Com’era bello, il mercato. È stata una straordinaria invenzione. Diecimila anni fa – o forse anche prima.
Ancora oggi ci divertiamo, da turisti, quando in qualche paese straniero dove la tradizione sopravvive esploriamo un mercato in tutta la sua turbolenta vitalità. O quando, anche da noi, ne troviamo qualcuno che conserva la stimolante atmosfera d’altri tempi.
All’epoca in cui nascevano i mercati, viaggiare era difficile, lento e rischioso. Si andava a piedi, tutt’al più a cavallo o a dorso di cammello (o con una zattera o una canoa lungo un fiume – i più coraggiosi si azzardavano ad attraversare un po’ di mare).
Da parecchi millenni l’umanità aveva imparato che non tutti sanno fare bene tutto, non a tutti si possono insegnare tutti i mestieri, è meglio dividersi i compiti e collaborare. Poi si scoprì che è ancora più vantaggioso se, invece di restare nei limiti della tribù o del vicinato, si allarga lo scambio ad altri, che sanno dove trovare, o come fabbricare, qualcosa di diverso.
Era nata la fertile economia del baratto. Ma c’era di più e di meglio. Allo scambio di oggetti (e delle conoscenze tecniche per farli e usarli) si univa la curiosità degli incontri. Presto si aggiunsero teatranti e saltimbanchi, giocolieri e buffoni, artisti e musicisti, cantastorie e portatori di notizie o leggende su luoghi e personaggi reali o immaginari.
Con feste e danze, giochi e scherzi, corteggiamenti e seduzioni, in cui si intrecciavano amori, tresche o avventure che contribuivano all’esigenza biologica di arricchire la diversità genetica (anche se nessuno conosceva le leggi dell’evoluzione) ...
Era comunque, per tutti, una festa.
Un’occasione per rompere il ciclo delle abitudini, uscire dalla monotonia e dall’isolamento. Senza i mercati e i mercanti non si sarebbe sviluppata quella ricchezza di cultura e diversità che è un fertile ingrediente dell’evoluzione umana.
* * *
Poi qualcuno (non è chiaro chi, dove e quando) inventò il denaro. Un utile mezzo per facilitare gli scambi. Ma anche l’origine di nuovi problemi, come ci insegnano gli storici dell’economia e l’infinita serie di atrocità e violenze per un’esagerata, spesso insensata, maniacalità di accumulo della ricchezza.
(Una variante, meschina quanto insidiosa, di questo malanno è descritta in Le miserie di Arpagone).
Nelle culture più influenti sui commerci, agli albori della storia, si stabilì uno standard condiviso – basato su due metalli belli e rari, l’oro e l’argento. Benché spesso truccato, durò per millenni, fino agli “anni settanta” del ventesimo secolo, quando dopo una serie di dibattiti internazionali si arrivò all’abolizione della “parità aurea” e l’identità del denaro come criterio di scambio divenne sempre più immaginaria – un “bene convenzionale” il cui valore è misurabile e paragonabile solo se tutti stanno ai patti. Con insidiosi vantaggi per chi riesce, in qualche modo, a imbrogliare le carte.
Intanto, nel diciottesimo secolo, era nato un altro meccanismo finanziario. La “borsa”, cioè il mercato azionario.
Il concetto è utile e semplice: chi ha bisogno di soldi da investire vende partecipazioni alla sua impresa, chi vuole far fruttare i suoi risparmi le compra e si aspetta di avere, in proporzione, una partecipazione agli utili.
In pratica, la cosa non è mai stata del tutto chiara. Fin dagli inizi ci sono stati maneggi, imbrogli e speculazioni azzardate. Ma la parte più solida del sistema, basata su imprese di durevole affidabilità, funzionava abbastanza bene. Fino a quando, trent’anni fa, il meccanismo si è guastato.
* * *
Non è stato un errore, né uno sbandamento involontario. Un “liberismo” a oltranza ha portato, all’inizio degli anni ’80, a un’intenzionale e drastica demolizione di regole e controlli. L’impeto della scatenata finanza selvaggia, si prometteva, avrebbe creato ricchezza e benessere per tutti. Fu presto evidente che aveva l’effetto contrario. Ma ormai la demenza era diventata cronica. Talmente diffusa da cancellare ogni ombra di buon senso.
Era inevitabile che un mostruoso edificio, sempre più fragile e più alto, con visibili cedimenti strutturali, dovesse crollare. Così è stato nel 2007 – e le macerie, come era prevedibile, sono precipitate sull’economia reale.
