giovedì 13 dicembre 2018

Tav, la strana guerra contro i “palestinesi” della valle di Susa


Ripercorriamo la vicenda del TAV Torino-Lione: dalle lotte popolari della Val di Susa, agli interessi economici dietro al progetto; dalle infiltrazioni della 'ndrangheta alla presenza dei servizi segreti.

di Giorgio Cattaneo

Foto: Venaus (To), Dicembre 2005 - Una signora venuta per pregare davanti i militari durante la marcia dell'8 Dicembre che ha portato alla ripresa del presidio di Venaus da parte della gente del posto. 

In queste settimane si sta tornando a parlare del progetto TAV, a livello sia politico che mediatico. A Torino ci sono state due manifestazioni: una a favore e un’altra contro, che si è svolta sabato scorso e ha visto la partecipazione di decine di migliaia di persone.

Pubblichiamo quindi questo articolo che ripercorre e riassume l’intera vicenda, cercando di capire le motivazioni della sollevazione popolare NO TAV e perché negli anni sia stata da una parte combattuta dal potere e repressa anche in modo violento, e dall’altra infiltrata. Inoltre nell’articolo vengono toccati vari aspetti sconosciuti ai più, come le infiltrazioni mafiose nel progetto e le manipolazioni mediatiche e politiche di alcune vicende (come ad esempio l’arresto e il “suicidio” in carcere degli attivisti Sole e Baleno) ...



Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. 

Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza non violenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.

Nemmeno l’umorismo iperbolico di Paolo Villaggio, forse, sarebbe riuscito a dipingere il carattere lunare, gaglioffo e cialtrone del fantasma ferroviario che insidia da più di vent’anni l’estremo nord-ovest italiano: un ipotetico super-treno pensato negli anni ’80 del secolo scorso per i passeggeri, surclassato in capo a un decennio dall’avvento dei voli low-cost e infine umiliato anche dal traffico merci, defunto pure quello. La globalizzazione “cinese” sbarca a Genova e punta verso Rotterdam, snobbando il Piemonte e le Alpi del Rodano.

Dalla Fortezza Bastiani del Tav, a lungo presidiata dall’ineffabile Pd con la collaborazione del centrodestra (leghisti compresi), ormai si guarda con malinconia ai dati, impietosi, sciorinati ufficialmente anche a Palazzo Chigi: il flusso di merci è crollato, e la ferrovia internazionale che già collega Torino a Lione attraversando l’infelice valle di Susa (via Modane, traforo del Fréjus) potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%, se solo ci fossero merci da trasportare. Bel guaio: cosa bisognerà inventare, ancora, per spillare soldi euro-italiani da spalmare su appalti e subappalti? Avverte il giallista Massimo Carlotto, vicino ai NoTav: le grandi opere sono perfette per riciclare denaro, nell’immensa “lavanderia a cielo aperto” chiamata Europa. Business is business: non è che si possa smontare così, su due piedi, un grande affare destinato a pompare milioni (miliardi) in una filiera che include industria e indotto cantieristico, studi e consulenze, progettisti, banche e partiti.

Se sento ancora parlare di Tav Torino-Lione, scrisse Giorgio Bocca nel 2005, vado a ripescare il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato alla fine della guerra partigiana. Si era documentato, l’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano: aveva capito che i palestinesi inermi le avevano buscate in modo selvaggio, riempiti di botte – uomini e donne, ragazzi e anziani – dai robocop venuti da lontano, in piena notte, per sgomberare il prato di Venaus occupato dalle famiglie impegnate in una sorta di sit-in permanente. Ne seguì una sommossa popolare a carattere insurrezionale: qualcosa che in Italia s’era visto soltanto nei moti di Reggio Calabria del 1970. Un popolo sulle barricate, armato solo di indignazione.

Scudi umani, i sindaci in fascia tricolore (e le loro auto, quelle dei vigili urbani, spedite a sbarrare le strade, coi lampeggianti accesi). Due giorni di follia collettiva, dopo il pestaggio notturno, fino alla paralisi della tangenziale di Torino e alla capitolazione del governo: progetto sospeso, ritirato, archiviato. Clamorosa vittoria dei palestinesi, che da quel momento cominciarono a credersi invincibili. O meglio: ritennero invincibile la forza della ragione, la sovranità democratica del cittadino, la legittimità della protesta di una comunità coesa e fasciata di tricolore.


