mercoledì 22 aprile 2020

Ivan Illich: a che servono le crisi?

di Paolo Cacciari

Propongo una rilettura di Ivan Illich del lontano 1978 (Disoccupazione creativa, riedito da Boroli, 2005):

“Il vocabolo crisi – scriveva – indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i Paesi diventano casi critici.
Crisi, parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire ‘scelta’ o ‘punto di svolta’, ora sta a significare: ‘Guidatore dacci dentro!’

Evoca cioè una minaccia sinistra, ma contenibile mediante un sovrappiù di denaro, di manodopera e di tecnica gestionale”.

Come non vedere che è proprio così? Creare una emergenza , provocare un pericolo catastrofico (il default, la disoccupazione, la Grecia) per annullare i diritti, ribadire il dominio della ragione economica dell’impresa e intensificare le forme di sfruttamento, concentrare il potere economico-finanziario.

Del resto sono le stesse persone che prima hanno creato la crisi dai loro posti di comando nelle istituzioni bancarie private che ora sono chiamate a “mettere in ordine” nei conti pubblici. Il loro vero obiettivo: impadronirsi anche delle casse degli stati, dei flussi fiscali, dei beni demaniali.

Quando il mondo è sovrastato da una montagna di debiti pericolanti, coloro che manovrano il denaro diventano sempre più potenti e temuti. I tecnocrati alla guida del sistema finanziario possono giocare a piacimento, con qualche telefonata tra amici, sugli spread, sui tassi di interesse, sulle valute… mettendo con le spalle al muro prima l’uno, poi l’altro governo ...

L’obiettivo è garantire comunque che i rendimenti dei capitali siano pagati a sufficienza. 

Tutto il resto – i livelli di occupazione e dei salari, il funzionamento dei servizi pubblici e alle persone, l’istruzione e la sanità - non interessa nulla. I possessori dei titoli del debito sono la nuova classe padrona.

Ancora Illich: “La crisi come necessità di accelerare non solo mette più potenza a disposizione del conducente, e fa stringere ancora di più la cintura di sicurezza dei passeggeri; ma giustifica anche la rapina dello spazio, del tempo e delle risorse”.

La “crescita” è il nuovo falso mito. Tutti sanno in cuor loro che non ci potrà più essere (almeno in questa parte del mondo e nelle misure promesse) ma funziona come fattore sociale disciplinante: se non lavori di più a più buon mercato e con meno tutele sei nemico dell’“interesse generale”.

La “crescita” è il nuovo patriottismo che dovrebbe mobilitare le masse nella guerra competitiva tra le diverse aree economiche del pianeta globalizzato dal capitale finanziario. Loro (gli “investitori”, i possessori dei titoli di credito) possono muoversi e fare business dove meglio credono, mentre i lavoratori territorializzati sono messi in competizione tra loro. Lo chiamano “multipolarismo”, si legge “aree speciali di sviluppo”, accordi di libero scambio, patti interbancari, ecc.

La “crescita” è la nuova falsa religione. Il nuovo nome della vecchia ideologia egemone del produttivismo e dello sviluppiamo. Non importa sapere cosa dovrebbe crescere, quali produzioni per rispondere a quali bisogni umani. L’importante è costringere, attraverso il ricatto del licenziamento selvaggio, la gente a lavorare a qualsiasi condizione.

Così intesa la crisi torna sempre a vantaggio degli amministratori e dei commissari (…) una corsa precipitosa verso l’escalation del controllo”, ma Illich scriveva anche: “’Crisi’ può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa”.

Fonte: decrescita2012.democraziakmzero.


La crisi come quella che stiamo vivendo oggi potrebbe condurci verso un nuovo modello di sanità

Se vogliamo fare un ulteriore passo che ci riconduca alla crisi odierna ("pandemia"), in un suo scritto molto contestato, 'Nemesi Medica' (1976), Ivan Illich affermava che una gran quantità di malattie diffuse nelle società attuali sono di origine iatrogena, cioè sono incubate e prodotte negli stessi luoghi che dovrebbero curarle.

Questa tesi riusciva a dare legittimità ai dubbi che già si erano impiantati, nella cultura della sinistra italiana, riguardo alla asetticità della scienza e della tecnologia e sulla bontà intrinseca della medicina. Illich era riuscito a raccogliere una massa impressionante di dati che obbligavano a ripensare dalle fondamenta l’impianto della ricerca e della pratica nel campo sanitario.

