sabato 27 giugno 2020

Quante bufale nei laboratori scientifici

In tutto il mondo vengono sempre più spesso pubblicate ricerche false o basate su esperimenti mai compiuti. Dalla medicina alla fisica. Un danno non solo d'immagine ma anche economico.

di Sandro Iannacone

Napoli, 1783. Un giovane cavaliere dell’Ordine di Malta, Giuseppe Gioeni d’Angiò, fresco di nomina a professore di zoologia all’Università di Catania, pubblica un libello in cui descrive per filo e per segno una strana specie di mollusco marino, mai vista prima.

Una trattazione accuratissima, che comprende, tra le altre cose, diverse tavole che raffigurano l’animale in tutte le sue parti, corredate da dettagliate informazioni su modo di camminare, traccia lasciata sulla sabbia e resistenza del guscio.

È una scoperta importante, tanto da guadagnarsi una menzione nell’Encyclopédie francese. Dal canto suo, l’autore non reclama che il diritto di battezzare la specie con il nome di Gioenia sicula, così da perpetuare il ricordo della sua famiglia.

C’è un piccolo particolare, però: l’animale non esiste. 
L’accademico - ci vorranno sedici anni per scoprirlo - ha inventato tutto di sana pianta, assemblando parti anatomiche di molluschi esistenti per inventare una creatura di fantasia nel tentativo di sbalordire i colleghi e guadagnare fama e carriera ...


Quella di Gioeni - alla cui memoria, per inciso, è tuttora intitolata una prestigiosa accademia catanese - non è che una goccia nel mare magnum delle frodi scientifiche. Una storia lunga secoli, costellata di osservazioni inventate, dati taroccati, esperimenti mai eseguiti. Che sta nuocendo gravemente all’immagine pubblica della scienza, stando a quanto documentato da Enrico Bucci, ricercatore e fondatore di Biodigitalvalley, nel saggio “Cattivi scienziati” (Add editore, da poco uscito in libreria). Un volume «che non parla di scienziati e di Scienza, ma che è una manifestazione dell’amore per la Scienza», come spiega nella prefazione Elena Cattaneo, professore ordinario all’Università di Milano e senatore a vita.

Tra i tanti casi di frodi scientifiche raccolti da Bucci, ce n’è di particolarmente curiosi.

Il pronipote più illustre - si fa per dire - di Gioeni d’Angiò è il dottor Yoshitaka Fujii, della Toho University di Tokyo. Fujii è l’attuale detentore del triste primato di maggior numero di articoli scientifici ritirati perché rivelatisi fasulli. Su 212 paper pubblicati dall’ormai ex docente di anestesia tra il 1993 e il 2011, come raccontano gli esperti di Retraction Watch, l’associazione che effettua il monitoraggio delle frodi scientifiche, sono ben 172 quelli che contenevano dati palesemente falsificati, ottenuti da esperimenti non replicabili o addirittura mai eseguiti. Alla base della truffa, una strategia ben precisa e accuratamente pianificata, che ha consentito allo scienziato giapponese di farla franca per quasi dieci anni: «Il dottor Fujii, anzitutto», spiega Bucci a “l’Espresso”, «pubblicava ricerche in un ambito molto ristretto e particolare, l’uso di specifici farmaci post-anestetici, di interesse per pochi medici.
E sceglieva sempre riviste poco conosciute, in modo da mantenere un basso profilo e rimanere nell’ombra». Una tecnica che ha dato i suoi frutti: puntando sulla quantità anziché sulla qualità delle proprie pubblicazioni, Fujii è riuscito, prima di essere smascherato, a superare i propri colleghi e fare carriera nell’ateneo.

La storia delle frodi, naturalmente, non si esaurisce nei soli campi della medicina e delle scienze naturali.