Durò anni, l’illusione. Una speranza radicata: il governo centrale si sarebbe deciso a cestinare il dossier – poi bocciato anche da 360 tecnici universitari – per concludere che sì, avevano ragione i palestinesi della valle di Susa: quella ferrovia andava dimenticata, gettata nella spazzatura della storia. Ma le trivelle tornarono, dopo un quinquennio di silenzio. Era il 2010. La tensione emotiva era scemata, molti sindaci erano spariti – non rieletti, o semplicemente rimasti a casa, non più disposti a fare da caschi blu. Fu allora che cominciò l’accerchiamento, lento e inesorabile. Senza più i sindaci in prima fila, i NoTav erano nudi. “Siete finiti”, li avvertì cordialmente il sindaco di Torino, Chiamparino.

Risposero in quarantamila, con una marcia sotto la neve. I piani di Roma, intanto, erano cambiati: il cantiere per la prima galleria esplorativa, inizialmente programmato nel prato poi “espugnato” a Venaus nel 2005, sarebbe stato reimpiantato a Chiomonte, sopra le gole della Dora Riparia, in posizione militarmente difendibile. I NoTav risposero asserragliandosi proprio lì, tra le loro Termopili. Nacque la Libera Repubblica della Maddalena, il villaggio di Asterix attrezzato – con barricate – per tentare di resistere all’esercito imperiale. I reparti antisommossa, duemila uomini, si presentarono puntuali all’alba del 27 giugno 2011. Agirono con calma, minimizzando la loro forza d’urto. In cabina di regia il ministro Maroni e il capo della polizia Manganelli. Niente più cariche, solo lacrimogeni.


Ci rimasero malissimo, i palestinesi: avevano sperato di ripetere il “miracolo” del 2005, quand’erano riusciti – sciamando in 80.000 attraverso i boschi – a sfrattare la polizia da Venaus. Una settimana dopo lo sgombero della “Libera Repubblica”, il 3 luglio 2011 tentarono di riprendersi Chiomonte. Erano in centomila: un corteo lungo chilometri. Pullman da tutta Italia, decine di migliaia di valsusini. E anche giovani dei centri sociali: quelli che poi, nel pomeriggio, avrebbero contribuito a trasformare la protesta in guerriglia.“Volevano il morto”, dichiarò Maroni. Bilancio ufficiale: 200 feriti per parte. E fine di una lunga, gloriosa anomalia: la lotta popolare esclusivamente nonviolenta, nata e cresciuta in mezzo ai monti, che tanto aveva spaventato la politica.

Inammissibile che una comunità di sessantamila valligiani riuscisse a fermare le ruspe. Intollerabile, che lo facesse in modo pacifico. Inaccettabile, che imponesse al governo di lasciarsi ascoltare, e lo costringesse a prender nota del fatto che, secondo tutti gli esperti, la linea Tav Torino-Lione era (ed è) una pazzia completamente inutile, destinata a pesare per decine di miliardi sul debito pubblico dopo aver reso invivibile il territorio, cioè i 50 chilometri che separano Torino dalla Francia. Rocce piene di amianto, montagne dove l’Agip scavò decine di gallerie per estrarre l’uranio al tempo del nucleare italiano. Falde acquifere a rischio, salute in pericolo e addio agricoltura. Dissesto idrogeologico irrimediabile, apocalisse urbanistica, catastrofe idrica incombente sulla stessa area metropolitana torinese. Ma perché, di grazia? A beneficio di chi?

“Diteci almeno a cosa servirebbe, tutto questo”. Domanda rimasta sempre inevasa. 

Lo vuole l’Europa, c’è un impegno con la Francia. Davvero? Sì e no. L’Europa ha cambiato idea: ha archiviato l’originaria, fantascientifica direttrice Kiev-Lisbona, di cui la Torino-Lione sarebbe stata il passante alpino. Quanto alla Francia, varie istituzioni parigine hanno via via intiepidito la loro posizione. Analoga retromarcia tattica dal governo Renzi: è vero, la nuova linea costa troppo; meglio limitarsi al solo traforo, facendo poi passare i treni sull’attuale linea (perfettamente idonea, dunque – percorsa, già oggi, dal Tgv francese). Nel frattempo, sui NoTav si è scatenata una campagna di demonizzazione parossistica, da parte della politica istituzionale e dei grandi media. E il movimento valsusino, senza più la tutela diretta dei sindaci, ha fatto miracoli per arginare il pericolo di infiltrazioni da parte delle frange virtualmente violente (un conto è gestire un corteo, un altro controllare manifestanti in ordine sparso, nei boschi). 

Anni durissimi, rischiosi, in bilico, ma durante i quali – nonostante tutto – la resistenza dei palestinesi ha conquistato piena cittadinanza in larghi strati del paese, anche grazie al generoso impegno di opinion leader di prima grandezza, scrittori e artisti, cantanti, giuristi, intellettuali. Senza con questo riuscire minimamente a scalfire il muro di omertoso silenzio che ancora protegge, misteriosamente, il progetto della grande opera: un dogma marmoreo, quasi mistico, che sembra imposto da una religione sconosciuta, alla quale gli stessi politici (ministri, premier) appaiono sottomessi.


