venerdì 11 febbraio 2022

Le code del diavolo

di Roberto Pecchioli

Ore 20,45, esterno notte, quartiere piccolo borghese di una città italiana. Il silenzio è surreale, luci fioche nella sera invernale. Tutto è chiuso, pochissime automobili, nessun passante. In fondo alla strada, una croce illuminata di verde segnala una farmacia. Una piccola folla di forzati del tampone attende il suo turno, intabarrata negli abiti pesanti. Le mascherine non fanno distinguere i volti. Colpisce il silenzio, una strana rassegnazione, la chiusura di ciascuno in se stesso. Timore, distanziamento, fastidio? Chissà. Lontani, divisi, silenti, simili ai naufraghi dell’Eneide, rari nantes in gurgite vasto. 

Ore 8,45, esterno giorno. Dodici ore dopo, la medesima strada, stavolta animata di traffico.  Pochi passanti, due, tre, quattro code. La solita farmacia, ma anche il fornaio, la posta, la banca. Stessa gente silenziosa, stesse maschere. Unica differenza, davanti alla farmacia dirige la coda un guardiano privato. Lo conosciamo, è un buttafuori di discoteca che si guadagna la vita così per la chiusura dei locali di divertimento. Almeno è professionale, non ha la spocchia e lo sguardo felice di troppi neo-guardiani di rincalzo a cui il Covid ha offerto l’occasione di sfogare le frustrazioni. 

Ricordate il film Uomini e Caporali, la fila di cittadini con tessera alimentare e il caporale di turno, un ceffo in divisa dalle tendenze sadiche che tiranneggia Totò, un pover’uomo che sbarca il lunario facendo la coda per gli altri? ...


Altrove, sono in coda per il pane poiché al forno non possono accedere più di due avventori.

Sull’uscio di una lavanderia, una scritta con i punti esclamativi intima: entrate uno alla volta; non oltrepassate la linea. Già, siamo oltre la linea, come nel libro di Ernst Juenger. 

Davanti alla banca e alla posta si fa la fila per ritirare il proprio denaro (che non è più nostro) o per conoscere lo stato dei risparmi. 
È quasi tutta gente modesta, i ricchi vanno per appuntamento e i promotori finanziari addirittura si recano a domicilio. 
Anche le code dividono la società in classi. 

A parte qualche lite per la precedenza o per la maledetta distanza, colpisce l’innaturale silenzio delle file. Sembra svanita la naturale socialità della nostra gente, il chiacchiericcio magari banale, indice però di prossimità, di comunità, in cui vivevamo, bene o male, sino a due anni fa. 
Il Super Green pass ha trasformato troppi in occhiuti controllori autorizzati dal governo. Colpisce, in certi locali, l’imbarazzo dei titolari e, al contrario, un certo zelo compiaciuto dei commessi, salariati forse precari che esercitano le mansioni di vigilanti. Una piccola guerra civile tra poveri, la solita zuffa tra i capponi di Renzo. 

Non credevamo di assistere a spettacoli così tristi. Ci sfugge una battuta: sono le code del diavolo. Si dice, quando qualcosa va storta, che il diavolo ci ha messo la coda. Oggi quasi nessuno crede in Dio, figuriamoci nella concorrenza. Eppure, secondo Baudelaire, la massima astuzia di Berlicche è farci credere che non esiste. Il poeta dei Fiori del Male era un antimoderno furioso, inutile prestargli fede. 

Solo Mefistofele – lo spirito che sempre nega – poteva ridurci così. Un’amica commerciante ci mostra un messaggio sulle reti sociali in cui un cittadino si lagna delle code e offre la soluzione: compriamo tutto su Amazon. 

Riecco Tafazzi, il personaggio televisivo che prendeva a martellate le sue parti intime, o quel marito che per fare dispetto alla moglie se le tagliò.  Viviamo in un mondo impazzito, ci hanno cucinati a puntino. Siamo passati dal pensiero unico all’unico pensiero: io, speriamo che me la cavo, ossia che non mi contagio.

