alcuni paesi hanno spostato le rotte dei propri rifiuti verso paesi del sud-est asiatico come Malesia e Vietnam, che però hanno a loro volta annunciato di voler seguire l’esempio cinese e smettere di importare rifiuti di bassa qualità dall’estero. E gli Stati Uniti producono proprio rifiuti “di bassa qualità”.
Sull’Atlantic, Semuels ha spiegato che per anni molti statunitensi – anche i meglio intenzionati – hanno riciclato “male”. Secondo la National Waste & Recycling Association, un’associazione che raggruppa le società che si occupano del riciclo e del recupero dei rifiuti negli Stati Uniti, circa il 25 per cento dei rifiuti che i cittadini statunitensi inseriscono nei bidoni che raccolgono insieme plastica e carta (un sistema di raccolta introdotto negli Stati Uniti negli anni Novanta per risparmiare sui costi di trasporto e incentivare le persone a non gettare i rifiuti nell’indifferenziata) è composto da materiale contaminato, e che quindi non può essere “riciclato” se prima non viene pulito, in qualche modo.
Inserire cartoni della pizza con avanzi di cibo, bottiglie sporche e altri rifiuti contaminati non ha rappresentato un gran problema fintanto che la Cina comprava rifiuti di qualunque tipo. È nessuno si era posto il problema di insegnare davvero come differenziare i rifiuti, specialmente quelli di plastica e carta, dato che c’era qualche lavoratore sottopagato che lo faceva in Cina al posto dei cittadini statunitensi.
Rimediare a questa situazione, negli Stati Uniti, al momento significa assumere personale perché pulisca i rifiuti che i cittadini non hanno differenziato bene, facendo salire di conseguenza i costi per chi poi vuole acquistare le materie prime secondarie, cioè derivate dal riciclo. In sostanza per un’azienda è più economico acquistare materie prime “vergini”, piuttosto che riciclate, anche se si tratta solo di qualche centesimo in più per prodotto.
Debbie Raphael, direttrice del dipartimento per l’Ambiente della città di San Francisco, sostiene che l’unico modo sensato per rimediare a questa situazione sia di usare molta meno plastica. Alle tre R di “Riduci, Riusa e Ricicla”, i capisaldi dell’economia circolare dei rifiuti, andrebbe secondo lei aggiunta una quarta “R”: Rifiuta. In un periodo come questo, secondo Raphael, non basta differenziare correttamente i propri rifiuti, pulendoli, selezionandoli ed evitando di contaminarli.
Alcuni paesi hanno spostato le rotte dei propri rifiuti verso paesi del sud-est asiatico come Malesia e Vietnam, che però hanno a loro volta annunciato di voler seguire l’esempio cinese e smettere di importare rifiuti di bassa qualità dall’estero. E gli Stati Uniti producono proprio rifiuti “di bassa qualità”.
Sull’Atlantic, Semuels ha spiegato che per anni molti statunitensi – anche i meglio intenzionati – hanno riciclato “male”. Secondo la National Waste & Recycling Association, un’associazione che raggruppa le società che si occupano del riciclo e del recupero dei rifiuti negli Stati Uniti, circa il 25 per cento dei rifiuti che i cittadini statunitensi inseriscono nei bidoni che raccolgono insieme plastica e carta (un sistema di raccolta introdotto negli Stati Uniti negli anni Novanta per risparmiare sui costi di trasporto e incentivare le persone a non gettare i rifiuti nell’indifferenziata) è composto da materiale contaminato, e che quindi non può essere “riciclato” se prima non viene pulito, in qualche modo.
Inserire cartoni della pizza con avanzi di cibo, bottiglie sporche e altri rifiuti contaminati non ha rappresentato un gran problema fintanto che la Cina comprava rifiuti di qualunque tipo. È nessuno si era posto il problema di insegnare davvero come differenziare i rifiuti, specialmente quelli di plastica e carta, dato che c’era qualche lavoratore sottopagato che lo faceva in Cina al posto dei cittadini statunitensi.