C’è altro, poi, che i valsusini sanno e gli altri italiani per lo più ignorano. E’ una storia complicata, tra loro e il governo. Una storia tormentata e opaca, per molti aspetti, che risale addirittura alla Liberazione, quando molti partigiani – in maggioranza comunisti – rifiutarono di consegnare le armi agli alleati, per poi tirarle fuori, occupando fabbriche, in risposta all’attentato a Togliatti. Ha radici antiche, il ribellismo della valle di Susa, industriale e operaia già alla fine dell’800. Dopo il Sessantotto, mentre i padri issavano bandiere rosse sui cotonifici, decine di figli cedettero alla tentazione della lotta armata.

La valle di Susa è stata l’unica area non metropolitana, in tutta Italia, ad allevare una colonna di terroristi, arruolati tra le file di Prima Linea. Poi vennero gli anni ’80, con l’autostrada del Fréjus che la valle non voleva. Le solite mazzette e, a seguire, la relativa Tangentopoli, con arresti eccellenti, mentre la commissione parlamentare antimafia denunciava il radicamento della ‘ndrangheta nell’alta valle, il paradiso sciistico che a Sestriere avrebbe ospitato i Mondiali di sci e poi le Olimpiadi Invernali. Quello di Bardonecchia è stato il primo Consiglio comunale italiano, a nord del Po, a essere disciolto per mafia.

L’onorata società tornò agli onori della cronaca in valle di Susa poco dopo gli attentati siciliani costati la vita a Falcone e Borsellino, quando la magistratura di Torino scoprì che erano finite a una cosca calabrese le pistole uscite illegalmente, a centinaia, da un’armeria di Susa. Chi avrebbe dovuto vigilare non l’aveva fatto: emerse l’ombra dei servizi segreti. Gli inquirenti avevano scoperto il traffico di armi grazie a un pentito della ‘ndrangheta, che smise di parlare (di colpo) dopo che gli fu ucciso il fratello, proprio in valle di Susa, da un ex agente del Sismi, reo confesso. Uno stillicidio di notizie inquietanti, che il valsusino medio – non ancora palestinese – apprendeva con sgomento, a metà degli anni ’90. A seguire, cominciarono a esplodere bombe: una dozzina di attentati dinamitardi, notturni e devastanti ma tutti incruenti, colpirono le prime trivelle del futuro Tav ma anche centraline Enel, tralicci telefonici, ripetitori televisivi. I giornali, in coro, parlarono di eco-terrorismo anarco-insurrezionalista.

Comparve una sigla, “Lupi Grigi”, con rivendicazioni deliranti contro le grandi opere. Finirono in manette tre giovani anarchici, due dei quali (“Sole e Baleno”) poi trovati morti in stato di detenzione, impiccati. L’accusa: banda armata e associazione sovversiva. Lui, Edoardo Massari, un anarchico piemontese. Lei, Maria Soledad Rosas, argentina, giovanissima, venuta in Europa in vacanza premio, dopo il liceo, e poi rimasta in Italia perché innamoratasi del suo “Edo”. Il pm annunciò di avere “prove granitiche”, contro di loro. Salvo poi ammettere il tragico errore, fuori tempo massimo. Scagionati post mortem, alla fine del processo: non erano stati quei ragazzi, a far saltare in aria mezza valle di Susa. Chi, allora?


Aveva in testa anche questi pensieri, il valsusino medio (mediamente colto e informato, mediamente scettico) quando cominciò a diventare un po’ palestinese, trascinando la famiglia nei prati di Venaus dove, nel 2005, si era accampata la polizia, spedita lassù da un governo che sosteneva fosse fondamentale far passare proprio di lì, spianando l’intera vallata, la famosa super-ferrovia miliardaria destinata a collegare il Portogallo all’Ucraina. Non può essere, si dicevano i valligiani: avranno capito male, a Roma. E così studiarono, si documentarono, mobilitarono i migliori specialisti.

