Me lo riprometto da due giorni, da quando la notte è stata squarciata dal terremoto. Mentre faccio ancora i conti con la mia paura e con il bisogno di ritornare alla normalità, ho pensato di scrivere una nota molto personale.
Notte inquieta. Mi addormento presto, ma alle 23 e 15 mi sveglio, agitata. Faccio su e giù dal letto continuamente, non c’è posizione adatta che possa conciliare il sonno. La giornata è trascorsa serena e proprio non capisco la mia inquietudine. Vado a vedere mio figlio nel suo lettino e gli sistemo le coperte. Mi rassegno e verso le 3 e 40 guardo la radio sveglia per l’ultima volta: finalmente riesco a dormire.
Arriva come il tuono. Un fulmine che si schianta a pochi metri da me. E’ come un treno nella camera da letto. Apro gli occhi mentre comincio ad essere sobbalzata verso l’alto: un pesantissimo armadio di legno massiccio davanti a me sta oscillando paurosamente, mentre il boato cupo diventa frastuono. Mio marito si sveglia una frazione di secondo dopo di me e mi chiede: “Cos’è?”. Mentre un flash mi attraversa la mente “Impossibile qui!”, urlo “E’ il terremoto! Scappiamo! Vai da Ricky!!!” Mi puntello con mani e gomiti sul letto e cerco di correre in stanza del bambino, ma il terremoto mi sbatte da una parte all’altra. Arrivo in cameretta quasi a carponi. Mio marito è sopra di lui: vuole proteggerlo dalla caduta degli oggetti che fuoriescono dagli armadi che la furia del terremoto apre e sbatte violentemente...
Si tratta di pochi secondi, in tutto; una sequenza temporale di una rapidità indescrivibile. E’ istantanea, ma il ricordo dilata il tempo). Io urlo “Fuori! Via, fuori da qui!”, prendo in braccio mio figlio strappandolo dal lettino insieme alle lenzuola e alle coperte e comincio a correre. Attraverso il soggiorno, senza mai guardare indietro: cadono le suppellettili, ci sono rumori di vetri che vanno in frantumi, quadri che sbattono, mentre la furia del terremoto continua a squassare le pareti, il pavimento, il palazzo intero. Due piani di scale per farcela, per sopravvivere. Sì quello è il pensiero in quel momento: “dobbiamo salvarci. Qui vien giù tutto”. Stringo mio figlio e sento che lui è sveglio e si tiene aggrappato a me. Trovo il fiato di dirgli “Coraggio amore. Ce la facciamo. Stiamo arrivando fuori, ormai ci siamo!”. Non ho più fiato, il terrore mi toglie la voce. Il terremoto mi sbatte da una parte all’altra, ma continuo a correre. Non vedo i gradini. C’è la luce accesa, ma le coperte mi tolgono la visibilità. Non so come, ma arrivo al piano terra. Poco prima di toccare il pavimento, il frastuono e la violenza del terremoto si spengono. Ci sono solo urla intorno: sono la prima a uscire, con la mia vicina del piano terra. Ho volato. Non so ancora come ci sono riuscita, come ho fatto a non cadere. Stringo Riccardo a me e lo bacio. Siamo vivi.
Arrivata fuori mi rendo conto di come sono messa: ho addosso solo la maglia del pigiama e le mutande e sono scalza. Ho camminato sul marciapiede e sull’erba e non avevo realizzato. Prendo una delle lenzuola che ho strappato dal lettino insieme a mio figlio e me la metto intorno. Non sento freddo. Il cuore batte così forte che sembra uscire da un momento all’altro dal petto; mi manca il fiato; la paura mi stritola la gola. Mio figlio trema così forte che sembra avere delle convulsioni: “Hai freddo?” “No, mamma. Ho paura.” Lo abbraccio forte e lo rincuoro. Arrivano gli altri inquilini: i volti sono sconvolti e sono maschere di terrore. Non ci sono parole. Arriva anche mio marito: ha preso con sé il telefono, per chiamare i nostri parenti e amici. Entrambi abbiamo lo stesso pensiero: “con una scossa così forte, chissà quante case sono andate giù”.
