martedì 4 giugno 2019

Axel Honneth e la teoria del riconoscimento

Il rapporto con l’altro, che caratterizza la dimensione della soggettività e che costituisce l’individuo umano rafforzandone la sua singolarità, ricorda che l’uomo non è solo un soggetto razionale ma anche relazionale. 

Intorno al concetto di riconoscimento, Axel Honneth (1949) muove le sue ricerche ed analisi filosofiche e sociologiche. 

Assistente di Habermas dal 1983 al 1990, Honneth è oggi docente all’università di Francoforte sul Meno e direttore dell’Istituto per la Ricerca Sociale. Nei suoi testi più noti egli si sofferma sul concetto di riconoscimento e di lotta per il riconoscimento, intese come categorie indispensabili che spiegano i mutamenti sociali.

Axel Honneth: la lotta per il riconoscimento

Per Axel Honneth il riconoscimento è una modalità esistenziale fondamentale. Si tratta di ciò che garantisce l’esistenza del soggetto ed è anche presupposto dell’integrità della persona. Considerato come un’attività intersoggettiva, il riconoscimento implica l’accettazione da parte di altri soggetti ..


L’aspirazione al riconoscimento è una vera e propria tensione morale che caratterizza i soggetti. 

Di fatto, la possibilità dell’individuo di pervenire alla propria individualità è legata a quella di essere riconosciuti da una vasta cerchia di partner.

L’esperienza del riconoscimento è necessaria: il soggetto, solo quando è riconosciuto positivamente da tutti i suoi partners, si concepisce come unico, insostituibile e realizzato. Risulta chiaro che, nel momento in cui il riconoscimento è negato, l’individuo respinto ingaggia una lotta per essere riconosciuto. Per Honneth, la lotta per il riconoscimento non è intesa come scontro per avere il controllo o potere sull’altro. È anzi un conflitto che ha come fine l’affermazione dell’individuo e della sua individualità.

La violazione dell’integrità della persona

Axel Honneth individua e analizza delle forme di offesa, di umiliazione e di riconoscimento negato che colpiscono l’individuo nella stima che ha di sé e innescano la lotta per il riconoscimento. Con i termini di spregio o misconoscimento, il filosofo indica la lesione psichica di un soggetto. Essa ha diverse forme e implica diversi gradi di violenza.

Il primo tipo di spregio è quello che riguarda l’integrità fisica di una persona. Ci riferiamo a quelle forme di maltrattamento violento che tolgono alla persona la possibilità di disporre liberamente del proprio corpo, distruggendo la fiducia di sé. Il secondo tipo di spregio riguarda, invece, le forme di umiliazione che colpiscono il soggetto, escludendolo dal possesso di determinati diritti nella società. Axel Honneth scrive:

PER DIRITTI SI INTENDONO QUELLE PRETESE INDIVIDUALI CHE UNA PERSONA PUÒ LEGITTIMAMENTE FAR CONTO DI POTER VEDERE SOCIALMENTE SODDISFATTE IN QUANTO, COME MEMBRO A PIENO TITOLO DI UNA COMUNITÀ, PARTECIPA CON DIRITTO PARI AGLI ALTRI ALL’ORDINAMENTO ISTITUZIONALE DELLA STESSA.


Se dunque al soggetto sono negati questi diritti, egli è colpito dal punto di vista morale. 

L’individuo perde, cioè, il rispetto per se stesso ed è privato dell’autostima che ha acquisito nei rapporti sociali. L’ultima forma di spregio è data dall’umiliazione e dall’offesa, che negano il valore sociale al singolo o a interi gruppi. Si tratta di uno svilimento di modi di vita individuali e collettivi. I soggetti coinvolti, privati del proprio valore, non riescono a percepire la loro vita come un paradigma positivo per la comunità. Anche in questo caso il soggetto perde la stima, il rispetto di sé e si vede disapprovato socialmente.

La malattia del riconoscimento negato

Per Axel Honneth, le tre forme di mancato riconoscimento assumono per l’integrità del soggetto lo stesso ruolo negativo che le malattie organiche svolgono per l’integrità del corpo, quando minacciano la vita fisica. Infatti, per le esperienze di violenza fisica, come torture o stupri, egli parla di morte psichica. Quando al centro dell’attenzione c’è la privazione dei diritti e l’emarginazione sociale, si tratta di morte sociale. Infine, riguardo alle esperienze di svilimento dei modi di vita, si può parlare di malattia.

Il paragone con la malattia gli permette di sottolineare due aspetti. Da un lato, c’è la sofferenza che il soggetto prova per il riconoscimento negato. Dall’altro lato, troviamo la dipendenza dell’uomo dall’esperienza intersoggettiva e i suoi sforzi, attraverso la lotta, di ottenere un riconoscimento sociale necessario per conservare l’integrità personale.

