Premessa.
E’ di questi giorni la notizia, riportata su Tg e giornali, che un medico sarebbe stato accusato di omicidio colposo per aver seguito le cosiddette teorie Hameriane, nella cura di un paziente oncologico.
La notizia è priva di senso, come l’accusa mossa al medico. Vediamo il perché, precisando che il mio discorso sarà prima di tutto giuridico, rimandando ad altre fonti per gli approfondimenti medici, che non sono di mia competenza.
Al termine del nostro articolo vedremo come non sia possibile ipotizzare un’accusa di omicidio per chi segue le teorie hameriane, mentre in alcuni casi sarebbe possibile ascrivere a medici tradizionali il reato di omicidio colposo.
Hamer
Le teorie Hameriane non sono in realtà teorie, ma sono “risultati” dello studio scientifico condotto da questo medico nell’ambito dell’oncologia. Hamer è giunto a concludere che ogni patologia oncologica è associata ad un trauma specifico, cui si può risalire in modo scientifico. Corollario di questo primo punto, è che una volta capito il trauma, il paziente può guarire da solo, senza necessità di particolari cure.
Le teorie Hameriane, è bene precisarlo, non sono teorie che indicano una cura, ma servono solo a fare una diagnosi della cause.
Una volta avuta la diagnosi, insomma, il paziente è libero di curarsi come vuole. Anzi, talvolta, proprio in base alla psicologia del paziente, si consiglia di praticare terapie alternative, a seconda dei casi...
Sono stato testimone di questo due anni fa, quando una persona a me cara si ammalò di tumore al seno; la accompagnai da ben due medici Hameriani, ed entrambi, dopo averle fatto la stessa diagnosi (un problema nel rapporto con la madre, che lei riconobbe come vero) le sconsigliarono di cessare le cure convenzionali che stava facendo (cure che la porteranno alla morte nel giro di 10 mesi).
Ipotizzare un’accusa di omicidio colposo nel caso di un medico che segua le teorie hameriane è quindi privo di senso logico – giuridico, perché la persona non muore per la “terapia” (che lo ripeto, è una diagnosi), ma muore di tumore.
Si obietterà che nel caso in cui il medico sconsigli, come in effetti può avvenire, di seguire le vie terapeutiche ufficiali, il fatto assume la veste del reato omissivo (non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo). In altre parole, il medico non viene accusato perché “ha ucciso” il paziente, ma perché “non ha impedito che il paziente morisse”.
Ora, per poter accusare un medico Hameriano di omicidio colposo, ammesso che ostui abbia sconsigliato la paziente dal curarsi in modo convenzionale, occorrerebbe ipotizzare (e dimostrare in modo inequivocabile) che la paziente sarebbe guarita grazie alle cure convenzionali prescritte (di norma: chemioterapia e radioterapia). Tale prova è praticamente impossibile, come stiamo per vedere.
Le statistiche dell’oncologia ufficiale.
Le teorie Hameriane, è bene precisarlo, non sono teorie che indicano una cura, ma servono solo a fare una diagnosi della cause.
Una volta avuta la diagnosi, insomma, il paziente è libero di curarsi come vuole. Anzi, talvolta, proprio in base alla psicologia del paziente, si consiglia di praticare terapie alternative, a seconda dei casi...
Ipotizzare un’accusa di omicidio colposo nel caso di un medico che segua le teorie hameriane è quindi privo di senso logico – giuridico, perché la persona non muore per la “terapia” (che lo ripeto, è una diagnosi), ma muore di tumore.
Si obietterà che nel caso in cui il medico sconsigli, come in effetti può avvenire, di seguire le vie terapeutiche ufficiali, il fatto assume la veste del reato omissivo (non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo). In altre parole, il medico non viene accusato perché “ha ucciso” il paziente, ma perché “non ha impedito che il paziente morisse”.
Ora, per poter accusare un medico Hameriano di omicidio colposo, ammesso che ostui abbia sconsigliato la paziente dal curarsi in modo convenzionale, occorrerebbe ipotizzare (e dimostrare in modo inequivocabile) che la paziente sarebbe guarita grazie alle cure convenzionali prescritte (di norma: chemioterapia e radioterapia). Tale prova è praticamente impossibile, come stiamo per vedere.
Le statistiche dell’oncologia ufficiale.
Le statistiche ufficiali parlano di “guarigioni” dai tumori che si attestano attorno al 5 per cento. In altre parole, solo il 5 per cento guarisce.
