lunedì 25 novembre 2013

La salute non si compra, si fa insieme

 Paolo Cacciari

L’iperspecializzazione della medicina e il suo matrimonio con il dio profitto hanno favorito non solo il business di poche grandi multinazionali farmaceutiche ma anche la creazione di nuove categorie di malattie, l’intossicazione da farmaci e la perdita della capacità di ciascun individuo di prendersi cura di se stesso, di badare alle proprie fragilità e ripensare i propri stili di vita.
Eppure, è accertato da tutti gli studi sul campo che i fattori ambientali e sociali influiscono in modo preponderante sulla qualità della salute, i tassi stessi di mortalità sono correlati ai redditi, le capacità di cura e di guarigione di una persona dipendono in larga misura dalla sua condizione di vita e dai supporti familiari e comunitari. Per questo, per dirla con Ivan Illich, l’obiettivo resta smascherare l’idea che la salute sia qualche cosa che si compra e non che si fa.

L’amministratore delegato di una nota casa farmaceutica, Henry Gadsen della Merck, più di trent’anni fa, dichiarò alla rivista Fortune: “Il nostro sogno è produrre medicine per le persone sane. Questo ci permetterebbe di vendere a chiunque”. Guardando l’andamento della spesa per farmaci nei paesi Ocse, aumentata di 17 volte dal 1980 ad oggi, possiamo senz’altro confermare che il paradossale auspicio, condiviso dalle major del medicinale, è diventato realtà. Come le Big-farm ci sono riuscite? Lo hanno bene spiegato molti medici, epidemiologici, attivisti dei movimenti di difesa della salute e dei diritti del malato chiamati dal Movimento per la Decrescita Felice ad un convegno organizzato presso la Camera dei Deputati, presenti esponenti del Pd, del Movimento 5 stelle e di Sel.

Molti di essi torneranno a riunirsi a fine novembre (il 29 e 30 alla sala del Piccolo Regio, in Piazza Castello a Torino) al secondo Congresso nazionale di Slow Medicine, un movimento che si batte per una medicina “sobria, rispettosa e giusta” ...




Antonio Bonaldi, direttore di una azienda ospedaliera di Monza e presidente di Slow Medicine, pensa siano state tre le mosse “vincenti” che hanno potuto trasformare una giusta domanda di salute in un florido business che solo in Italia vale 25 miliardi di euro: l’individuazione precoce di malattie che altrimenti sarebbero rimaste silenti, attraverso la proliferazione della diagnostica (da non confondersi con le pratiche preventive appropriate); la creazione a tavolino di nuove patologie; il costante abbassamento delle soglie di normalità di molti parametri biologici (ipertensione, glicemia, colesterolo, ecc.). Questo complesso di azioni di marketing e di protocollazione terapeutica viene chiamato disease mongering, creazione e mercificazione della malattia. Non è una novità. Già Ivan Illich, uno dei pensatori che hanno più ispirato gli attuali gruppi che contestano consumismo, sprechi e crescita economica fine a se stessa, in una delle sue principali opere, Nemesi Medica. L’espropriazione della salute. La paradossale nocività di un sistema medico che non conosce limiti, scritta nel 1976 (riedito qualche anno fa da Boroli), metteva in guardia dal cattivo uso delle conquiste scientifiche, dal “potere malefico”, e da una medicina ipertecnologizzata e iperspecializzata che tende a “medicalizzare la vita” e ad inserire le persone in percorsi di “terapia totale”: dalle diagnosi prenatali ai prelievi post mortem, dalle disfunzioni erettili alla menopausa, dalla tristezza all’obesità…

Il dottor Knock

Le conseguenze inevitabili sono state la creazione di nuove categorie di malattie e di pazienti, l’intossicazione farmaceutica e, cosa più pericolosa di tutte, la perdita della capacità di ciascun individuo di prendersi cura di se stesso, di badare alle proprie fragilità e vulnerabilità e di controllare i propri comportamenti e stili di vita. Sono così cresciuti nel tempo la regolazione eteronoma dell’omeostasi dell’organismo umano e il potere degli apparati medico-sanitari. Anche qui niente di nuovo. Una acuta opera teatrale di Jules Romains, scritta nel 1933 , Il dottor. Knock, ovvero il trionfo della medicina (ne esiste una versione cinematografica), narra di come un medico in combutta col farmacista del paese riesca a convincere la popolazione di “essere malata senza saperlo”. Oggi gli screening si fanno in piazza promossi dalle stesse industrie che producono i rimedi e i check-up si vendono on-line sui siti di e-commerce. Provare per credere! Una clinica privata del Veneto promuove in internet “sette ecografie e un esame specifico alla prostata a 49 euro”. Un altro ambulatorio vende un pacchetto di “10 ecografie per sole 69 euro”. Una clinica di Spresiano offre una “miniliposuzione a 299 euro” e una “mastoplastica additiva bilaterale a 449 euro”.

