domenica 17 maggio 2020

Lo spazio svelato dalla luce

di EMANUELA PULVIRENTI · 7 MARZO 2015

Invisibile e impalpabile. Eppure dà forma al mondo e innesca la scintilla vitale negli esseri viventi.

La luce è questo e molto altro. Ma ciò che qui mi interessa esplorare è la capacità della luce di creare lo spazio architettonico rivelandone l’essenza. 


Dunque si parla di interni, di luoghi chiusi nei quali l’apertura di una finestra o di un semplice foro riesce a materializzare lo spazio costruito.

L’invenzione dello spazio abitato fu una lunga conquista per l’umanità. Delle architetture più antiche, difatti, sappiamo che erano concepite come enormi sculture vivibili ma, come le sculture, il loro rapporto con la luce del Sole era tutto giocato sulle superfici esterne ...


Era un rapporto spesso basato sull’orientamento degli elementi alla ricerca di un ordine cosmico da riportare tra gli umani. È questo, probabilmente, il senso del cromlech di Stonehenge (1.800 a.C.).

È così che funzionano anche le piramidi: tombe monumentali (o “montagne artificiali” secondo Christian Norberg-Schulz) che comunicano un’immagine di assoluto e di perfezione.


Quelle della Piana di Giza (2.500 a.C.) sembrano la dimostrazione lapidea che “l’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce” come affermerà Le Corbusier oltre quattromila anni dopo.

Eppure questa non è ancora architettura in senso pieno, non è ancora spazio vivibile, spazio interno.


Non lo sarà neanche il tempio greco. (VI-V sec. a.C.), armonico, misurato ma inaccessibile se non ai sommi sacerdoti. Qui il “gioco sapiente” si disputa tra i raggi del sole e le scanalature delle colonne, la tornitura del capitello, i profondi solchi dei triglifi e i forti bassorilievi dell’apparato scultoreo.

Come abbiamo visto nella storia del Pantheon, saranno i Romani a realizzare, per la prima volta, spazi architettonici definiti dalla luce.


Il fiotto di luce che penetra nell’oculo della cupola, o nel compluvium di una domus o, ancora, dalle aperture di un ambiente termale o di un mercato coperto svela proporzioni, armonie, materiali, tessiture. Si può dire che crei l’architettura.

Nella maggior parte dei casi, però, si tratta di una luce funzionale, studiata per consentire un uso ottimale degli spazi.

Ma nel momento in cui, con il IV sec. d.C., l’architettura romana confluisce in quella paleocristiana, la luce comincia ad assumere un carattere più spiccatamente simbolico. È luce divina, segno di una soprannaturale presenza all’interno del luogo sacro.


Poco tempo dopo, con la diffusione dell’arte bizantina, la luce divina (“riscaldata” da finestre in alabastro) si moltiplicherà in maniera quasi esponenziale, riflessa all’infinito dai mosaici a fondo oro.

È un’epoca definita “fototropica” da Hans Sedlmayr, per il profondo rapporto con la luce realizzato tramite nuove materie luminose.

La parete perde quasi consistenza, diventa un muro di luce, una superficie che brilla da ogni parte grazie alla posa non complanare delle tessere. In pratica queste, collocate con lievi inclinazioni rispetto al piano sottostante, offrono diversi angoli di riflessione alla luce naturale frammentandola in tutte le direzioni.


Un effetto ancora più spettacolare ed unico è quello della Basilica di Hagia Sophia (o Santa Sofia) ad Istanbul.


Voluta da Costantino, riedificata nel VI secolo e trasformata in moschea nel XV è un vero e proprio miracolo di pietra e luce. Un’immensa cupola (crollata diverse volte) poggia su una cornice continua di quaranta finestre lasciando che la luce inondi lo spazio interno.

La magia dei mosaici dorati continuerà a manifestarsi per tutto il Medioevo in quelle aree rimaste sotto l’influenza bizantina. È per questo motivo che si possono trovare in Sicilia alcuni tra i più eccelsi esempi di questo stile fino al XII secolo.


