Umberto Galimberti
(01/09/2002)
Psicopatia.
Non spaventiamoci subito di fronte a questa parola. In fondo «psicopatico» lo diciamo un po' di chiunque. Il più delle volte senza nessuna ragione.
La parola è stata coniata verso fine Ottocento in ambito psichiatrico da J. A. Koch per sostituire quelle sindromi che la psichiatria precedente definiva: «follia morale» o «imbecillità morale».
Ma perché inserire una sindrome psichiatrica tra i nuovi vizi?
Perché quella che un tempo era la peculiarità di qualcuno, oggi sembra il modo di vivere di molti, così ben descritto nel romanzo Blue Belle dello scrittore americano Andrew Vachss, dove lo psicopatico:
«Segue solo i propri pensieri, procede per la sua strada, avverte solo il proprio dolore. Sì. Non è forse la via giusta per sopravvivere in questo letamaio? Aspetta il tuo momento, abbassa la visiera. Non lasciare che ti leggano il cuore» ...
La psicopatia non è una «psicosi» perché la personalità non è destrutturata, e neppure una «nevrosi» perché il disturbo non nasce da un conflitto.
La psicopatia è piuttosto un' immaturità affettiva che nasconde una puerilità di fondo con conseguente indifferenza alle frustrazioni, incapacità di esprimere sentimenti positivi come simpatia e gratitudine, vita sessuale impersonale e non coinvolgente, apatia morale con mancanza di sentimenti di rimorso o di colpa, mancanza di responsabilità, falsità e insincerità, condotta antisociale che spesso mette capo a gesti delittuosi realizzati con freddezza e indifferenza.
Penso qui ai ragazzi del cavalcavia, all' assassinio di Marta Russo, alle minorenni di buona famiglia che a Chiavenna uccidono una suora, alle loro coetanee di Castelluccio dei Sauri che ammazzano una loro amica, allo studente di Sesto San Giovanni che per amore accoltella la sua compagna di scuola, a Erika e Omar la cui vita sembra ormai segnata dal loro tragico gesto, per chiudere qui l'elenco, senza dimenticare naturalmente le madri che spengono la vita dei figli che esse stesse hanno generato.
Queste tragedie non possono essere sbrigativamente liquidate come «casi psichiatrici» e qui relegate e rimosse. La ricorrenza di storie come queste, ormai troppo frequenti, obbliga tutti noi a una riflessione più seria. Disponiamo ancora di una psiche capace di elaborare i conflitti e, grazie a questa elaborazione, in grado di trattenerci dal gesto? Esiste nella nostra cultura e nelle nostre pratiche di vita un' educazione psicologica che ci consenta di mettere in contatto e quindi di conoscere i nostri sentimenti, le nostre pulsioni, la qualità della nostra sessualità e i moti della nostra aggressività?
Oppure il mondo emotivo vive dentro di noi a nostra insaputa, come un ospite sconosciuto a cui non sappiamo dare neppure un nome?
Oppure il mondo emotivo vive dentro di noi a nostra insaputa, come un ospite sconosciuto a cui non sappiamo dare neppure un nome?
Se così fosse di fatti simili a questi a cui abbiamo accennato aspettiamocene molti, perché è difficile pensare di poter governare la propria vita senza un' adeguata conoscenza di sé.
E qui non alludo alla conoscenza postuma che in età adolescenziale o in età adulta porta qualcuno dallo psicoterapeuta a cercar l' anima o direttamente in farmacia nel tentativo di sedarla, qui faccio riferimento a quella cura della psiche che prende avvio dai primi contatti dei genitori con i loro figli. Qui gli adulti annaspano un po'. E veicolano l' amore attraverso le cose che in abbondanza acquistano per soddisfare quei desideri infantili che vanno a occupare il vuoto di comunicazione che già manifesta i suoi primi segni nella svogliatezza, nell'indolenza, nella pigrizia, nella ribellione e, nei casi più gravi anche se meno eclatanti, nella rassegnazione depressiva.
Quel che si può avvertire in questo periodo, caratterizzato da sovrabbondanza di stimoli esterni e carenza di comunicazione, sono i primi segnali di «psicopatia», che è poi quell'indifferenza emotiva oggi sempre più diffusa, per effetto della quale non si ha risonanza emozionale di fronte ai fatti a cui si assiste o ai gesti che si compiono.
E chi non sa sillabare l'alfabeto emotivo, chi ha lasciato disseccare le radici del cuore si muove nel mondo pervaso da un timore inaffidabile e quindi con una vigilanza aggressiva spesso non disgiunta da spunti paranoici che inducono a percepire il prossimo innanzitutto come un potenziale nemico.
E chi non sa sillabare l'alfabeto emotivo, chi ha lasciato disseccare le radici del cuore si muove nel mondo pervaso da un timore inaffidabile e quindi con una vigilanza aggressiva spesso non disgiunta da spunti paranoici che inducono a percepire il prossimo innanzitutto come un potenziale nemico.
E tutto ciò perché?
