Sulla paura della malattia e della morte si è costruita gran parte della narrazione pandemica, i bollettini trasmessi e amplificati dai mass media ci hanno aggiornati quotidianamente sul numero dei decessi che avvenivano nel Paese.
Da sempre i telegiornali hanno dato ampio spazio a morti, guerre, incidenti e calamità che, sebbene reali, venivano raccontati come eventi lontani, che ci coinvolgevano in modo limitato perché percepiti quasi come virtuali. Questa volta, invece, le morti sono state raccontate avvolte nella paura, come se il giorno dopo potessimo essere anche noi in quei numeri e questo le ha rese molto vicine e concrete.
Un aspetto assai doloroso - vergognosamente silenziato dall’informazione e dalle istituzioni - riguarda coloro che sono morti soli nelle strutture ospedaliere e nelle RSA, senza il conforto dell’accompagnamento di una persona cara e, dall'altro lato, chi non ha potuto accompagnare i propri cari né avere la possibilità di accomiatarsi e dare loro degna sepoltura.
Se da un verso tutto questo rende evidente che il potere tende ad esercitare grande pressione sul tema della morte (e potremmo chiederci come mai), dall’altro ci riconduce all’urgenza di affrontarlo e di riappropriarcene ...
Ma cosa sappiamo del processo del morire? Come avviene e perché? Cosa accade in quei momenti? E dopo? Dove andiamo? Scompariamo? O come sarà il luogo in cui andremo? Possiamo fare qualcosa perché sia più accogliente?
La cultura dominante in occidente negli ultimi secoli ci ha insegnato a considerare la morte un nemico, la fine ineluttabile che l’uomo tenta di combattere con tutte le sue forze.
Abbiamo imparato a temerla così tanto da cercare di ignorarla e l’abbiamo persino collocata fuori dalla vita. In passato, nelle case contadine c’erano molti animali e molte persone: era inevitabile che qualcuno morisse ed era perciò un’esperienza dolorosa, ma familiare a tutti.
Oggi, mentre rendiamo la morte virtualmente parte della nostra quotidianità attraverso le immagini dei telegiornali, dei film e dei social, la estromettiamo dalle nostre case e la deleghiamo agli ospedali o ai ricoveri per gli anziani, dove diventa lontana ed estranea, come se non ci riguardasse.
Eppure, secondo molte culture la morte non è la fine della vita, bensì un suo aspetto, come anche la nascita, entrambe necessarie all’evoluzione; entrambe parte del percorso che l’individuo compie e che non ha inizio né fine, ma solo movimento e trasformazione. Lo affermano la Filosofia Perenne, i Saggi e le Sacre Scritture.
Lo ha confermato prima del 1800 Lavoisier quando, studiando i principi di conservazione della massa, ha postulato che nulla si crea e nulla si distrugge, ma che tutto si trasforma.
Così anche la vita stessa assume forme diverse: appare, scompare, per poi riapparire, senza mai perdere la propria natura, come dimostrato dal ciclo della pianta o da quello dell’acqua.
Ed oggi lo conferma anche la fisica quantistica, dimostrando che tutto è energia che vibra su frequenze diverse e con velocità variabili, per effetto delle quali noi percepiamo densità differenti nelle diverse realtà.
L’uomo diventa visibile quando assume un corpo fisico, attraverso cui fa esperienza, apprendendo tutto quello che i diversi ruoli gli possono insegnare, modifica la sua struttura da neonato a vecchio ed infine cambia consistenza e aspetto. Cessa di essere manifesto nella dimensione fisica, per continuare la sua esistenza su altri piani, invisibili ai più e poi, eventualmente, tornare alla forma fisica, in futuro, secondo diverse culture.
La vita sulla Terra è manifestazione e prevede “l’immersione” nella materia che è a un tempo un privilegio, perché proprio grazie al confronto quotidiano con gli effetti della sua densità l’essere umano beneficia di costanti occasioni di apprendimento ed evoluzione, e una condanna, perché di frequente egli si cala talmente nella “lentezza” della materia, da scambiare la parte per l’intero, perdendo di vista la propria appartenenza al Tutto.
Morte e vita sono aspetti polari, ma non separati. Due facce della stessa medaglia, due aspetti dello stesso mistero. Ciascuna è resa visibile e concreta dalla presenza dell’altra che le fa da sfondo, esattamente come accade per il giorno e la notte o lo Yin e lo Yang.
La Vita, di cui per ora sperimentiamo la fase terrena, può essere allora considerata un continuum che si svolge su diversi piani della coscienza: nascita e morte segnano due importanti momenti di passaggio in questo moto trasformativo ininterrotto, del quale a seconda dei momenti si evidenzia l’aspetto manifesto, che inizia con la nascita, o quello immanifesto, che inizia con la morte.
La vita non si riferisce più, dunque, al tempo di permanenza del corpo fisico, bensì a un più ampio ciclo, riguardante quella parte profonda dell’Essere che chiamiamo Anima: la nascita e la morte segnano il tempo dell’incarnazione, cioè quello in cui l’Anima s'incarna sulla Terra per apprendere e per progredire.
Se prendessimo in considerazione questa visione, la paura della morte ne uscirebbe alquanto affievolita, mentre acquisterebbe maggior rilievo l’importanza del “come”, cioè la qualità che vogliamo imprimere al nostro vivere e morire e la necessità di prepararsi anche alla morte, proprio come ci si prepara a qualunque evento significativo della vita.
Luisa Benedetti,
Comitato nazionale psicologi per l'etica, la deontologia e le scienze umane
Fonte: sfero.me
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