Rimediare a questa situazione, negli Stati Uniti, al momento significa assumere personale perché pulisca i rifiuti che i cittadini non hanno differenziato bene, facendo salire di conseguenza i costi per chi poi vuole acquistare le materie prime secondarie, cioè derivate dal riciclo. In sostanza per un’azienda è più economico acquistare materie prime “vergini”, piuttosto che riciclate, anche se si tratta solo di qualche centesimo in più per prodotto.
Debbie Raphael, direttrice del dipartimento per l’Ambiente della città di San Francisco, sostiene che l’unico modo sensato per rimediare a questa situazione sia di usare molta meno plastica. Alle tre R di “Riduci, Riusa e Ricicla”, i capisaldi dell’economia circolare dei rifiuti, andrebbe secondo lei aggiunta una quarta “R”: Rifiuta. In un periodo come questo, secondo Raphael, non basta differenziare correttamente i propri rifiuti, pulendoli, selezionandoli ed evitando di contaminarli.
Bisogna rifiutarsi di utilizzarne alcuni che poi saranno più difficili da riciclare, come ad esempio gli imballaggi in plastica.
Fonte: www.ilpost.it
Dove va la tua plastica? Un'indagine globale rivela lo sporco segreto dell'America
(articolo del 17 giugno 2019 - Traduzione Google)
Un rapporto del Guardian in 11 paesi traccia come i rifiuti degli Stati Uniti invadono il mondo e travolgono le nazioni più povere.
Cosa succede alla tua plastica dopo averla buttata in un cestino?
Secondo i materiali promozionali dell'industria delle materie plastiche americane, viene trasportato in una fabbrica dove viene trasformato senza soluzione di continuità in qualcosa di nuovo.
Questa non è l'esperienza di Nguyễn Thị Hồng Thắm, una sessantenne madre vietnamita con sette figli, che vive in mezzo a mucchi di plastica sudicia americana alla periferia di Hanoi. Fuori dalla sua casa, il sole batte su una borsa Cheetos; indicatori di corridoio di un negozio Walmart; e un sacchetto di plastica di ShopRite, una catena di supermercati del New Jersey, con un messaggio che invita le persone a riciclarlo.
A Tham viene pagato l'equivalente di $ 6,50 al giorno per rimuovere gli elementi non riciclabili e ordinare ciò che rimane: plastica traslucida in una pila, opaca in un'altra.
Un'inchiesta del Guardian ha rilevato che centinaia di migliaia di tonnellate di plastica statunitense vengono spedite ogni anno a paesi in via di sviluppo poco regolamentati in tutto il mondo per il processo di riciclaggio sporco e laborioso. Le conseguenze per la salute pubblica e l'ambiente sono truci.
- L'anno scorso, l'equivalente di 68.000 container per la spedizione del riciclaggio di plastica americano è stato esportato dagli Stati Uniti in paesi in via di sviluppo che gestiscono più del 70% dei propri rifiuti di plastica.
- I più recenti hotspot per la gestione del riciclaggio della plastica negli Stati Uniti sono alcuni dei paesi più poveri del mondo, tra cui Bangladesh, Laos, Etiopia e Senegal, offrendo manodopera a basso costo e limitate regolamentazioni ambientali.
- In alcuni luoghi, come la Turchia , un'ondata di spedizioni di rifiuti stranieri sta ostacolando gli sforzi per gestire le materie plastiche generate localmente.
- Con queste nazioni travolte, migliaia di tonnellate di rifiuti di plastica sono bloccate a casa negli Stati Uniti, come riveleremo nella nostra storia alla fine di questa settimana.
FacebookTwitterPinterest Nguyễn Thị Hồng Thắm è pagato $ 6,50 al giorno per smistare il riciclaggio alla periferia di Hanoi. Fotografia: Bac Pham / The Guardian
Questi insuccessi nel sistema di riciclaggio stanno aggiungendo un crescente senso di crisi intorno alla plastica, un materiale meraviglioso che ha permesso di tutto dagli spazzolini agli elmetti spaziali, ma ora si trova in enormi quantità negli oceani ed è persino stato rilevato nel sistema digestivo umano.