Occorre considerare però che un paziente è considerato guarito se non muore entro 5 anni dalla scoperta del tumore; le statistiche formulate su pazienti a dieci anni dalla scoperta, invece, parlano di circa il 2,5 per cento di guarigioni.
In altre parole, il tumore è una malattia mortale, quindi per poter accusare un medico che pratica terapie alternative di omicidio, bisognerebbe dimostrare che la terapia convenzionale prescritta lo avrebbe davvero guarito.
A questo primo aspetto da considerare occorre aggiungerne un altro. Ammesso e non concesso che una terapia convenzionale allungherebbe in modo significativo la vita del paziente, bisognerebbe considerare anche la qualità della vita di costui, comparando le due strade; infatti, è innegabile che chemioterapia e radioterapia abbiano una serie di effetti collaterali sulla qualità di vita del paziente, tali da rendere legittima la domanda: la persona sarebbe vissuta meglio o peggio senza le cure?
La domanda me la sono posta anche io, stando accanto a Mariapaola nei dieci mesi della sua malattia. Si è trattato di dieci mesi in cui i cicli di chemioterapia la sfinivano fisicamente, vomitava, doveva spesso stare a letto per uno, due, a volte tre giorni; gli ultimi tre mesi poi li ha passati a letto, in preda a dolori; in definitiva sono stati dieci mesi di inferno, tali da rendere legittima la domanda: ammesso e non concesso che senza chemioterapia sarebbe vissuta meno, la sua vita sarebbe stato peggiore o migliore? (ho i miei dubbi che il suo tumore al seno, un nodulo di circa tre cm, senza cure l’avrebbe uccisa in dieci mesi facendole passare poi le sofferenze che ha effettivamente passato).
Queste quindi sono le due domande cui bisogna rispondere positivamente prima di poter accusare un medico di omicidio colposo:
1) la paziente se avesse seguito una cura tradizionale sarebbe sopravvissuta o no?
2) La paziente se avesse seguito una cura tradizionale avrebbe avuto una migliore qualità della vita?
Occorre considerare però che un paziente è considerato guarito se non muore entro 5 anni dalla scoperta del tumore; le statistiche formulate su pazienti a dieci anni dalla scoperta, invece, parlano di circa il 2,5 per cento di guarigioni.
In altre parole, il tumore è una malattia mortale, quindi per poter accusare un medico che pratica terapie alternative di omicidio, bisognerebbe dimostrare che la terapia convenzionale prescritta lo avrebbe davvero guarito.
A questo primo aspetto da considerare occorre aggiungerne un altro. Ammesso e non concesso che una terapia convenzionale allungherebbe in modo significativo la vita del paziente, bisognerebbe considerare anche la qualità della vita di costui, comparando le due strade; infatti, è innegabile che chemioterapia e radioterapia abbiano una serie di effetti collaterali sulla qualità di vita del paziente, tali da rendere legittima la domanda: la persona sarebbe vissuta meglio o peggio senza le cure?
La domanda me la sono posta anche io, stando accanto a Mariapaola nei dieci mesi della sua malattia. Si è trattato di dieci mesi in cui i cicli di chemioterapia la sfinivano fisicamente, vomitava, doveva spesso stare a letto per uno, due, a volte tre giorni; gli ultimi tre mesi poi li ha passati a letto, in preda a dolori; in definitiva sono stati dieci mesi di inferno, tali da rendere legittima la domanda: ammesso e non concesso che senza chemioterapia sarebbe vissuta meno, la sua vita sarebbe stato peggiore o migliore? (ho i miei dubbi che il suo tumore al seno, un nodulo di circa tre cm, senza cure l’avrebbe uccisa in dieci mesi facendole passare poi le sofferenze che ha effettivamente passato).
Queste quindi sono le due domande cui bisogna rispondere positivamente prima di poter accusare un medico di omicidio colposo:
1) la paziente se avesse seguito una cura tradizionale sarebbe sopravvissuta o no?
2) La paziente se avesse seguito una cura tradizionale avrebbe avuto una migliore qualità della vita?
Approfondendo la questione dal punto di vista giuridico, però, si possono fare altre considerazioni, per giungere addirittura a ribaltare le conclusioni cui perviene la stampa la tv main stream. Non è il medico Hameriano che può essere accusato di omicidio colposo, ma il medico tradizionale che, per come viene condotta la cura nei principali centri oncologici, potrebbe essere responsabile di omicidio.