Perché manca un' educazione emotiva; innanzitutto in famiglia, dove i giovanissimi trascorrono il loro tempo in quella tranquilla solitudine con le chiavi di casa in tasca e la tivù come baby sitter, e poi a scuola, quando sotto gli occhi molto spesso appannati dei loro professori ascoltano parole in incidenti, che fanno riferimento a una cultura troppo lontana da ciò che la tivù ha loro offerto come base di reazione emozionale.
E così la loro sensibilità gracile, introversa e indolente, che la scuola si guarda bene di educare, tracolla in quell'inerzia a cui li aveva allenati quell'apprendimento passivo davanti al video e oggi davanti a Internet, con frequenti fughe nel sogno o nel mito, nella ricerca neppur troppo spasmodica di un' identità di cui troppo presto si dubita di poter reperirne la fisionomia, per incapacità di rintracciare radici emotive proprie. Il tutto condito da un acritico consumismo, reso possibile da una società opulenta, dove le cose sono a disposizione prima ancora che sorga quell'emozione desiderante che quindi non è sollecitata a conquistarle e perciò le consuma con disinteresse e snobismo in modo individualistico, dove il pieno delle cose sta al posto del vuoto delle relazioni mancate.
Ebbene sì, perché l'emozione è essenzialmente «relazione» e dalla qualità delle nostre relazioni possiamo leggere il grado della nostra intelligenza emotiva, la cui educazione oggi è lasciata al caso.
E questo perché oggi i giovanissimi sono più soli e più depressi, più rabbiosi e ribelli, più nervosi e impulsivi, più aggressivi e quindi impreparati alla vita perché privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l'autoconsapevolezza, l'autocontrollo, l'empatia, senza i quali saremo sì capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare.
Ebbene sì, perché l'emozione è essenzialmente «relazione» e dalla qualità delle nostre relazioni possiamo leggere il grado della nostra intelligenza emotiva, la cui educazione oggi è lasciata al caso.
Tutte le statistiche, infatti, concordano nel segnalare la tendenza, nell'attuale generazione, ad avere un maggior numero di problemi emozionali rispetto a quelle precedenti.
E questo perché oggi i giovanissimi sono più soli e più depressi, più rabbiosi e ribelli, più nervosi e impulsivi, più aggressivi e quindi impreparati alla vita perché privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l'autoconsapevolezza, l'autocontrollo, l'empatia, senza i quali saremo sì capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare.
Ai professori che ogni giorno si apprestano a dare giudizi sulle capacità intellettuali dei loro allievi un invito a riflettere prima su quanta educazione emotiva hanno distribuito, perché, a se stessi almeno, non possono nascondere che l'intelligenza e l'apprendimento non funzionano se non li alimenta il cuore.
Se la scuola non è sempre all'altezza dell'educazione psicologica, che prevede, oltre ad una maturazione intellettuale anche una maturazione emotiva, l'ultima chance potrebbe offrirla la società se i suoi valori non fossero solo business, successo, denaro, immagine e tutela della privacy, ma anche qualche straccio di solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco che possano temperare il carattere asociale che, nella nostra cultura, caratterizza sempre di più il nucleo familiare.
Oggi infatti quel che succede in casa resta lì compresso e incomunicato, e quel che succede fuori è trattato con quelle maschere che ogni giorno indossiamo per non lasciar trasparire proprio nulla dei drammi, delle gioie e dei dolori che si vivono dentro le mura di casa ben protette.
Nel deserto della comunicazione emotiva che da piccoli non ci è arrivata, da adolescenti non abbiamo incontrato e da adulti ci hanno insegnato a controllare, fa la sua comparsa il gesto, soprattutto quello violento, che prende il posto di tutte le parole che non abbiamo scambiato né con gli altri per istintiva diffidenza, né con noi stessi per afasia emotiva.
E allora prima del lettino dello psicoterapeuta dove le parole si scambiano, come è noto, a pagamento, prima dei farmaci che soffocano tutte le parole con cui potremmo imparare a nominare e a conoscere i nostri moti d'anima, dobbiamo convincerci della necessità e dell'urgenza di un'educazione emotiva preventiva, di cui scarsissime sono le occasioni in famiglia, a scuola e nella società.
E questo soprattutto nella nostra società che ha sviluppato un individualismo esasperato e una possibilità di scelta e di libertà che le società che ci hanno preceduto non hanno mai conosciuto, arginate com'erano dalle ristrettezze della povertà e dall'inquadramento offerto dalla tradizione religiosa condivisa, che fungevano da strutture di contenimento. Oggi questi argini, grazie a Dio, sono saltati, ma la nuova individualità che si va affermando ha la forza per reggere lo spazio di libertà e di solitudine che le è stato concesso? Io credo di no.
Per questo c'è un gran lavoro da fare nell'educazione preventiva dell'anima (e non solo del corpo e dell'intelligenza) per essere all' altezza del nostro tempo che ha bruciato gli spazi della riflessione, ridotto all'insignificanza quelli della comunicazione, ma soprattutto ha inaridito il sentimento, che è poi l'organo attraverso il quale si «sente», prima ancora di «sapere», cos'è bene e cos'è male.
Articolo precedentemente pubblicato qui il 12/09/2019
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