Secondo alcuni studi scientifici (Nejem, 2007), il 33 per cento delle Tac non sono clinicamente giustificate e le irradiazioni provocano l’1,5-2 per cento dei tumori. Ricerche pubblicate da una importante rivista medica (Bmj, 2012) affermano che i check-up non riducono la mortalità, non prevengono le malattie, non evitano ricoveri, disabilità e nemmeno le ansie. Intrapresa la via della aziendalizzazione, non c’è da stupirsi se anche la sanità diventa preda del mercato delle prestazioni calcolate sugli standard Drg (Diagnosis Related Groups) inventati e imposti dalle assicurazioni. La finanziarizzazione dell’economia trova un alimento non secondario negli ospedali costruiti in project financing, un sistema che consente di far guadagnare le banche e i costruttori attraverso la gestione esternalizzata dei servizi interni e diagnostici.

La partecipazione del paziente

Giovanni Peronato, della associazione “No grazie, pago io”, Giulia Mannella del “Tribunale dei diritti dell’ammalato”, Paolo Roberti di Sarsina dell’“Associazione per la medicina centrata sulla persona” e altri intervenuti al convegno del Movimento per la decrescita, hanno denunciato i comportamenti medici debilitanti la volontà del paziente e quindi deresponsabilizzanti. Tutto il contrario della tanto decantata “libera scelta informata”, difficile da realizzare in un sistema di poteri molto asimmetrico. L’obiettivo della consapevole partecipazione del paziente alle scelte terapeutiche diventa una chimera se consideriamo anche il contesto culturale delle “società opulente” in cui è radicata “l’idea che la salute sia qualche cosa che si compra e non che si fa”- ancora Illich. In altre parole, è passata la convinzione che il benessere psicofisico delle persone dipenda dalla disponibilità di denaro spendibile sui mercati della “health wellbeing” (cliniche, farmaci, integratori alimentari, centri fitness, ecc. ecc.) più che dalla salubrità degli abituali ambienti di vita e di lavoro. Ciò che il sistema medico-sanitario istituzionalizzato tende infatti ad occultare sono proprio i determinanti non biologici delle malattie, le variabili sociali.

La rivista scientifica Jama ha pubblicato un articolo – Stephen M: bridging the divide between health and health care, 2013 – che afferma: “La medicina si comporta come se tutte le malattie avessero una causa biologica e fossero trattabili con farmaci e chirurgia. (…) I servizi sanitari spiegano solo il 10 per cento della mortalità prevenibile. Il rimanente 90 per cento è associata a stili di vita, fattori ambientali, sociali e culturali, predisposizione genetica e … caso”. Per essere più precisi, come ha spiegato Chiara Bodini, medico specialista delle malattie infettive del centro di Salute Internazionale dell’Università di Bologna e del “Movimento per la salute dei popoli”, bisognerebbe parlare di “determinazione della salute da parte degli interessi sociali costituiti”. E’ accertato in modo incontrovertibile da tutti gli studi sul campo che i fattori ambientali e sociali influiscono in modo preponderante sulla qualità della salute. I tassi stessi di mortalità sono correlati ai redditi. E, comunque, le capacità di cura e di guarigione di una persona dipendono in larga misura dalla sua condizione di vita e dai supporti familiari e comunitari che si trovano a lei più vicini. Fulvio Aurora diMedicina Democratica ha ricordato quanto incidano ancora le “malattie professionali” e quanto l’esposizione a fattori di rischio sia profondamente ingiusta e classista provocando “diseguaglianze di salute”. Giovanni Ghirga, pediatra dell’Isde (Medici per l’ambiente), ha ancora una volta richiamato l’attenzione sulla vera e propria catastrofe ambientale lenta provocata dal peggioramento dell’inquinamento atmosferico dovuto alle particelle ultrasottili inalabili. Non serve andare in Cina per trovare la brown cloud che provoca sempre più frequenti e gravi affezioni respiratorie in particolare nei bambini; l’aria che si respira nella Pianura Padana è la peggiore d’Europa. Proprio in questi giorni la Società Italiana di Medicina Interna ha calcolato che se si riuscisse a dimezzare le emissioni gassose inquinanti vi sarebbero almeno sei mila morti attesi in meno all’anno e si registrerebbe un risparmio di 10 miliardi di euro di spese sanitarie.

Il tempo delle depressioni e delle patologie neuropsichiatriche

A tutto ciò si deve aggiungere la spettacolare esplosione dei disagi e delle sofferenze psichiche. Una vera pandemia. Conseguenza inevitabile di una società caratterizzata dall’insicurezza e dalla precarietà che producono ansie, stress da competitività, angosce esistenziali, perdita di autostima, distruzione delle normali relazioni umane. “Per avere una mente sana – hanno scritto gli epidemiologi Wilkinson e Picket in La misura dell’anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici – bisogna apprezzare e accettare se stessi”. Depressioni e patologie neuropsichiatriche sono le nuove malattie sociali della contemporaneità. Robert Whitaker, autore di Indagine su una epidemia, calcola che negli Stati uniti il 46 per cento della popolazione soffra di disturbi psichici e spende 25 miliardi di dollari all’anno per antidepressivi, antipsicotici, sonniferi vari. La cifra si moltiplica per quattro se includiamo anche le cure mediche dovute ai disturbi mentali. La promessa della farmacologia è quella di raggiungere uno stato di benessere artificiale alternando stimolanti (comprese le droghe) e sedativi (tranquillanti).