Anche la fisica non è immune alle patacche: un altro caso esemplare, per esempio, è quello di Jan Hendrik Schön, giovane e promettente ricercatore ai Bell Labs degli Stati Uniti. Tra il 2000 e il 2001, Schön pubblicò ben sedici lavori nel campo dei semiconduttori organici sulle pagine delle prestigiosissime riviste “Nature” e “Science”. Il ricercatore scelse una strategia diametralmente opposta rispetto a quella di Fujii: i suoi articoli avevano un enorme peso scientifico nel settore e, se confermati, avrebbero rivoluzionato l’intera industria elettronica. Per l’appunto: se confermati. Dopo un’accoglienza entusiasta - allo scienziato fu addirittura proposta la direzione di uno dei Max Planck Institut tedeschi - una coppia di colleghi che non riusciva a replicare i risultati chiese a Schön i dati originali degli esperimenti.

Il ricercatore disse di averli persi per colpa di un problema del suo computer. Superato l’imbarazzo iniziale, fu chiaro a tutti che i dati del tedesco erano del tutto fasulli. Gli articoli furono ritirati dalle riviste e a Schön fu revocato con disdoro il titolo di dottore di ricerca in fisica.

Il dato più preoccupante è che il mondo della scienza, oggi, brulica di Fujii e Schön. Per quanto i modus operandi degli scienziati furbetti di tutto il mondo siano abbastanza eterogenei e variegati, secondo Bucci esistono delle caratteristiche psicologiche comuni: «Anzitutto, naturalmente, il narcisismo», spiega, «e il desiderio di affermazione nella comunità scientifica.

Ma anche un’incrollabile certezza nelle proprie convinzioni: il cattivo scienziato pensa che, se l’esperimento che lui ha falsificato o mai eseguito fosse effettivamente svolto, darebbe risultati simili a quelli che lui afferma di aver ottenuto».
Un peccato tutt’altro che veniale, che, oltre a violare i dettami del metodo scientifico galileiano (sperimentare sempre, e far in modo che i propri esperimenti siano replicabili), è viziato da un evidente atto di malafede: manipolare scientemente un dato sperimentale per beneficiarne all’interno della propria comunità professionale e sopravanzare i colleghi onesti.



Il fenomeno è in netta ascesa

Uno studio apparso nel 2011 proprio su “Nature” afferma che il numero di articoli prima pubblicati e poi ritirati dalle riviste scientifiche è decuplicato in meno di un decennio. 

Quattro anni fa si pubblicavano circa 27 mila articoli a settimana: 200 di essi, in media, subivano un’“ammonizione” per sospetta falsificazione dei dati; cinque o sei venivano definitivamente messi all’indice.

Oggi, probabilmente, sono parecchi di più, anche se, ricorda Bucci, non è semplice quantificare con esattezza il fenomeno, dal momento che non esiste un database pubblico e accessibile che elenchi le pubblicazioni ritrattate. Una stima minima, ottenuta interrogando Web of Science, la più grande banca dati di lavori scientifici, fornisce il dato di 8.987 articoli ritirati (a metà aprile 2015), per un totale di circa 20 mila autori ufficialmente coinvolti in almeno un caso di frode scientifica. Stime che potrebbero essere addirittura molto lontane dai numeri reali: Daniele Fanelli, ricercatore alla Stanford University e membro della Commissione Etica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha esaminato molti studi sull’argomento. Dalla sua analisi emerge che, quando è richiesto di riferire in forma anonima se avessero mai fabbricato o falsificato dati, due ricercatori su cento hanno risposto affermativamente, il che aumenta la stima a 180 mila persone.
Una frazione piuttosto considerevole dei circa 9 milioni di ricercatori attivi al mondo.

Il danno, oltre che di immagine, è di natura economica: frodi e contraffazioni in camice bianco alimentano quella che Enrico Bucci non esita a definire «un’economia criminale». Quantificarne il bilancio non è semplice. Un punto di partenza è l’analisi degli enti che finanziano i lavori di ricerca, citati alla fine di ogni articolo scientifico. Ferric Fang, dell’Università di Washington, ha per esempio provato a tracciare i finanziamenti del National Istitute Health (Nih) statunitense, stimando che ogni singolo articolo fraudolento costa alla comunità poco meno di 400 mila dollari.

