mercoledì 17 marzo 2021

La Natura del Suono

Marius Schneider

Solo scarsa attenzione ha prestato finora la scienza delle arti figurative alla grande scoperta di E. Seler, secondo la quale le strane figure di dèi delle antiche culture superiori sud-americane non costituiscono affatto i prodotti di una fantasia sfrenata, ma si basano su una composizione del tutto coerente di simboli sonori e attributi mitologici.

Nel decifrare i manoscritti aztechi e quelli maya lo studioso berlinese constatò che disponendo ordinatamente questi segni o queste figure non si può mai individuare una frase grammaticale compiuta, ma pur sempre un ragionamento del tutto univoco. 

Quanto sia profonda la radice di questa ideografia anche nel suono stesso della parola si può riconoscere già dal fatto che parole di suono uguale furono rappresentate con il medesimo segno senza alcun rapporto con il loro eventuale significato o con la diversa ortografia. 

Questi idoli sono in realtà suoni rituali scolpiti nella pietra, dèi che, per colui che sa interpretarli, diventano pietre sonore ...


Ma anche nelle antiche culture asiatiche superiori non mancano figure fantastiche con la bocca aperta, rappresentazioni di sacerdoti e di dèi che ballano e cantano in spoglie animali. Ciò che essi rappresentavano a noi oggi è dato conoscere approssimativamente; ma ancor più difficile è indovinare ciò che la loro bocca un tempo diceva o cantava. E tuttavia dicevano o cantavano per certo ciò che facevano e ciò che erano. Le statue sono mute, poiché son fatte di materia inerte. Ma non dobbiamo mai dimenticare che si tratta di copie di esseri vivi, la cui più elevata e più intensa manifestazione si esplica nella lingua, nella danza e nel canto.

Ci siamo oggi abituati ad un’arte che ignora il suono e spesso, ad esempio alla vista di doccioni gotici, non pensiamo affatto che essi in realtà sono vivificati soltanto dallo scrosciar della pioggia. Il grido rappresentato nei capitelli con i loro mostri fantastici e con le teste di animali nelle fauci spalancate, al modo stesso della loro policromia, trova oggi difficile accesso alla consapevolezza estetica dell’osservatore; ma gli artisti della Nuova Zelanda, che intagliano quelle teste fantastiche così simili a quelle della scultura romanico-bizantina, definiscono i nastri, le piante, le catene o le lunghe lingue sporgenti dalle bocche aperte, chiaramente, come simboli del grido o del linguaggio. 

Molte figure di dèi, di animali sacri, perfino di interi atti cerimoniali, furono rappresentati plasticamente nell’antico Perù su di un recipiente a fischietto o su due vasi (collegati da un condotto) in cui era incorporato un meccanismo a struttura di flauto che sicuramente non traeva origine soltanto da un’idea strana, ma costituiva una componente essenziale dell’opera.

(nella foto: Marius Schneider)

Nelle antiche rappresentazioni delle azioni culturali non bisogna neppure lasciarsi ingannare dai molti ornamenti, dalla quantità di attributi mistici, dall’abbigliamento singolare e dalle varietà degli strumenti rituali.

Nel rituale l’avvenimento centrale è acustico. Esso si svolge entro gli ampi limiti che sono da accordarsi al suono – dal bisbiglio attraverso il linguaggio e il canto fino al grido – e forma sempre il vero e proprio punto cruciale del sacrificio. La “parola” rende effettiva l’azione. Inoltre il suono costituisce l’unico legame esistente tra i vivi e i loro antenati defunti o i loro dèi.

Fu già mostrato in altra sede come nelle antiche cosmogonie questo collegamento sonoro corrispondesse al concetto di “espansione della parola” e avesse la sua radice in quella forza canora che, quale prima manifestazione di un pensiero, creò il mondo, in quanto il suono della vibrazione primordiale sacrificò se stesso per diffondersi progressivamente con il ritmo, in espansione spiraliforme, di vibrazioni sempre più alte e nuove e per trasformarsi a poco a poco in pietra e in carne. 

Sia i miti della creazione dei popoli primitivi, sia le cosmogonie delle culture afro-asiatiche superiori ricordano un suono cupo, sovraconcettuale quale madre del creatore del mondo. 

Questa “prima parola” è la prima manifestazione attiva, il primo desiderio che nasce dalla quiete perfetta e dall’unità dell’abisso primordiale, ossia dalla bocca (che si apre come un uovo) della morte che canta. Il creatore stesso è la “seconda parola” definita ora primo tuono lampeggiante o astro canoro, ora aurora risonante o canto luminoso. In Egitto è il sole canoro che crea il mondo con il suo grido luminoso o Thoth, il dio della parola e della scrittura, della danza e della musica, che con una risata settemplice diede vita al mondo generando ogni volta qualcosa di più grande di lui. Lo stesso Prajapati, il dio vedico della creazione, era soltanto un inno. Il suo corpo era formato da tre sillabe mistiche dal cui sacrificio canoro derivano il cielo, il mare e la terra.

Questo suono di luce, che dapprima creò soltanto un mondo puramente acustico e luminoso, costituisce la sostanza primordiale di tutto il creato. 

Con questa seconda parola ebbero origine le forme prime, cioè suoni che diventarono visibili e comprensibili allo spirito mediante le loro differenti strutture ritmiche. Secondo tali concetti il suono della parola è il suo corpo, mentre il senso della parola è la luce che rischiara il suono. Le forme originarie, definite dalla tradizione vedica ritmi-primordiali (rsi), sono immagini acustiche che costituiscono al contempo il primo sacrificio che con il suo risuonare e il smorzarsi crea il tempo ed un movimento immateriale.

Secondo la dottrina indù il potere del sacrificio del suono (vac, parola) è così grande che già all’inizio dei tempi dèi e demoni lottarono gli uni contro gli altri per impossessarsi del potere della forza canora. A chi si impadroniva di questo canto, era data un’autorità infinita. Tuttavia un giorno vac sfuggì agli dèi e si rifugiò (come si legge nel Tandya-Maha-Brahmana VI, 5, 10-13) nelle acque, negli alberi e infine nei tamburi e nelle cetre, negli archi e negli assi dei carri. Questo significa che il mondo, in origine di natura puramente acustico-intellettuale, si materializzò a poco a poco con una terza “parola”.
Materializzandosi parzialmente, però, le immagini acustiche si trasformarono in immagini che, ora anche concretamente, cominciarono a diventare visibili e tangibili. Con ciò il suono puro in parte andò perduto e nacque la materia.

Tratto da: Marius Schneider, Pietre che cantano, Edizioni Arché, Milano 1976, per gentile concessione dell’editore.

Fonte: www.nemetonmagazine.net (sito oggi off line)

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