Axel Honneth: i modelli positivi di riconoscimento

L’analisi delle tre esperienze negative induce Honneth ad evidenziare altrettante modalità positive di riconoscimento. Si tratta di vincoli intersoggettivi necessari, in quanto condizioni dei processi di socializzazione.

Il primo stadio di riconoscimento reciproco è l’amore che si esplica nei legami affettivi e nel contatto corporeo con altri soggetti. Questo tipo di riconoscimento affettivo fa acquistare al soggetto maggiore sicurezza e fiducia in se stesso. Esso non può estendersi oltre l’ambito dei rapporti in famiglia, nelle amicizie e nelle relazioni amorose perché gli atteggiamenti amorosi sfuggono al controllo razionale.

Il secondo stadio di riconoscimento si identifica con i rapporti giuridici e nel riconoscimento del soggetto come portatore di diritti validi e rispettati nella comunità. In tal caso l’altro è visto come membro effettivo della comunità e riconosciuto come persona giuridica. La terza forma di riconoscimento reciproco è la stima sociale. Honneth scrive:

PER POTER ARRIVARE AD UN RAPPORTO NON FRAMMENTATO CON SE STESSI, I SOGGETTI UMANI HANNO SEMPRE BISOGNO ANCHE DI UNA STIMA SOCIALE CHE CONSENTE LORO DI RIFERIRSI POSITIVAMENTE ALLE PROPRIE CONCRETE QUALITÀ E CAPACITÀ.


La stima nasce solo quando i soggetti condividono gli orientamenti e i fini. Essi segnalano l’importanza delle loro qualità e permettono ai membri della società di condividere lo stesso orizzonte di valori. Grazie a questa forma di riconoscimento, il soggetto apprezza se stesso e la sua autostima sale di livello. La teoria del riconoscimento honnetthiana ci mostra chiaramente che l’individuo si costruisce nell’incontro e nell’interazione con l’altro. I soggetti, infatti, solo attraverso il riconoscimento diventano autonomi e individualizzati. I diversi modelli di riconoscimento sono condizioni intersoggettive necessarie. Permettono, infatti, agli uomini di giungere, di volta in volta, a nuove forme di relazione positiva con se stessi. In tal modo è possibile riscoprirsi come soggetti relazionali.

Nuovi modelli di riconoscimento

Come possono le infinite connessioni e le informazioni offerte dal panottico digitale, permetterci di conservare la nostra relazionalità? Internet, gli smartphone e i social rendono gli uomini inestimabili produttori di dati personali, ma silenziosi partner nei rapporti sociali. La propria vita e le proprie abitudini sono riflesse nella rete digitale.

Nel pensare di essere completamente liberi nelle azioni quotidiane, il paradigma della relazionalità va incontro ad una terribile disfatta. Oggi comunichiamo tanto, condividiamo continuamente, esprimiamo opinioni e desideri, raccontiamo la nostra vita, ma talvolta risulta trascurata la relazione diretta con le altre persone. Se dunque il soggetto si sviluppa nell’incontro con l’altro, quanto stiamo perdendo della nostra individualità ed identità? Risulta difficile riscoprirci soggetti relazionali quando il riconoscimento non solo è negato ma, in molti casi, non è ricercato né voluto.

Pina Barone

15 commenti:

  1. Che nessuno commenti ad un argomento importante come questo, che è alla base della manipolazione dell'indivuduo, mi fa un po' pensare. In fondo molte tensioni presenti nei commenti di articoli precedenti possono avere qui una spiegazione.
    Credo che il bisogno di riconoscimento ci faccia accettare o ci leghi ad una versione di realtà che spesso ci appesantisce (talvolta annullando il nostro senso critico)

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    1. Ora non ti mettere anche te a fare il professore ...
      Ci siano già io ed Enoch! 😄

      Tengo a precisare che le discussioni precedenti non sono volute perchè voglio riconoscimento (che in fatti qua dentro non ho assolutamente!)

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    2. :-) Spero di non essermi espresso male. Devo imparare a comunicare altrimenti finis e che parlo con me e mi do ragione da solo (ahahah)

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    3. Forse in me c'è un po' la ricerca del riconoscimento. Nelle mie intenzioni cerco un confronto per trovare dei punti comuni sui quali basare una parte della comunicazione altrimenti si rischia di applicare tecniche (più o meno involontarie) di manipolazione sugli altri anziché essere d'aiuto (il mondo è così perché io lo so, l'ho visto [traducendo il concetto in una frase d'effetto])

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  2. Parlo per me, commentare a determinati argomenti, questo ad esempio, richiede molto tempo e un'analisi impietosa e precisa della psiche umana, cosa che potrei fare avendone le capacità e gli studi di base, ma non si può liquidare un argomento tanto importante e delicato con un paio di commenti tanto per.
    Inoltre credo di averlo già detto spesso, e non solo io: Quando la preoccupazione maggiore dell'individuo è omologarsi al resto della società al fine di essere da questa accettato, tutto il resto arriva di conseguenza, manipolazione inclusa.