Riflettendo gravi preoccupazioni per i rifiuti di plastica, il mese scorso 187 paesi hanno firmato un trattato che conferisce alle nazioni il potere di bloccare l'importazione di rifiuti di plastica contaminati o difficili da riciclare. Alcuni paesi non hanno firmato. Uno era gli Stati Uniti.
Una nuova serie di Guardian, Stati Uniti di plastica, esaminerà la crisi della plastica che ha travolto l'America e il mondo, pubblicando molte altre storie questa settimana e proseguendo per il resto del 2019.
"Le persone non sanno cosa sta succedendo alla loro spazzatura", ha detto Andrew Spicer, che insegna responsabilità sociale delle imprese presso l'Università della Carolina del Sud e siede nel consiglio consultivo per il riciclaggio del suo stato. "Pensano che stanno salvando il mondo. Ma il business internazionale del riciclaggio lo vede come un modo per fare soldi. Non ci sono state normative globali - solo un mercato lungo e sporco che consente ad alcune aziende di trarre vantaggio da un mondo senza regole ".
La plastica è entrata a far parte del consumo di massa negli anni '50, ma nel Pacific Garbage Patch si pensa che sia più comune del plancton.
Funzionari di tutto il mondo hanno vietato in particolare sostanze inquinanti di plastica, come cannucce e sacchetti fragili, ma l'America da sola genera 34,5 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica ogni anno, sufficienti a riempire lo stadio Astrodome di Houston 1.000 volte.
Del 9% della plastica americana che l'Agenzia per la protezione ambientale ha stimato essere riciclata nel 2015, la Cina e Hong Kong hanno gestito più della metà: circa 1,6 milioni di tonnellate del nostro riciclaggio di plastica ogni anno. Hanno sviluppato una vasta industria di raccolta e riutilizzo delle materie plastiche più preziose per produrre prodotti che potrebbero essere venduti nel mondo occidentale.
Ma gran parte di ciò che l'America inviava era contaminato da cibo o sporcizia, oppure era non riciclabile e doveva essere semplicemente messo in discarica in Cina. Tra crescenti timori per l'ambiente e la salute, la Cina ha chiuso le sue porte a tutti, tranne la plastica più pulita, alla fine del 2017.
Del 9% della plastica americana che l'Agenzia per la protezione ambientale ha stimato essere riciclata nel 2015, la Cina e Hong Kong hanno gestito più della metà: circa 1,6 milioni di tonnellate del nostro riciclaggio di plastica ogni anno. Hanno sviluppato una vasta industria di raccolta e riutilizzo delle materie plastiche più preziose per produrre prodotti che potrebbero essere venduti nel mondo occidentale.
Ma gran parte di ciò che l'America inviava era contaminato da cibo o sporcizia, oppure era non riciclabile e doveva essere semplicemente messo in discarica in Cina. Tra crescenti timori per l'ambiente e la salute, la Cina ha chiuso le sue porte a tutti, tranne la plastica più pulita, alla fine del 2017.
L'America invia 1 milione di tonnellate di rifiuti di plastica ovunque all'estero.
Questi sono i nuovi siti.
Una bandiera rossa per i ricercatori è che molti di questi paesi si sono classificati molto male sulle metriche di quanto bene gestiscono i propri rifiuti di plastica. Uno studio condotto dalla ricercatrice dell'Università della Georgia, Jenna Jambeck, ha rilevato che la Malaysia, il più grande destinatario del riciclaggio di plastica negli Stati Uniti dopo il divieto della Cina, ha gestito male il 55% dei propri rifiuti di plastica, il che significa che è stato scaricato o inadeguatamente smaltito in siti come discariche aperte . L'Indonesia e il Vietnam hanno gestito impropriamente l'81% e l'86% rispettivamente.