Siamo trasformati in maschere e marionette, ma gli esseri umani hanno bisogno di vedersi in viso l’uno con l’altro. Una società che ignora un imperativo così naturale come vedere il volto dell’Altro, distruggerà se stessa e le persone che la compongono. 
L’uomo mascherato cela qualcosa, non mostra la verità: è un nemico e un mentitore. 

Siamo pupi i cui fili sono tenuti dietro le quinte, i personaggi di Rosso di San Secondo: Marionette che passione. 
Tipi umani, stereotipi, marionette sconfitte assoggettate a tutti i luoghi comuni; così ci appaiono i personaggi in coda, tristi, silenziosi, in guardia, reciprocamente ostili, milioni di opposte fazioni formate da una sola persona. Nel teatro di San Secondo, la Signora dalla Volpe Azzurra, il Signore in Grigio, il Signore in lutto, la Cantante. Nelle file al tempo del virus, la Signora dalla Maschera Leopardata, il Pensionato Rissoso, l’Ansioso Impaurito, la Cittadina Informata.

In alto si fregano le mani, sguinzagliano gli sgherri, i gazzettieri di regime altoparlanti della Voce del Padrone, i buffoni di corte da festival di Sanremo, esibiti per sbeffeggiare i cretinetti che temono la puntura e le tracce di grafene nelle pozioni di Big Pharma. Tutte balle: noi sì, noi conformisti, noi che sappiamo tutto di dosi e vaccini, che facciamo il pieno di telegiornali e opinioni degli esperti, noi siamo i Giusti. 

Siamo, grazie a Dio e al governo, la maggioranza, fiera di applaudire il copione a fattura di personaggi che recitano a soggetto e tirano quattro paghe per il lesso, come i manzoniani di Giosuè Carducci. Finita la storia, da tempo non resta che la cronaca, i tempi supplementari a cui l’arbitro non si decide a porre fine. In coda, siamo figuranti rassegnati di uno spettacolo che i potenti osservano sogghignando.

Sentiamo in sottofondo la voce lenta, grave, lievemente chioccia di Franco Battiato. Povera patria, schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame che non sa cos’è il pudore. Sarà lo sguardo del pessimista, ma la sensazione che aleggia sul popolo delle file, insieme con la rassegnazione, è una cupa indifferenza. 
Pessimo atteggiamento che, oltre a lasciare spazio ai malvagi- sempre proattivi- è l’indizio sicuro del degrado, della sconfitta esistenziale, in linguaggio virale l’esaurimento degli anticorpi. 
Un popolo –la sua maggioranza- simile ai fratelli Ardengo, i protagonisti degli Indifferenti, il primo romanzo di Alberto Moravia. Loro, incapaci di provare sentimenti, incuranti del declino sociale ed economico della famiglia. 
Noi, svuotati, inerti, automi resi obbedienti dal timore.


Invece no, non tutti: si fa strada un magma indistinto, ancora difficile da valutare, sorge un’opposizione sociale in nome delle libertà naturali che fa bene al cuore. 

Nella piazza diventata passerella di spettri guardinghi, una manifestazione partecipata e civilissima ha detto no al regime pandemico, alla libertà rubata, al ricatto del green pass, primo mattone dell’identità digitale. Pazienza se due signore dall’aspetto di insegnanti in pensione invocavano la denuncia dei presenti per attentato alla salute pubblica: c’è sempre qualcuno più realista del re. Indossavano un’altra maschera, fatta di diffidenza, il rancore reciproco che serpeggia tra dialoghi surreali a tema unico intrattenuti a prudente distanza. 

Diceva Chesterton che l’uomo moderno si affanna a buttare giù ogni palizzata che incontra sulla sua strada, senza mai chiedersi perché fosse stata eretta. 
Crollata l’ultima, al tempo del virus ci affrettiamo a costruirne altre, le peggiori: palizzate di sfiducia, lontananza, paura, odio per chi non si comporta come noi, i Buoni, i Razionali, i Credenti della narrazione.

Per molti l’indifferenza è una forma di autodifesa, una corazza, la palizzata che ci separa da una realtà insopportabile. Si elaborano forme sofisticate di indifferenza, la sordità ai continui messaggi “virali” diffusi sui mezzi pubblici, alla radio, alla televisione, ovunque. 