Per capire il perché occorre fare un ragionamento giuridico un po’ tecnico, ma indispensabile
La responsabilità del medico oncologo che prescriva unicamente il protocollo ufficiale
Di recente la responsabilità del medico in campo penale è stata “innovata” dal cosiddetto decreto Balduzzi, il quale ha stabilito che il medico che segue i protocolli ufficiali è esonerato da responsabilità penale, salvo che abbia agito con colpa grave.
Anticipando quindi l’excursus logico e giuridico della trattazione, ci occuperemo – nell’ordine – dei seguenti problemi:
- le reali novità apportate dal decreto Balduzzi rispetto alla previgente legislazione in materia di responsabilità medica;
- il rapporto tra “protocolli ufficiali” e ulteriori studi scientifici, non considerati nel protocollo stesso;
- se la mancata conoscenze di basilari cognizioni alimentari sia da considerarsi un caso di negligenza e imperizia grave da parte dei medici, o se invece – trattandosi di trattamenti non inclusi nei protocolli ufficiali – possa inquadrarsi il caso nell’ambito della colpa lieve o se addirittura non possa affermarsi che al medico non sia da imputarsi alcuna responsabilità.
Iniziando dal primo punto, c’è da dire che il decreto Balduzzi, nonostante tutte le polemiche che lo hanno accompagnato, non sembra abbia portato alcuna novità nell’ambito della disciplina previgente.
Nessuno ha mai dubitato, infatti, che il medico che avesse seguito scrupolosamente le linee guida e i protocolli ufficiali, in caso di evento infausto non dovesse rispondere penalmente o perlomeno che, in caso di accertata responsabilità, l’elemento soggettivo dovesse essere ricondotto alla colpa lieve da parte sua.
Il decreto Balduzzi, quindi, nulla ha innovato da questo punto di vista limitandosi a ribadire quanto già a livello giurisprudenziale era in realtà praticato da tempo. Se una ricaduta nella consuetudine quotidiana della pratica medica c’è stata, questa è da riscontrarsi sul piano della prassi, perché il ribadire la mancanza di responsabilità per il medico che segue il protocollo, ha accentuato il deplorevole fenomeno della cosiddetta medicina difensiva, cioè l’arroccarsi dei medici ai protocolli ufficiali come dei panda agli eucalipti, anche quando ci siano più che ragionevoli motivi per discostarsene e anche a fronte di protocolli che si siano dimostrati completamente inefficaci sul singolo paziente o su intere categorie di pazienti.
In altre parole, il medico oggi, per paura di rischiare, segue pedissequamente il protocollo, al fine di precostituirsi un comodo paravento nel caso le cose in cui avessero un esito negativo.
Purtuttavia, nonostante il decreto Balduzzi abbia accentuato questo fenomeno, occorre svolgere una serie di considerazioni.
In primo luogo il medico – come ha stabilito anche la cassazione di recente – non solo non è tenuto a seguire necessariamente i protocolli ufficiali, ma è addirittura obbligato a discostarsene lì dove ci siano delle ragioni evidenti, stante la situazione particolare del singolo paziente, che renda consigliabile un percorso alternativo (ad esempio immaginiamo un paziente che dimostri un alta intollerabilità alla chemio; il medico avrebbe addirittura l’obbligo di consultarsi con altri colleghi praticanti altri protocolli diversi da quelli ufficiali, per confrontare le possibilità di guarigione).
In secondo luogo, l’esonero da responsabilità del medico che segue pedissequamente i protocolli ufficiali avrebbe un senso se si partisse dal presupposto che all’università si esaurisse tutto il possibile campo del sapere medico; in realtà l’università, come è noto a chiunque abbia una laurea e sia esperto in una qualsiasi disciplina, fornisce solo gli strumenti di base per orientarsi in un determinato mondo, ma per essere davvero specialisti di una qualsiasi scienza (sia essa medica, giuridica, storica, scientifica) occorrono poi anni di ricerche e di studi successivi, oltre che anni di pratica effettiva.
Così come le conoscenze di un avvocato maturano solo con gli anni e con lo studio, e le conoscenze di uno storico progrediscono con l’approfondimento successivo, ecc., allo stesso modo il medico, una volta esaurito il percorso di studi universitario ha il dovere di informarsi su tutti i progressi, gli studi, e le competenze, conseguiti nel suo ambito e di non fermarsi alle nozioni, sia pur ottime e scientificamente avanzate, apprese durante i primi anni.