La Cappella Palatina (in foto) o la chiesa della Martorana a Palermo e il Duomo di Monreale, con i loro rivestimenti di tessere d’oro che vanno persino a smussare gli spigoli dei muri, possono essere considerati veri e propri “luoghi di luce“.

Nel resto dell’Europa, con il Romanico dell’XI e XII secolo, le chiese tornano ad esprimere la nuda massa muraria, spoglia e massiccia. La struttura voltata delle navate richiede mura spesse e contrafforti per assorbire la spinta orizzontale che le volte a crociera o a botte esercitano sugli appoggi.


Per questo motivo le finestre sono delle semplici monofore di dimensioni molto limitate. La scarsità di luce che ne deriva conferisce all’interno un tipico aspetto austero e un’atmosfera di raccoglimento.

Per assistere ad un nuovo periodo fototropico occorre aspettare che la struttura della chiesa si faccia esile e trasparente e lasci passare luce in abbondanza.

Con l’applicazione sistematica dell’arco a sesto acuto, della volta a crociera ogivale e degli archi rampanti tipici dell’architettura gotica, le spinte orizzontali si riducono notevolmente e la parete massiccia dei secoli precedenti lascia il posto ad immense vetrate policrome, nuova materia luminosa del XIII e XIV secolo.


La luce, densa e divina, riempie lo spazio e lo colora rendendo visibile il complesso ricamo di vetro delle immense finestre e dei rosoni.

Con il Rinascimento (XV e XVI sec.) la luce torna ad essere rigorosa ed equilibrata. Non potevamo aspettarci altro da un’architettura che trae ispirazione da quella classica…


Nelle chiese e negli altri spazi sacri crea ritmo e solennità e rende leggibile la struttura architettonica in ogni sua membratura.

La luce barocca (XVII e XVIII sec.) invece, coerentemente con una concezione scenografica dell’architettura, tende a rendere gli spazi teatrali e suggestivi.

In molti casi la finestra è nascosta perché si possa percepire l’effetto della luce ma non la sua fonte (esattamente come avviene a teatro in cui quinte e cieletti schermano i proiettori). È così che alcune delle cupole più famose riescono a suscitare ancora meraviglia ed emozione!


In altri la casi le finestre, ampie ed evidenti, partecipano al gioco del chiaroscuro aggiungendo contrasto alle già ricche strutture.


Nel corso dell’Ottocento, tra il Neoclassicismo e altri Revival storicistici, la luce non pare rivelare nuove modalità espressive in architettura.

È solo grazie alle innovazioni introdotte dagli ingegneri (come si è visto per la Torre Eiffel) che la luce trova nuovi spazi nelle grandi volte in ferro e vetro.

Agili e modulari, le gallerie vetrate coprono strade e stazioni sostituendosi del tutto al mattone e alla pietra dei secoli precedenti e, soprattutto, portano la questione della luce al di fuori degli spazi sacri nei quali si era sviluppata per oltre mille anni.


La luce diffusa dai grandi lucernai vetrati diventa un elemento tipico dell’Art Nouveau a fine Ottocento. È una luce morbida ed avvolgente che, senza creare contrasti drammatici, riempie gli eleganti ambienti sottostanti come i palazzi e gli hotel di Victor Horta.


Negli spazi di Antoni Gaudì, in particolare, la luce zenitale o laterale svela le fantasmagoriche forme organiche delle sue architetture, accarezza pareti curve e piove liberamente negli ambienti interni.


Nonostante le enormi differenze tra la concezione plastica dell’architettura di Gaudì e quella funzionalista di Le Corbusier, quest’ultimo ha realizzato nel corso del Novecento alcuni spazi di incredibile suggestione luminosa.

Quella Cappella di Ronchamp (1955) cos’è se non una versione contemporanea dello spazio sacro medievale, mistico e coinvolgente? Qui la luce sfiora le profonde strombature delle finestre o scivola lungo i muri dall’intonaco increspato.