L’indifferenza è la barricata estrema di chi non capisce più e non trova un senso, triste destino da stranieri, cioè estranei.  

Scuote l’anima non riconoscere più luoghi, persone, situazioni, sentirsi capitati in un interminabile Truman Show. 
Nessuno interrompe la rappresentazione gridando: sorridi, sei su Scherzi a parte!

Lo straniamento era il sentimento dominante di Arthur Meursault, il protagonista de Lo straniero di Albert Camus. Sotto il sole implacabile di un’Algeria nativa ma straniera, Meursault sembra come tutti, ha un lavoro che gli dà tedio, vive di abitudini costanti, ripetitive, vagamente rassicuranti. Non ha alcun moto di ribellione, nessun guizzo di cambiamento. Non ha volontà di fuga o interesse per il mondo esterno, solo una quieta accettazione unita dal desiderio di conferma nella ripetizione dei gesti, una stanca tendenza alla passività. Costeggia la vita senza viverla, come noi ci mettiamo in coda tentando di non pensare o smanettando sullo smartphone. 

Ammazziamo un tempo già morto che non vale la pena misurare. L’incipit dello Straniero è un pugno nello stomaco: Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so.

Marcello Mastroianni in una scena del film “Lo Straniero” (1967) diretto da Luchino Visconti e tratto dall’omonimo libro di Albert Camus

Meursault è infastidito dalla veglia, dal funerale sotto il caldo soffocante, non costernato per il lutto. Al tempo del virus si muore da soli, nessuno tiene la mano di chi se ne va, circondato da operatori sanitari senza volto vestiti come palombari. 

Pochi consolano chi resta: il morto è una statistica. Se aveva il virus, meglio per l’azienda sanitaria: riscuoterà un credito dal governo. 
Come non sentirsi stranieri? 

Dietro la maschera, siamo figurine tutte uguali, i pedoni degli scacchi. Tanti Meursault, indifferente anche all’amore. Conosce una donna, lei gli chiede se vuole sposarla, lui ricorda “la cosa mi era indifferente e avremmo potuto farlo se voleva”. 

Il datore di lavoro gli propone un incarico gratificante, ma lui è apatico: “Io gli ho detto di sì, ma in fondo per me era lo stesso. Allora mi ha chiesto se non mi interessava un cambiamento di vita. Ho risposto che non si cambia mai vita, che del resto tutte le vite si equivalgono”. 
Educati dall’epidemia, resi i cittadini disciplinati del Grande Reset, il nostro destino sarà l’equivalenza, milioni di vite in fila, anche “dopo”, quando ci toglieranno la maschera e molti resisteranno, vorranno tenerla, inseparabile come la coperta di Linus.  

Agli indifferenti tocca talora il destino di Meursault, che senza motivo uccide un uomo. Non è pentito e nemmeno atterrito: “si finisce per abituarsi a tutto”. In cella (il suo lockdown) è angustiato solo dalla difficoltà di passare il tempo. Appartiene alla razza indifferente allo spirito, interamente proiettata nel presente. 
Tutto ciò fa di lui un uomo assolutamente attuale, un piccolo uomo comune per il quale tutto è equivalente. Gli altri esistono solo in quanto li incontra in strada, al ristorante, al lavoro. Straniero alla società come a se stesso, non ha trascorsi, non ha ricordi, non ha oggetti o persone che lo leghino al passato. 
Meursault l’indifferente, quanto assomiglia alla post umanità che l’oligarchia dominante sta forgiando con l’ausilio dell’epidemia, ligia, silenziosa, in coda, mascherata, green pass alla mano.

Fortunatamente, gli italiani hanno tesori di ironia e fioriscono motivetti sulla nuova condizione. Ce l’hai il green pazz? Cantano Pietro Galassi e Omar Codazzi, colonne della musica da ballo, pantaloni corti e gambe a squadra come Cochi e Renato d’antan. 
“E’ proprio vero che il mondo sta cambiando, non cui ci si può neanche più dare del tu, e bisogna stare a un metro di distanza, perfino quando stai davanti alla TV. Bisognerebbe essere tutti vaccinati, o almeno da due giorni tamponati“.

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