    La questione dell'essere umano animale sociale è stata esagerata ed è uscita dai ranghi, decisamente.
    Persino in Occidente, dove l'individualità e il distinguersi dalla massa è ricercato ossessivamente ai limiti dsl patologico, certi meccanismi sono parenti ma non meno pericolosi.
    Ho parlato sotto all'articolo delle malattie mentali di come gli statunitensi vivono la vita sociale e il rigetto da parte del gruppo o comunità.

    In Oriente la vita collettiva sovrasta e annulla proprio l'individuo, il quale abdica totalmente alla sua unicità nella storia per rendere conto a famiglia, comunità, datore di lavoro, società in generale.

    Potrei continuare per giorni portando esperienze personali e scandagliando a fondo gli abissi dell'animo umano ma non serve e in ultima istanza non ne ho interesse. È in fin dei conti una questione di consapevolezza. Se l'umano si fa manipolare è perché trova rassicurante credere a menzogne che lo fanno sentire protetto e parte di qualcosa, ma poi non dovrebbe nemmeno lamentarsi delle conseguenze disastrose delle proprie scelte (poi possiamo parlare mesi, anni, di quanto quelle scelte siano libere da condizionamenti di vario tipo o meno).

    Ognuno di noi ha effettivamente bisogno di costruirsi una realtà ed un'immagine di se stesso che gli renda sopportabile la vita e la relazione con se stesso prima di tutto, e questo inevitabilmente porta a tutte le conseguenze che vediamo ogni giorno.

    Ripeto, il discorso è troppo complesso e non si può liquidarlo facilmente tanto per commentare.

    Enoch

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    1. ...mi sembrava strano che tu non avessi le capacità di commentare l'articolo...

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  3. E già che ci sono....
    Non è certo un caso che quelle persone che hanno raggiunto una certa dose di consapevolezza o risveglio finiscano per andare a vivere lontano dal mondo a fare gli eremiti.
    E non a caso sono pochissimi.

    Una volta compreso che il mondo e i suoi meccanismi sono solo un riflesso delle proprie dinamiche psico-spirituali, decade anche il bisogno di avere a che fare col mondo, perché basta conoscere se stessi e si conoscerà l'universo.

    Le ferite subite durante l'infanzia sono decisive nel processo di costruzione di un'idea e un'immagine di noi stessi che ci renda accettati dagli altri.
    Se non si lavora su quelle ferite, e ragione ha Louise Hay a dire che le predominanti sono 5, la vita dell'individuo sarà un continuo subire giudizi, eventi, traumi, senza porre un ragionevole freno a tutto ciò. Il che porterà ad un'idea di sé completamente alterata e condizionata dall'esterno, e le scelte fatte saranno disastrose, in un loop infinito.

    Le cose accadono perché noi impariamo a rispondere a quegli eventi con consapevolezza.
    Non se ne esce: La discriminante è sempre e comunque la consapevolezza di sé e del mondo.

    E andare dallo psicologo per analizzare dinamiche interiori non equilibrate purtroppo non porta alla guarigione e alla consapevolezza profonda.
    Con il terapeuta si instaura invece molto spesso il cosiddetto "transfert" che porta ad un ulteriore indebolimento della volontà del paziente di guarire poiché il perno dell'analisi si sposta dal paziente al rapporto col terapeuta, vanificando in larga parte i passi avanti fatti fino a quel momento.

    Conosco persone che stanno e vivono molto meglio dopo anni di terapia, e va benissimo; ma non conosco persone diventate consapevoli, illuminate (termine che mi fa molto ridere), o che hanno compreso veramente se stesse.
    Va da sé che i problemi ritorneranno sempre.

    Enoch

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    1. "Non è certo un caso che quelle persone che hanno raggiunto una certa dose di consapevolezza o risveglio finiscano per andare a vivere lontano dal mondo a fare gli eremiti.
      E non a caso sono pochissimi".

      Chi veramente ha raggiunto una certa dose di consapevolezza, NON FUGGE MA RESTA PER DARLA AGLI ALTRI!
      VIVE LA SUA VITA ACCETTANTO QUELLO CHE C'È SENZA ATTACCAMENTO E CON COMPASSIONE.

      La tua visione distorta di consapevolezza mi fa capire molte cose.
      Tipo che il tuo obiettivo è FUGGIRE!