Il medico quindi, una volta formatosi e specializzatosi, non è esentato dal continuare ad informarsi, a conoscere, ad approfondire, potendo (e anzi dovendo) approcciarsi anche a metodi differenti ed alternativi rispetto a quelli ufficiali, specialmente quando questi metodi siano praticati e conosciuti nell’ambito di comunità scientifiche di paesi differenti o di scuole di pensiero che, benché diverse, garantiscano serietà e competenza.
Tali protocolli garantiscono certamente affidabilità e sicurezza, ma non esimono il medico dal dovere di informarsi sullo stato della ricerca nel suo campo specifico, e non lo esimono dal seguire normali regole di buon senso o salutistiche acquisite addirittura nei secoli, e frutto dall’esperienza maturata in secoli di pratica medica per una qualsiasi malattia.
Per fare un esempio, nei protocolli per la cura di alcune malattie dell’apparato respiratorio non è previsto che al paziente venga vietato di vivere in un ambiente inquinato, per il semplice motivo che questa è una regola conosciuta da secoli e data per scontata (basta ricordare il vecchio medico di famiglia che prescriveva, decenni fa, di fare un mese di montagna o un mese di mare).
Per fare un esempio, nei protocolli per la cura di alcune malattie dell’apparato respiratorio non è previsto che al paziente venga vietato di vivere in un ambiente inquinato, per il semplice motivo che questa è una regola conosciuta da secoli e data per scontata (basta ricordare il vecchio medico di famiglia che prescriveva, decenni fa, di fare un mese di montagna o un mese di mare).
Ora, non si può forse pretendere che il medico oncologo conosca tutte le teoria, le tecniche e le terapie alternative previste nel mondo (dalla medicina antropsofica a quella hameriana) per applicarle in modo ottimale al paziente; ma si può, e si deve pretendere, che il medico conosca almeno le basi dell’alimentazione corretta, oltre a un ventaglio di possibilità alternative da consigliare al paziente a seconda del caso specifico.
Solo per fare l’esempio più banale, prendiamo in considerazione gli studi scientifici nutrizionali, applicati ad una persona affetta da un tumore localizzato nell’apparato gastrointestinale.
Il fatto di porre attenzione alla dieta, per i malati oncologici il cui tumore sia localizzato in tali zone, dovrebbe essere dato addirittura per scontato essendo una pratica conosciuta da secoli (l’alimentazione vegetariana come pratica salutistica era conosciuta addirittura da Pitagora, da Paracelso, e da Ippocrate, oltre ad essere ormai riconosciuta anche da esperti oncologi come i professori Veronesi e Berrino, solo per rimanere in Italia e riferirci a medici contemporanei).
La conoscenza dei principi alimentari di base, ancorché alla facoltà di medicina l’esame di alimentazione sia un semplice “complementare”, deve essere considerata una delle basi della scienza medica in genere. L’importanza dell’alimentazione nella salute è infatti riconosciuta da secoli, ed è sufficiente entrare in una qualsiasi libreria per trovare decine di libri sull’argomento, a riprova del fatto che tali conoscenze non sono appannaggio di una ristretta classe di medici alternativi, ma sono diffuse a tutti i livelli.
Che poi l’alimentazione sia assolutamente fondamentale quando la patologia interessa organi dell’apparato gastrointestinale è un dato che è addirittura ovvio anche per un profano.
Eppure la maggior parte dei medici tradizionali trascura questo aspetto quando propone al paziente le sue “cure”.
La mancata conoscenza di tali nozioni da parte di un medico quindi, non è una negligenza “lieve” ma addirittura grave o gravissima, potendo sconfinare addirittura nel dolo eventuale. Ricordo quando ero in reparto, che feci una semplice domanda ad una oncologa che era ben consapevole dell’importanza dell’alimentazione: perché se conoscete l’importanza dell’alimentazione somministrate ai pazienti con tumori allo stomaco, intestino, pancreas, gli stessi alimenti che somministrate negli altri reparti?
La risposta fu “si tratta di ragioni amministrative”.
In conclusione: il medico ufficiale, non adeguatamente informato dei principi base della dietetica per i pazienti tumorali, non versa solo in colpa grave, ma il suo comportamento sfocia addirittura nel comportamento doloso.
