Quante volte ci capita qualcosa di incredibile – una coincidenza che ci fa venire la pelle d’oca, una persona incontrata "per caso" che cambia tutto – e ci fermiamo a pensare: è solo fortuna? O c’era qualcosa di più, sotto la superficie? C’è chi lo chiama destino, chi sincronicità, chi parla di connessioni sottili in un universo in cui ogni cosa è legata a un’altra.
A seconda di dove siamo cresciuti, di ciò in cui crediamo, il concetto di “caso” può cambiare parecchio. Alcune tradizioni spirituali ci dicono che nulla accade per caso, che tutto ha un motivo, anche se spesso ci sfugge...
Altre visioni, invece, abbracciano l’idea che l’universo sia libero, imprevedibile, e che il caso sia semplicemente il suo modo di ricordarci che non possiamo controllare tutto.
Ma poi c’è la nostra esperienza, quella quotidiana. Quando ci capita qualcosa di bello, ci piace pensare che fosse scritto, che fosse destino. Ci dà conforto. Ma quando invece ci succede qualcosa di difficile, di ingiusto, siamo altrettanto pronti ad accettarlo come parte di un disegno più grande? O preferiamo attribuirlo al caso, per proteggerci, per non dover cercare un senso dove magari non c’è?
Forse il punto non è tanto scoprire se esiste o meno il caso.
Forse la vera questione è: che significato diamo a ciò che ci accade?
Perché a volte il senso non sta negli eventi in sé, ma nello sguardo con cui li guardiamo.
Se tutto è connesso, allora ogni gesto, ogni parola, ogni incontro ha un peso, una risonanza che va oltre ciò che vediamo. Ma se invece è tutto casuale, allora possiamo lasciarci sorprendere dall'imprevedibilità della vita.
E se fosse entrambe le cose? Se caso e connessione non si escludessero a vicenda, ma convivessero come due facce della stessa esperienza umana?
Fonte: www.riflessioni.it


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