Gli anni passano, ma nessuno sembra capire (o voler ammettere) che non ci può essere guarigione se non si estirpa la radice del male.
Ancora al giorno d’oggi, quando sentiamo dire “mercato”, sembra che esista solo quello dei titoli in borsa – come se fosse il mondo in cui viviamo.
La cultura dominante è perversamente innamorata di un orrido parassita.
Il concetto è utile e semplice: chi ha bisogno di soldi da investire vende partecipazioni alla sua impresa, chi vuole far fruttare i suoi risparmi le compra e si aspetta di avere, in proporzione, una partecipazione agli utili.
In pratica, la cosa non è mai stata del tutto chiara. Fin dagli inizi ci sono stati maneggi, imbrogli e speculazioni azzardate. Ma la parte più solida del sistema, basata su imprese di durevole affidabilità, funzionava abbastanza bene. Fino a quando, trent’anni fa, il meccanismo si è guastato.
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Non è stato un errore, né uno sbandamento involontario. Un “liberismo” a oltranza ha portato, all’inizio degli anni ’80, a un’intenzionale e drastica demolizione di regole e controlli. L’impeto della scatenata finanza selvaggia, si prometteva, avrebbe creato ricchezza e benessere per tutti. Fu presto evidente che aveva l’effetto contrario. Ma ormai la demenza era diventata cronica. Talmente diffusa da cancellare ogni ombra di buon senso.
Era inevitabile che un mostruoso edificio, sempre più fragile e più alto, con visibili cedimenti strutturali, dovesse crollare. Così è stato nel 2007 – e le macerie, come era prevedibile, sono precipitate sull’economia reale.
Gli anni passano, ma nessuno sembra capire (o voler ammettere) che non ci può essere guarigione se non si estirpa la radice del male.
Ancora al giorno d’oggi, quando sentiamo dire “mercato”, sembra che esista solo quello dei titoli in borsa – come se fosse il mondo in cui viviamo.
La cultura dominante è perversamente innamorata di un orrido parassita.
Con incredibile ritardo, qualcuno sta cominciando a chiedersi dov’è il guasto.
Come può essere ammissibile, per esempio, che le cosiddette autorità di controllo siano imprese private, direttamente coinvolte nel gioco?
Una simile idiozia non sarebbe accettabile neppure in una bisca. Con una sostanziale differenza: chi gioca d’azzardo rischia soldi suoi. I bari della finanza si arricchiscono minacciando di mandare in rovina nazioni, organizzazioni, imprese, famiglie e persone in tutto il mondo.
Per esempio, l’Italia. Un mostruoso disavanzo nei conti pubblici è stato provocato da dissennati maneggi politici negli anni ottanta. Per più di vent’anni si è fatto finta di nulla (anzi si sono perpetrati, o permessi, altri sprechi che hanno peggiorato la situazione). E ora, all’improvviso, si scatena una frettolosa accozzaglia di “tagli” e prelievi indiscriminati (quando per stimolare una ripresa economica bisognerebbe fare il contrario) in servile, umiliante obbedienza agli stessi furfanti che hanno provocato la crisi.
Si sono gonfiate e sgonfiate, nella gazzarra mondiale, le “bolle” speculative. Alcuni dei colpevoli (pochi rispetto alla reale dimensione del problema) sono finiti sotto processo. Ma non si è imparata la lezione.
Nel clamore confuso dei ricorrenti catastrofismi alcuni fatti, di cui si parla poco, sono confortanti. Ci sono imprese, grandi e piccole, che continuano a lavorare e a crescere “nonostante la crisi” e non si lasciano confondere dalla speculazione.
Ma c’è anche qualcos’altro. Fra le notizie una, passata quasi inosservata, è curiosamente interessante. La procura di Trani ha deciso di incriminare, per malversazione, alcuni funzionari di due delle più potenti “agenzie di rating”.
Una rivoluzione mondiale può nascere da Trani? Sarebbe divertente, ma è improbabile. Però se ad altri, in giro per il mondo, venisse la stessa idea, si potrebbe fare un po’ di luce sugli intrighi e i maneggi dei vampiri.
Dov’è il demiurgo, o più semplicemente la voce di buon senso, che sappia mostrarci la strada per uscire dal marasma? Non si sa.
Ma forse, più che un economista, un politico o un banchiere, ci vorrebbe uno psichiatra ..
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