"Stiamo cercando disperatamente di sbarazzarci di questa roba che stiamo cercando nuove frontiere", ha detto Jan Dell, un ingegnere indipendente, la cui organizzazione The Last Beach Cleanup lavora con investitori e gruppi ambientalisti per ridurre l'inquinamento plastico. "Il percorso di minor resistenza è quello di metterlo su una nave e mandarlo da qualche altra parte - e le navi stanno andando sempre più lontano per trovare un posto dove metterlo", ha detto.
Articolo completo qui:
Where does your plastic go? Global investigation reveals America's dirty secretE in Italia?
Altro che discariche! Ecco dove finisce la plastica italiana
Dove finiscono i rifiuti in plastica a livello globale? E quelli che produciamo in Italia? Dopo il bando cinese all’importazione di questi scarti risalente a un anno fa, il sistema di riciclo della plastica su scala mondiale è andato letteralmente in tilt, percorrendo altre strade soprattutto verso Paesi non dotati di regolamentazioni ambientali rigorose.
Malesia, Turchia, Vietnam, Thailandia e Yemen: è principalmente il Sud-est asiatico la meta delle nuove rotte battute dai rifiuti, anche da quelli provenienti dall’Italia, che risulta tra i principali esportatori mondiali (nella classifica si piazza all’undicesimo posto).
Solo nel 2018, 197mila tonnellate di plastica italiana hanno varcato i nostri confini, per un giro di affari che sfiora i 60 milioni di euro.
Sono i dati che emergono dal nuovo rapporto di Greenpeace “Le rotte globali, e italiane, dei rifiuti in plastica”, in cui si analizza il commercio mondiale dei rifiuti in plastica relativa ai 21 maggiori Paesi esportatori e ai 21 maggiori importatori nel periodo compreso tra gennaio 2016 e novembre 2018 ed evidenzia le nuove rotte globali conseguenti al bando cinese all’importazione.
Il report analizza le esportazioni e le importazioni di materie plastiche riconducibili al codice doganale 3915 (ossia, quando nel report si parla di “rifiuto di plastica” si fa riferimento ai Codici doganali che sono stati oggetto del bando cinese. Per il panorama italiano e secondo le nomenclature di Eurostat, il bando cinese ha riguardato i seguenti sottocodici del Codice doganale 3915: “Cascami, ritagli e avanzi di materie plastiche”, come definito nel portale AIDA – Tariffa doganale d’uso integrata).
“Nel 2018 la Cina ha cambiato politiche sull’import di rifiuti in plastica e ciò ha svelato la crisi del sistema di riciclo globale. Riciclare non è la soluzione, sono necessari interventi che riducano subito la produzione, soprattutto per quella frazione di plastica spesso inutile e superflua rappresentata dall’usa e getta che oggi costituisce il 40% della produzione globale di plastica”, dichiara Giuseppe Ungherese, Responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia.
Ora che la Cina ha chiuso le frontiere e che altri Paesi asiatici stanno progettando ulteriori bandi, anche in Italia rischiano di accumularsi rifiuti in plastica che in Oriente non vogliono più ricevere. Insomma, se fino a poco tempo fa gran parte degli scarti plastici europei e italiani erano diretti alla Repubblica Popolare cinese (contenitori, pellicole industriali e residui plastici di ogni sorta) per poi – nella migliore delle ipotesi – essere riciclati, questo meccanismo poco più di un anno fa si è interrotto bruscamente. E ora?
“Nel 2018 la Cina ha cambiato politiche sull’import di rifiuti in plastica e ciò ha svelato la crisi del sistema di riciclo globale. Riciclare non è la soluzione, sono necessari interventi che riducano subito la produzione, soprattutto per quella frazione di plastica spesso inutile e superflua rappresentata dall’usa e getta che oggi costituisce il 40% della produzione globale di plastica”, dichiara Giuseppe Ungherese, Responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia.