      "Conosco persone che stanno e vivono molto meglio dopo anni di terapia, e va benissimo; ma non conosco persone diventate consapevoli, illuminate (termine che mi fa molto ridere), o che hanno compreso veramente se stesse.
      Va da sé che i problemi ritorneranno sempre".

      Lo scopo della psicoterapia non è "illuminare" ma dare dei MEZZI PRATICI,TECNICHE per risolvere conflitti interiori che recano un disagio momentaneo.

      Molte persone stanno meglio, ma è ovvio che ci voglia altro per un percorso di illuminazione che è su altri piani dell'essere.

      Ora capisco perchè non eserciti. Fai bene.

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    2. Si è sempre dentro la mente, anche ai piani alti dell'essere.
      Prova ad uscire dalla mente, poi torna a scrivere della tua esperienza.
      Boccaloni sempre e comunque, lo sanno bene i "maestri"...

      Auguri!

      Enoch

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  4. La pratica della psicologia senza consapevolezza reale da parte del terapeuta non serve a un cazzo.
    Per cui non perdeteci proprio tempo e soldi.

    Non eserciterò mai perché non ho studiato per questo. Ho fatto come Terzani in Cina: Ci è andato e ha mandato i figli a scuola nelle scuole pubbliche cinesi per vaccinarli da eventuali simpatie per il comunismo.
    Si dovrebbe studiare psicologia per comprendere se stessi e il mondo, non per avere la pretesa di dire ad altre persone come risolvere i loro problemi facendosi pagare e in più non risolvendo nulla nel profondo.

    Enoch

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  5. Anch'io credo che sia importante tornare tra gli altri dopo aver concluso una parte del percorso, serve anche a se stessi, fa capire più in profondità le cose apprese. Alcuni però restano in solitudine per nutrire e tenere vivi dei flussi ai quali altri possono attingere. Fare entrambe le cose è molto difficile, si rischia di venire risucchiati dalle dinamiche della vita ordinaria rischiando di fare danno (quando non ci si accorge di questo). Credo possa essere questo il problema di molti maestri (considerando che tra i tanti quelli veri sono pochi. Anche i tanti falsi però hanno una loro utilità ti fanno capire quanto stabile o meno sia il percorso che fai, se ci credi, se lo capisci. Non si butta via nulla insomma). Alcuni terapisti che ho sentito fanno un buon lavoro dando spunti di comprensione sulla meccanicità di eventi che devono essere compresi anche su quel piano. Grazie per aver accettato l'invito al commento. Questo argomento è molto importante per chi inizia un percorso e parte col guardarsi dentro. Se si confonde la voce del bisogno (che va a nutrire il meccanismo del riconoscimento) con quella dell'intuito, si finisce impantanati (e di brutto)

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    1. Certo che ci sono terapeuti molto bravi, ne conosco anch'io.
      Ciò che intendo però è un'altra cosa, e cioè se uno ad esempio ha problemi coi soldi perché ne spende troppi e fa un percorso terapeutico in cui capisce che i suoi problemi risalgono all'infanzia per via di genitori troppo severi o poveri o tirchi, ma non impara ad avere un distacco verso il concetto dei soldi a livello più profondo, alla prima occasione di stress ci ricasca, è inevitabile.
      Ho fatto volutamente un esempio molto banale.

      Non a caso molta gente va tutta la vita dall'analista e non ha risolto nulla, o smette dopo qualche anno e poco dopo ricomincia. Mi viene in mente il film comico ma non troppo "Maledetto il giorno che t'ho incontrato" di Verdone, che di ansia e psicoterapia se ne intende.

      La psicologia dovrebbe limitarsi a dare delle linee guida, non dovrebbe essere praticata a mio avviso. È un territorio sdrucciolevole e ignoto, dove le vittorie sono temporanee e oso dire spesso superficiali.


      Enoch

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    2. Perché poi, scusa dimenticavo, si tende sempre a pensare che lo psicoterapeuta sia una persona risolta e dunque adeguatamente preparata ad ascoltare e aiutare i suoi pazienti.
      Ma quando mai!
      Lo psicoterapeuta intanto è un essere umano in cammino anche lui che spesso, anche se sta molto attento a che non accada per una questione di deontologia professionale, tende a non essere obiettivo e adeguatamente distaccato da eventuali giudizi sul paziente stesso.
      Poi tende a pensare in termini di successi e insuccessi come operatore, non dalla parte del paziente che forse ha bisogno di altri stimoli e altri tipi di percorso.
      "Quello lì è stato il mio più grosso fallimento come terapeuta", quante volte l'ho sentito!
      E allora il paziente come deve sentirsi sapendo come la pensi o vedendo che non ne esce???

      Troppo ego in circolazione....
      Affidare la propria psiche ad altri è sempre molto rischioso, dice bene Giuseppe.

      Enoch

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