Né ha pregio l’argomento, cavalcato talvolta in sede difensiva da alcuni avvocati, che la patologia in questione abbia comunque un esito mortale e quindi il medico non può dirsi responsabile della morte; infatti anche se un paziente è terminale, ciò non esime chi lo ha in cura da tenere nella massima considerazione sia la qualità che la quantità della vita del paziente stesso; sul punto vale ricordare che nel nostro ordinamento è proibita l’eutanasia, quindi a maggior ragione non è permesso al medico di disinteressarsi di un paziente sol perché questo è comunque destinato alla morte.
Si potrebbe obiettare nel nostro caso che, per quanto riguarda gli studi scientifici alternativi a quelli ufficiali, non esiste una prova sicura – non essendo tali studi effettuati su ampio numero di pazienti tali da garantire la certezza - della possibilità di guarigione; e tuttavia, essendo in gioco un bene importantissimo quale la vita, anche una minima probabilità di sopravvivenza imporrebbe al medico di seguire tale strada, qualora ovviamente non esistano controindicazioni e possibilità di danni collaterali.
In particolare, per quanto riguarda il nesso causale, la Cassazione ha avuto modo di stabilire che “nello specifico settore dell’attività medico-chirurgica il nesso causale può essere ravvisato quando alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzando come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva, e ciò non in forza di un mero coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, ma secondo un “elevato grado di credibilità razionale” o probabilità logica, con l’effetto che il ragionevole dubbio in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo determina la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio (cass. 9457/2013).
Ora applicando i principi enunciati dalla cassazione ai casi più comuni di applicazione dei protocolli ufficiali senza seguire alcuna dieta, possiamo affermare quanto segue:
- curando la paziente con una dieta adeguata, l’evento si sarebbe verificato in epoca posteriore e con minore intensità lesiva;
- a tale risultato si perviene con sicurezza, e senza “ragionevoli dubbi”, in base agli studi medici più avanzati in campo alimentare, con “elevato grado di credibilità razionale” e probabilità logica.
Dunque il medico risponderà per omicidio colposo, anche se il fatto che tali protocolli alimentari non vengano insegnati all’università, potrà incidere sulla gravità del reato, ai sensi dell’articolo 133 cp, e della sanzione finale irrogata dal giudice, che dovrà tenere conto della particolare condizione di ignoranza in cui versa la classe medica in questo settore, indotta in qualche modo dagli stessi protocolli ufficiali approvati dal ministero e dallo stesso decreto Balduzzi, che non incentiva i medici a scelte terapeutiche particolarmente innovative e personalizzate.
Non è quindi il medico Hameriano a dover rispondere di omicidio colposo, ma il medico tradizionale.
Solo per fare l’esempio più banale, prendiamo in considerazione gli studi scientifici nutrizionali, applicati ad una persona affetta da un tumore localizzato nell’apparato gastrointestinale.
Il fatto di porre attenzione alla dieta, per i malati oncologici il cui tumore sia localizzato in tali zone, dovrebbe essere dato addirittura per scontato essendo una pratica conosciuta da secoli (l’alimentazione vegetariana come pratica salutistica era conosciuta addirittura da Pitagora, da Paracelso, e da Ippocrate, oltre ad essere ormai riconosciuta anche da esperti oncologi come i professori Veronesi e Berrino, solo per rimanere in Italia e riferirci a medici contemporanei).
La conoscenza dei principi alimentari di base, ancorché alla facoltà di medicina l’esame di alimentazione sia un semplice “complementare”, deve essere considerata una delle basi della scienza medica in genere. L’importanza dell’alimentazione nella salute è infatti riconosciuta da secoli, ed è sufficiente entrare in una qualsiasi libreria per trovare decine di libri sull’argomento, a riprova del fatto che tali conoscenze non sono appannaggio di una ristretta classe di medici alternativi, ma sono diffuse a tutti i livelli.
Che poi l’alimentazione sia assolutamente fondamentale quando la patologia interessa organi dell’apparato gastrointestinale è un dato che è addirittura ovvio anche per un profano.
Eppure la maggior parte dei medici tradizionali trascura questo aspetto quando propone al paziente le sue “cure”.