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Le nuove rotte dei rifiuti, dove va a finire la plastica italiana?Ora che la Cina ha chiuso le frontiere e che altri Paesi asiatici stanno progettando ulteriori bandi, anche in Italia rischiano di accumularsi rifiuti in plastica che in Oriente non vogliono più ricevere. Insomma, se fino a poco tempo fa gran parte degli scarti plastici europei e italiani erano diretti alla Repubblica Popolare cinese (contenitori, pellicole industriali e residui plastici di ogni sorta) per poi – nella migliore delle ipotesi – essere riciclati, questo meccanismo poco più di un anno fa si è interrotto bruscamente. E ora?
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Ma dobbiamo per forza esportare?
Certo che sì.
In media, tra il 2016 e il 2017 abbiamo esportato quasi 250 mila tonnellate l’anno di plastica. Dati confermati nel 2018, che ha visto una lieve flessione rispetto ai quantitativi esportati (197 mila tonnellate) ma non rispetto al valore economico dell’export (addirittura aumentato del 9,5% rispetto al 2016).
La triste realtà è che l’Italia è carente di impianti di recupero e riciclo: qui dai noi esistono numerosi impianti di piccole dimensioni (che trattano tra le 3 mila e le 5 mila tonnellate/annue), e non più di cinque impianti da 50 mila tonnellate. È per questo che, dicono gli esperti, anche solo il riciclo non basta, ma servono la riprogettazione per la riduzione e l’adozione di tutti gli strumenti tecnologici e normativi che possano portare l’Europa a potere definirsi realmente con un modello di economia circolare.
“Con una produzione di plastica in vertiginosa crescita su scala globale, che raddoppierà le quantità del 2015 entro il 2025 per quadruplicarle entro il 2050, il nostro Pianeta rischia di essere sommerso da rifiuti in plastica – conclude Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento per Greenpeace Italia.
Si stima che ogni anno tra i 4,8 e i 12,7 milioni di tonnellate di plastica finiscano nei mari, al ritmo di un camion al minuto per ogni giorno dell’anno. Numeri che sono destinati a peggiorare. Sono necessari interventi urgenti – continua Ungherese – che riducano subito la produzione, soprattutto per quella frazione di plastica spesso inutile e superflua rappresentata dall’usa e getta che oggi costituisce il 40% della produzione globale di plastica”.
Ma dobbiamo per forza esportare?
Certo che sì.
In media, tra il 2016 e il 2017 abbiamo esportato quasi 250 mila tonnellate l’anno di plastica. Dati confermati nel 2018, che ha visto una lieve flessione rispetto ai quantitativi esportati (197 mila tonnellate) ma non rispetto al valore economico dell’export (addirittura aumentato del 9,5% rispetto al 2016).
La triste realtà è che l’Italia è carente di impianti di recupero e riciclo: qui dai noi esistono numerosi impianti di piccole dimensioni (che trattano tra le 3 mila e le 5 mila tonnellate/annue), e non più di cinque impianti da 50 mila tonnellate. È per questo che, dicono gli esperti, anche solo il riciclo non basta, ma servono la riprogettazione per la riduzione e l’adozione di tutti gli strumenti tecnologici e normativi che possano portare l’Europa a potere definirsi realmente con un modello di economia circolare.
“Con una produzione di plastica in vertiginosa crescita su scala globale, che raddoppierà le quantità del 2015 entro il 2025 per quadruplicarle entro il 2050, il nostro Pianeta rischia di essere sommerso da rifiuti in plastica – conclude Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento per Greenpeace Italia.
Si stima che ogni anno tra i 4,8 e i 12,7 milioni di tonnellate di plastica finiscano nei mari, al ritmo di un camion al minuto per ogni giorno dell’anno. Numeri che sono destinati a peggiorare. Sono necessari interventi urgenti – continua Ungherese – che riducano subito la produzione, soprattutto per quella frazione di plastica spesso inutile e superflua rappresentata dall’usa e getta che oggi costituisce il 40% della produzione globale di plastica”.
Fonte e articolo completo: www.greenme.it
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