In un certo senso colpiva alle spalle i ricercatori ufficiali approfittando della loro incapacità di avere una visione di insieme, condannati dal bisogno di efficienza ad essere specialisti in un piccolo campo. Condannava senza appello, non dava spazio all’avversario, identificato come nemico di classe, senza sfumature o distinzioni. Non faceva ricerca per costruire ma per distruggere.

Aveva cioè tutte le caratteristiche di quello che Federigo Enriques chiama lo scienziato eterodosso. «Le critiche degli scienziati eterodossi, di solito uomini di una genialità superiore a quella che appartiene alla media degli studiosi, di una genialità non bene contemperata dall’equilibrio delle varie doti che occorrono allo scienziato, ma spesso appunto più vivace perché non infrenata dalle esigenze del metodo e della dottrina, sottolineano come i problemi della scienza ortodossa sono mal posti, privi di significato e di valore

Ma i medici fanno fatica...

«Studiando l’evoluzione della struttura della morbosità si ha la prova che durante l’ultimo secolo i medici hanno influito sulle epidemie in misura non maggiore di quanto influivano i preti nelle epoche precedenti» (pag. 22).

«È stato dimostrato che il ruolo decisivo nel determinare come si sentono gli adulti e in quale età tendono a morire è svolto dal cibo, dall’acqua, dall’aria, in correlazione con il livello di uguaglianza sociopolitica e con i meccanismi culturali che permettono di mantenere stabile la popolazione» (pag. 23).

Il messaggio è stato accolto?

Forse sì, perché oggi assistiamo al diffondersi dell’idea che vada recuperato il carattere umano della cura (e non unicamente tecnologico), dell’idea che la salute è un tutto inscindibile, non divisa per organi e apparati, che è una qualità della vita e non una merce. Inoltre si moltiplicano coloro che vogliono decidere del proprio destino quando si troveranno ad essere malati, decidere se essere curati o no, se vivere o morire – senza che ciò diventi oggetto di delega.

Bisogna dire che gli scienziati non hanno aiutato i consumatori di medicina a mantenere un atteggiamento corretto. Li hanno stimolati a consumare perché così si potesse produrre di più.

Riducendo la salute a merce hanno espropriato i cittadini della competenza sul proprio malessere e sul proprio benessere. 

Ciò hanno fatto, anche in buona fede, per laicizzare la medicina, liberandola da quell’alone religioso che la legava poi inevitabilmente a una qualche fede, e da qui a una qualche chiesa. Ma con ciò hanno preteso – ed è questa una delle tesi centrali di Illich – di sganciare la medicina da qualunque sistema di valori; per liberarla dal religioso l’hanno esclusa dall’etico.

Questa norma dovrebbe trovare il suo fondamento nell’idea che è possibile dimostrare il limite del progresso, ovvero la tendenza dell’economia, della scienza, della tecnologia, abbandonate a se stesse, a produrre più danni che vantaggi.

L’insieme dei danni che derivano da una medicina moderna viene analizzato da Illich in funzione del meccanismo che li produce.

La iatrogenesi (ciò che è causato dal medico o dalla medicina) può attuarsi attraverso le manipolazioni delle malattie e dei disturbi.

Vi è una iatrogenesi clinica, in cui "il danno i medici lo infliggono nell’intento di guarire o di sfruttare il paziente, o i danni discendono dalla preoccupazione del medico di tutelarsi da una eventuale denuncia per malpratica."

Oppure viene introdotto un danno modificando il peso sociale della medicina (iatrogenesi sociale): «la gente viene spinta a diventare consumatrice di medicina curativa, preventiva, ecc., menomati che sopravvivono al limite del sistema e grazie all’assistenza; false attestazioni di invalidità che privano del diritto di lavorare.

Esiste infine una iatrogenesi culturale: distrugge la capacità potenziale dell’individuo di far fronte in modo personale e autonomo, alla propria umana debolezza, vulnerabilità, unicità.

La iatrogenesi è all’origine di un travolgimento antropologico che parte dalla soppressione del dolore.

«L’individuo diventa incapace di accettare la sofferenza come una componente inevitabile del suo consapevole confronto con la realtà e impara a vedere in ogni malessere il segno di un proprio bisogno di protezione a riguardo» (pag. 139).

Tratto da: www.altraofficina.it

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