La mancata conoscenza di tali nozioni da parte di un medico quindi, non è una negligenza “lieve” ma addirittura grave o gravissima, potendo sconfinare addirittura nel dolo eventuale. Ricordo quando ero in reparto, che feci una semplice domanda ad una oncologa che era ben consapevole dell’importanza dell’alimentazione: perché se conoscete l’importanza dell’alimentazione somministrate ai pazienti con tumori allo stomaco, intestino, pancreas, gli stessi alimenti che somministrate negli altri reparti?
La risposta fu “si tratta di ragioni amministrative”.
In conclusione: il medico ufficiale, non adeguatamente informato dei principi base della dietetica per i pazienti tumorali, non versa solo in colpa grave, ma il suo comportamento sfocia addirittura nel comportamento doloso.
Né ha pregio l’argomento, cavalcato talvolta in sede difensiva da alcuni avvocati, che la patologia in questione abbia comunque un esito mortale e quindi il medico non può dirsi responsabile della morte; infatti anche se un paziente è terminale, ciò non esime chi lo ha in cura da tenere nella massima considerazione sia la qualità che la quantità della vita del paziente stesso; sul punto vale ricordare che nel nostro ordinamento è proibita l’eutanasia, quindi a maggior ragione non è permesso al medico di disinteressarsi di un paziente sol perché questo è comunque destinato alla morte.
Si potrebbe obiettare nel nostro caso che, per quanto riguarda gli studi scientifici alternativi a quelli ufficiali, non esiste una prova sicura – non essendo tali studi effettuati su ampio numero di pazienti tali da garantire la certezza - della possibilità di guarigione; e tuttavia, essendo in gioco un bene importantissimo quale la vita, anche una minima probabilità di sopravvivenza imporrebbe al medico di seguire tale strada, qualora ovviamente non esistano controindicazioni e possibilità di danni collaterali.
In particolare, per quanto riguarda il nesso causale, la Cassazione ha avuto modo di stabilire che “nello specifico settore dell’attività medico-chirurgica il nesso causale può essere ravvisato quando alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzando come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva, e ciò non in forza di un mero coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, ma secondo un “elevato grado di credibilità razionale” o probabilità logica, con l’effetto che il ragionevole dubbio in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo determina la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio (cass. 9457/2013).
Ora applicando i principi enunciati dalla cassazione ai casi più comuni di applicazione dei protocolli ufficiali senza seguire alcuna dieta, possiamo affermare quanto segue:
- curando la paziente con una dieta adeguata, l’evento si sarebbe verificato in epoca posteriore e con minore intensità lesiva;
- a tale risultato si perviene con sicurezza, e senza “ragionevoli dubbi”, in base agli studi medici più avanzati in campo alimentare, con “elevato grado di credibilità razionale” e probabilità logica.
Dunque il medico risponderà per omicidio colposo, anche se il fatto che tali protocolli alimentari non vengano insegnati all’università, potrà incidere sulla gravità del reato, ai sensi dell’articolo 133 cp, e della sanzione finale irrogata dal giudice, che dovrà tenere conto della particolare condizione di ignoranza in cui versa la classe medica in questo settore, indotta in qualche modo dagli stessi protocolli ufficiali approvati dal ministero e dallo stesso decreto Balduzzi, che non incentiva i medici a scelte terapeutiche particolarmente innovative e personalizzate.
Non è quindi il medico Hameriano a dover rispondere di omicidio colposo, ma il medico tradizionale.
PS. A Mariapaola De Stefano venne diagnosticato un tumore al seno nel giugno 2013. A febbraio 2014 si operò al seno dopo vari cicli di chemioterapia. Dopo quindici giorni dall'operazione le vennero diagnosticate metastasi a: cervelletto, midollo, ossa, colonna, fegato. Ad aprile 2014 era morta.
Contemporaneamente una mia amica, Francesca, ebbe una identica diagnosi di tumore al seno (identico anche nel tipo di tumore, il cosiddetto triplo negativo, il più aggressivo e mortale tra tutti i tumori al seno). A seguito dell'operazione al seno, come a Mariapaola, il tumore era metastatizzato. Ad oggi è ancora viva, perché ha seguito la terapia Di Bella, con totale scomparsa delle metastasi.
Nella foto: un'immagine dello spettacolo "protocols" per la regia di Riccardo Dujani, dedicato alla storia di Mariapaola e di Francesca. Quest'ultima, ha potuto seguire lo spettacolo, tenuto al teatro Rada di Londra. Mariapaola no.
Fonte: paolofranceschetti.blogspot.it
Fonte: paolofranceschetti.blogspot.it
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