Eppure il nostro palazzo è qui davanti ai nostri occhi: “ho seguito la costruzione, ed è antisismico”, ci rassicura mio marito. Telefono ai miei genitori; abitano a 25 km chilometri da me. Sono spaventati a morte, ma stanno bene. Chiamo Max a Genova: sento subito che è preoccupatissimo. Mi lascio andare: “… è stato come all’Aquila. Qui da noi. Sarà andato giù di tutto. Chissà com’è in centro!”. Mx comprende la gravità e si dispera: è collegato con Barbara e condivide subito le informazioni. “Nando non risponde. Il suo telefono suona, ma lui non risponde”. Ci prende l’angoscia: ora siamo in tre a tentare di chiamarlo, ma non ci risponde. Inoltre, pensando di dover restare fuori a lungo, mi rendo conto che ci serve qualcosa da mangiare, da bere e da coprirci. Mi faccio coraggio e salgo in casa, turnandomi con mio marito. E’ mostruoso rientrare nell’appartamento, anche se è una toccata e fuga. Prendo coperte, vestiti, cracker, biscotti, acqua e succhi e prendo al volo il computer che è vicino alla porta. E corro di nuovo giù, velocissima.
Con mio marito e mio figlio prendiamo l’auto: Nando abita a un paio di chilometri da me. Lo troviamo nel parco di fianco a casa sua, insieme a tutti i suoi inquilini. Nella parete laterale del palazzo si è aperta una vistosissima crepa, trasversale. Sta bene, ma come noi è scioccato: “Ho pensato che stavo morendo”. Siamo tutti increduli, con la paura che trasuda dalla nostra pelle. Ma siamo vivi.
Avverto Max: siamo in salvo tutti. Non ce la sentiamo di salire nelle nostre case: passiamo un po’ di tempo accanto al parco, poi torno verso casa mia. Sono ancora tutti fuori: la protezione civile avrebbe inviato dei messaggi dicendo di non entrare in casa perché verso le 7 si attende una nuova scossa. Sembra un po’ strana questa cosa (la protezione civile avrebbe i numeri di cellulare di alcuni di noi e saprebbe con certezza a che ora arriva una nuova scossa?) e decidiamo di salire in casa per pochi minuti: il tempo di fare le valigie. Pochi vestiti, alcuni giochi e peluches per ricky, cuscini, piumoni, giubboni, acqua, cibo, carica batteria per il telefono. E poi giù di nuovo di corsa, insieme agli altri vicini. Pochi minuti dopo arriva Nando in auto: ha portato un pallone e i bambini del palazzo possono distrarsi giocando insieme. Li vediamo correre rincorrendo il pallone e guardiamo la vita andare avanti.
Ora la cosa più difficile per me è smorzare il ricordo della violenza del terremoto e vincere la paura che mi è entrata dentro e che ancora mi impedisce di dormire, nonostante – dopo una prima notte passata integralmente in auto – ieri sia rientrata in casa, nel mio letto. Mio figlio ha dormito accanto a me. Vicino alla porta una coperta e uno zaino con dei viveri. Il telefono dentro alla borsa sul comodino. Vestita, come è vestito anche il mio bambino, che sconfigge il suo terrore e si addormenta. Lo guardo per tutta la notte, in allarme a ogni piccolo dondolio del letto (sono arrivate piccole scosse), pronta a scattare fuori. Oggi sono distrutta. Sfinita. Stremata non solo per la stanchezza, ma anche per questo nuovo nemico, la paura, fatta del frastuono, del boato cupo che è entrato dentro e che continua a rimbombarmi nelle orecchie, del ricordo della violenza del terremoto che scorre davanti agli occhi ogni volta che li chiudo.
Questa è la mia sfida adesso: affievolire la dirompenza del ricordo, rassegnarmi all’impotenza di fronte a un evento tanto traumatico, tornare alla normalità, sapendo che nulla comunque sarà come prima. Le emozioni, le sensazioni ora sono tutte amplificate: quelle negative, ma anche quelle positive. Stavo per mettermi a piangere quando l’altra notte, mio figlio, che non ha ancora 6 anni, dormendo in braccio a me in auto, si svegliava abbracciandomi e dandomi tanti bacetti, oppure quando ieri sera mi ha stretta dicendomi “Ieri notte, mamma, mi hai salvato.”
In questa nuova linfa per questa mia vita che si è rinnovata, per la mia esistenza che ha un nuovo senso, per il futuro e la serenità di mio figlio e per l’importanza e l’urgenza delle battaglie in sospeso: devo sconfiggere le mie paure e impegnarmi nel nuovo tempo che mi è stato donato, per le cose davvero importanti e fondamentali, per le persone che amo, per la mia città ferita e per i comuni vicini che soffrono e piangono lutti. Per questo paese, mortificato e strangolato da chi si è immolato al dio denaro e non conosce il valore della vita e la pienezza di un’esistenza vissuta per il bene della gente. Vincerò la mia paura.
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