Bucci è andato oltre. «Considerando gli articoli manipolati anziché quelli ritrattati (cioè il totale delle frodi, anziché quelle solo scoperte), si arriva a stimare una perdita pari al 2,5 per cento del budget totale destinato alla ricerca, che cresce fino a circa l’8,7 per cento considerando il limite superiore misurato per le manipolazioni di immagini (11 per cento degli articoli)». Niente male.


Quello delle frodi scientifiche, comunque, è un fenomeno molto complesso. 

E attribuirne l’unica responsabilità al narcisismo o alla sete di potere degli scienziati rappresenterebbe una semplificazione eccessiva. È l’intero meccanismo di selezione e promozione dei ricercatori, assieme al business dell’editoria scientifica, a scricchiolare. «L’unica moneta che conta, oggi», prosegue Bucci, «è il numero di pubblicazioni, le citazioni ottenute e il prestigio della riviste scientifiche in cui si pubblica».

Un sistema perfettamente darwiniano, i cui attori, sotto il diktat di «pubblica o muori», non lesinano alcun colpo basso. E i grandi gruppi editoriali fanno buon viso a cattivo gioco: «Molte riviste scientifiche sono complici del fenomeno», dice senza mezzi termini Bucci. «Sono poco collaborative nelle ritrattazioni: se i paper falsi non inficiano il loro business, non hanno ragioni per combatterli».

Anche nel meccanismo di garanzia di qualità degli articoli, la cosiddetta “peer review”, o “revisione dei pari” - il vaglio anonimo di un lavoro in attesa di pubblicazione da parte di scienziati esperti nel campo - evidentemente qualcosa non funziona a dovere. Una delle ragioni è anzitutto numerica, dato che i “vigilantes” sono troppo pochi rispetto agli articoli da valutare; il loro compito, inoltre, non comprende la verifica del dato né la riproduzione degli esperimenti presentati.
Per non parlare dei casi di connivenza vera e propria, in cui chi dovrebbe approvare o rifiutare un lavoro, in barba all’anonimato, favorisce i propri amici (è il cosiddetto comportamento di “rational cheating”).


Una possibile risposta al problema, secondo Bucci, è rappresentata dalla Rete e dal progresso tecnologico: «Grazie a Internet», spiega, «è più semplice smascherare i truffatori: le informazioni possono circolare con più facilità e chiunque può controllare l’attendibilità di una pubblicazione e la buona condotta di uno scienziato».

Nuovi algoritmi di analisi semantica e delle immagini, inoltre, consentono e consentiranno indagini sempre più raffinate per scongiurare plagi e fotoritocchi (altra pratica piuttosto comune, specialmente per i lavori nell’ambito delle scienze biomediche).
Accorgimenti con i quali ogni studio sarà sottoposto a un processo di revisione continua, superando gli attuali limiti della peer review e rendendo la vita più difficile agli impostori.



Solo così, forse, la scienza potrà mantenere la propria credibilità: «Ci sono voluti secoli di sacrifici perché la comunità scientifica guadagnasse la fiducia dell’opinione pubblica», conclude Bucci, «e non possiamo permetterci di perderla a causa del comportamento incauto di pochi». 

L’ultimo appello è rivolto proprio all’opinione pubblica: «Verificate sempre e continuate a dubitare di quel che vi dice chiunque. Il dubbio è il vero motore del progresso, come ben sanno gli scienziati (quelli veri). 

L’unica cosa della quale non dovreste mai dubitare è il metodo scientifico. Perché è una delle conquiste più grandi della nostra specie».

Fonte: espresso.repubblica.it

Si può anche leggere:

Un'intervista al dottor Stefano Montanari a proposito di riviste e pubblicazioni scientifiche:
Riviste e pubblicazioni scientifiche: quanto sono affidabili?

Il fenomeno della vendita di articoli scientifici già accettati per la pubblicazione a ricercatori senza scrupoli sta assumendo proporzioni sempre più allarmanti. Gran parte dei casi ha origine in Cina:
- Firme in vendita: la frode nelle riviste scientifiche

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