La luce che scorre sulle superfici rendendole, a loro volta, diffusori luminosi, è presente anche nelle architetture di Alvar Aalto. Le sue chiese e i suoi edifici pubblici sono concepiti spesso come grandi amplificatori di luce.


Ma il terreno di esplorazione delle nuove possibilità di uso della luce nel Novecento non saranno più le chiese ma i musei. Musei che fin dai tempi del Louvre erano sistematicamente organizzati con sale chiuse da lucernai anche per la perdurante influenza degli spazi classici.


La suggestione di questo museo è ancora evidente nel Guggenheim (1956) a newYork di Frank Lloyd Wright dove lo spazio centrale è illuminato dall’alto come nei modelli ottocenteschi.

Tuttavia qui la tipologia del museo è stata ripensata in maniera radicale: una rampa continua a spirale si snoda verso l’alto lasciando filtrare una striscia di luce tra una spira e l’altra.


Decisamente innovativo è anche il Kimbell Art Museum a Fort Worth, Texas (1972) di Louis Kahn.

Il progetto si compone di una serie di tunnel affiancati, coperti da volte cicloidali che integrano un dispositivo capace di schermare la luce diretta e rinviarla verso la superficie delle volte che diventano così dei grandi diffusori.


Nel caso del Musée d’Orsay a Parigi (1986) di Gae Aulenti e Piero Castiglioni, si trattava di creare uno spazio espositivo all’interno di una stazione ferroviaria dismessa.

La struttura architettonica, dunque, è pensata per creare delle sale più raccolte e contemporaneamente controllare in modo preciso la luce naturale proveniente dalla volta vetrata.


Nella Menil Collection a Houston, Texas (1986) Renzo Piano ha organizzato una serie pannelli curvi posti sotto una leggera copertura trasparente, in grado di riflettere la luce su entrambe le superfici e di immetterne all’interno la massima quantità ma sempre in modo omogeneo.


Decisamente più complesso è il convogliamento della luce nella Clore Gallery (ampliamento della Tate Gallery of Modern Art) a Londra (1987) di James Stirling.

In questo caso sono presenti dei sistemi meccanizzati di controllo della luce naturale in modo che, con l’eventuale integrazione di luce artificiale, si possa ottenere un’illuminazione sempre costante.


Per andare ad esempi più recenti va ricordato il Kunsthaus a Bregenz (1997) di Peter Zumthor.

Si tratta di un museo concepito per l’illuminazione diurna: la facciata è un involucro satinato che lascia passare la luce dentro apposite intercapedini poste tra i vari livelli dell’edificio.

Nonostante la luce venga trasmessa o riflessa per tre volte (dalla facciata, dai serramenti isolanti e dal lucernario) risulta sufficiente ad illuminare gli ambienti interni. Ogni sala ottiene, così, un’atmosfera di luce naturale sebbene non siano presenti finestrature visibili. Naturalmente nello stesso controsoffitto vetrato sono inserite batterie di lampade fluorescenti che garantiscono l’uso serale del museo.


Osservando l’inizio di questo lungo percorso sembra che sia rimasta proprio l’essenza della luce. Quella capacità di dare forma agli ambienti, anche i più minimali.

Perché come scrive Alberto Campo Baeza:

"In definitiva, la luce non è la ragion d’essere dell’architettura? La Storia dell’architettura non è ricerca, comprensione e dominio della luce? Il Romanico non è forse un dialogo tra le ombre dei muri e la luce solida che vi penetra come un coltello? 
E il Gotico non è un’esaltazione della luce che avvampa gli incredibili spazi con fiamme ascendenti? Il Barocco non può forse essere considerato come un’alchimia di luce dove, sulla saggia mescolanza delle luci diffuse, irrompe un raggio forte, capace di produrre ineffabili vibrazioni? 
Infine, il Movimento Moderno, abbattuti i muri, non è una inondazione di luce che ancora cerchiamo di controllare? Non è questa un’epoca in cui possediamo tutti i mezzi possibili per dominare la luce?".

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