Non sta né in cielo né in terra, conclusero: è un’opera faraonica e devastante, tragicamente inutile. Ne parlavano anche coi poliziotti infreddoliti, inviati a Venaus a presidiare il prato prescelto per accogliere il primo cantiere. Dai NoTav, una protesta formato famiglia: bambini, polenta, bicchieri di tè caldo offerti agli stessi agenti – non quelli che li avrebbero sgomberati (per l’operazione, il reparto presidiario fu avvicendato). Gli incursori notturni colpirono alla cieca, travolgendo tende e sacchi a pelo. Una gradine di manganellate, al buio. Le ambulanze, le urla, i feriti. L’inizio della saga, già l’indomani: i valsusini, a migliaia, nelle strade. La circolazione paralizzata, i treni fermi. Il ministro dell’interno, Pisanu, scomparso dai radar. Imbarazzo, fra i palazzi romani. I palestinesi in rivolta ospitati per la prima volta in televisione, da Gad Lerner, per poi ricevere i primi rumorosi endorsement a reti unificate: Beppe Grillo, Dario Fo. E quei benedetti sindaci, avvolti nel tricolore, a ripetere che la legalità comincia dal rispetto del cittadino, democraticamente sovrano e tutelato da diritti costituzionali.


Era solo il 2005, ma sembrano passati cent’anni. Le famiglie di allora avevano una luce particolare, negli occhi. La crisi era ancora lontana. C’era lavoro per tutti, i negozi non avevano ancora cominciato a chiudere, uffici e fabbriche funzionavano. 

All’ora dell’aperitivo i bar tracimavano di giovani – tutti palestinesi, naturalmente, tra svolazzi di bandiere NoTav. Un clima festoso, di fiducia. “Capiranno, a Roma. Si decideranno a ragionare”. I valsusini: riscopertisi comunità, proprio grazie allo scampato pericolo. Idee politiche forse rudimentali, antiche: la destra, la sinistra. A dire il vero, nella valle ribelle non s’era visto nessuno dei big: tutti spariti, i grandi partiti. La parte del cattivo era toccata a Berlusconi, ma poi Prodi (frenato dai ministri filo-valsusini Paolo Ferrero e Alfonso Pecoraro Scanio) non aveva comunque mai mostrato entusiasmo, per il fervore democratico dei palestinesi garibaldini, alle prese con quello strano risorgimento alpino, montanaro, periferico ma non provinciale. 

E’ come se si fosse laureato honoris causa, il valsusino medio, in questi anni grami: si è probabilmente conquistato il suo diploma di cittadino di prima classe, quanto a consapevolezza, mentre buona parte dell’Italia dormiva ancora sugli allori, prima di essere svegliata nel peggiore dei modi dal professor Monti, dalla professoressa Fornero.

Si racconta che dal massiccio dell’Ambin, nel quale si è andato scavando il dannato tunnel esplorativo, sia disceso Annibale coi suoi elefanti. In direzione opposta avanzò Giulio Cesare alla conquista delle Gallie, facendo base a Susa, dove poi l’imperatore Costantino assediò Massenzio. Poco più a valle, Carlomagno sbaragliò i Longobardi manzoniani di Adelchi e Desiderio per poter fondare il Sacro Romano Impero, il cui erede Barbarossa mise a soqquadro Susa. Napoleone aprì la strada del Moncenisio, Cavour fece scavare il traforo del Fréjus. Quasi ogni sasso, in valle di Susa, ha molti secoli da raccontare, all’ombra dell’imponente Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte, eretto prima dell’anno Mille. Sul versante opposto, da una roccia emerge il Giove Dolicheno, scolpito dai soldati mediorientali arruolati da Roma nella Legione Siriana, di stanza nella valle conquistata dai Cesari.

I valsusini amano le loro montagne, le frequentano con devozione. Le guardano diventare rosse, e poi viola, quando il tramonto illanguidisce nel crepuscolo lungo la cordigliera transalpina, dalla piramide del Rocciamelone alla mole nevosa del Niblè. 

Prima di altri, a loro spese, hanno imparato che il nuovo impero ha un’unica legge davvero sacra, quella dei soldi. A loro modo, da palestinesi, sono stati tra gli ultimi difensori di una repubblica di cui tutti gli italiani, oggi, hanno nostalgia.


Avendo vissuto in prima linea alcuni di questi eventi (soprattutto quelli "lacrimogeni" in Val di Susa), ho condiviso con piacere e grande emozione questo articolo ..
Catherine

1 commento:

  1. Le cose sono semplici.
    Il traffico ferroviario in quelle linee non è tale da giustificare l'alta velocità, non ci sono suffucienti persone in viaggio, come sarà chiaro quando la TAV sarà attiva.

    L'unico vero motivo sono come sempre i soldi, dietro ci sono le banche, comandano loro, il governo esegue. Tutto qui, a meno di una sollevazione di massa ogni resistenza è inutile.

    Per cui vista l'inutilità delle proteste meglio non andare a prendersi le botte, non è indifferenza ma realismo.

    Gianni

    RispondiElimina

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.