Medicalizzazione, farmacizzazione e psichiatrizzazione dei disagi e dei comportamenti fuori norma sono le uniche risposte che il sistema sanitario sembra saper fornire. Accade così che il nuovo manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali statunitense ampli a dismisura la diagnosi del “disordine da deficit dell’attenzione e iperattività” dei bambini irrequieti, trasformi il normale dolore da lutto in “disturbi depressivi maggiori”, la timidezza in una manifestazione di ansia fobica sociale e consideri il carattere stizzoso di una persona come sintomo della “disgregazione distruttiva dell’umore” (vedi il bell’articolo di Claudio Benatti, Troppa medicina in Terra Nuova di ottobre). Proseguendo su questo crinale, la prossima tappa sarà l’eugenetica performante i corpi e le menti. I brevetti per giocare col genoma umano sono già stati concessi. I peggiori incubi di Aldous Huxley sono alla portata dei laboratori di biogenetica.

La salute non si delega

A meno che non si trovino le forze interiori, morali e civiche, per invertire la rotta considerando la promozione della salute non come una azione delegabile agli specialisti dell’industria farmaceutica e della cura medica standardizzata, ma come un obiettivo cui si fa carico la società nel suo insieme, riducendo l’esposizione degli individui ai fattori di rischio, migliorando le condizioni igieniche e le capacità nutrizionali della popolazione, aumentando il benessere percepito e le competenze delle persone e delle famiglie nel risolvere per proprio conto i bisogni di salute.

Sono questi, in fin dei conti, i fattori principali che hanno permesso di allungare l’aspettativa di vita, più degli stessi antibiotici, della chirurgia e delle raffinatissime tecniche rianimatorie – come ha documentato Pier Paolo Dal Monte, dell’“Associazione italiana per la bioetica chirurgica”. “Una società è tanto più sana quanto meno deve ricorrere ai servizi sanitari, ha fatto eco Eduardo Missoni, docente, dell’“Osservatorio italiano della salute globale”. In definitiva bisognerebbe pensare alla “salute come bene condiviso”, ha detto Roberto Beneduce dell’Associazione Frantz Fanon, non come una merce e quindi sottratto alle logiche del mercato. Al giovane medico Jean-Louis Aillon e a Maurizio Pallante, rispettivamente vice e presidente del Movimento per la Decrescita Felice, il merito di aver portato a domicilio dei parlamentari un argomento dirimente non tanto e solo per le casse pubbliche, in tempi di crisi fiscale dello stato, ma per la qualità dell’esistenza delle donne e degli uomini di questo paese.

Paolo Cacciari (paolo.cacciari_49@libero.it) ha lavorato all’Unità ed è stato più di un semplice collaboratore del settimanale Carta. Consigliere comunale e assessore a Venezia per vari periodi, attualmente collabora con la Rete per la Decrescita con cui è stato tra gli organizzatori della terzaconferenza internazionale sulla decrescita (Venezia, 2012). Tra le sue pubblicazioni Pensare la decrescita. Sostenibilità ed equità, Carta e Intra Moenia, 2006. Il comune non pensa solo all’immondizia, in: Cambieresti? La sfida di mille famiglie alla società dei consumi, i libri dell’Altreconomia, 2006. Decrescita o barbarie, Carta, 2008, ora disponibile gratuitamente sudecrescita.it, e con altri La società dei beni comuni, Ediesse, 2011. Altri articoli di Paolo Cacciari presenti nell’archivio di Comune sono QUI.

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4 commenti:

  1. Il nostro sogno è produrre medicine per le persone sane, chi fà una simile ammissione andrebbe deportato a vita in un gulag in siberia per crimini contro l'umanità, vengono inventate malattie ogni giorno dall'ortoressia all' ADHD per non parlare di quella vergognosa che riconosce il dolore da perdita come disturbo mentale, bisogna ribellarsi a queste cose reimparando che l'organismo ha la potenzialità di autoguarigione, ad affidarci alle vecchie cure della nonna, alle erbe officinali ma in questo vedo un cambiamento positivo per farti un esempio il mio parrucchiere ha iniziato ad usare erbe officinali, argilla per la cura dei capelli e non è poco.

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    1. Grazie Zac, concordo su tutto, e personalmente mi tengo alla larga da medici e medicinali, e non è di certo il MIO sogno... ;)

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  2. Tutto è in funzione di quanto entra in tasca! Il mito del Benessere non è condiviso nello stesso modo dalla popolazione come dalle aziende sanitarie e farmaceutiche: il guadagno non sempre coincide rispetto al mantenimento della salute.

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  3. Diciamo le cose come stanno .. E' una semplice e disgustosa forma di lucro, ci vogliono ammalati e sempre pronti a pagare per avere l'illusione di essere curati.

    "La salute non rende: è la malattia che dà sostentamento ad una massa sconfinata di persone"
    Franco Libero Manco

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