lunedì 14 agosto 2023

Cancel Culture, chi controlla il passato controlla il futuro


di Ivan Petruzzi

Cancel culture
, la cultura della cancellazione, un concetto che nasce e che si sviluppa fortemente negli Stati Uniti subito dopo l’avvento dei social media, per poi propagarsi e rimodularsi negli anni successivi con una certa veemenza, tant’è vero che nel 2019 il dizionario australiano Macquarie ha eletto il concetto “cancel culture” come la terminologia dell’anno.

Definire con precisione la cancel culture, però, è un’operazione piuttosto difficile, soprattutto in questa “società liquida”, come la chiamava Bauman, una società che per sua natura si decompone e si ricompone rapidamente, cambiando forma e significato.

La cultura della cancellazione non è esente da questa metamorfosi concettuale. 
Una cultura semovente che si è ramificata in direzioni differenti. Inizialmente, infatti, la cancel culture prendeva di mira personaggi noti e aziende. 
Al loro minimo errore, alla loro prima pecca e sulla presunzione di colpevolezza, si metteva in atto la macchina del fango che cancellava tutto quanto quel personaggio o quell’azienda aveva fatto fino a quel momento, per mettere in risalto solo quella che era la “macchia pubblica”, talvolta colpevoli di comportamenti ritenuti eticamente censurabili o politicamente scorretti ...


Una forma di ostracismo e di boicottaggio del singolo che si è trasformata successivamente in un’arma per promuovere il politicamente corretto su scala collettiva, usando gli stessi criteri. 
Pagine intere di storia, di cultura, di tradizioni bandite o rieditate, per cancellare le tracce di un passato caratterizzato da valori e ideali che vengono considerati anacronistici per i nostri tempi.
In altre parole, si è dato vita alle parole scritte da George Orwell nel suo romanzo visionario a carattere distopico intitolato “1984”: «chi controlla il passato controlla il futuro

Sì, perché lo scopo della cancel culture è proprio quello di determinare e direzionare il futuro di una società: il modo di pensare, di agire, cosa acquistare, cosa vedere ma soprattutto, cosa eliminare, cosa non pensare, come non agire, cosa non dire. Un addestramento già noto con il nome di “sovra-socializzazione”.

Non è un mistero il fatto che fin dalla primissima infanzia veniamo addestrati a pensare all’interno di un recinto ben definito e ci vengono imposti dei confini netti, oltre i quali la nostra mente non è in grado di andare; pena un perenne senso di colpa e l’automatica esclusione (anche coatta) dal gruppo sociale di riferimento.

Tendendo ogni società a generare una serie di valori, inclusi nella categoria di “virtù”, e altrettanti disvalori, identificati con il concetto di “vizio”, veniamo così costantemente spinti a rigettare ciò che i legislatori identificano come “male assoluto”, a seconda delle esigenze, e ad abbracciare con gioia la scala di valori predominante in un dato contesto storico e sociale.
Anche se sarebbe sufficiente spostarsi un po’ a ritroso nel tempo, oppure di qualche migliaio di chilometri, per comprendere come i nostri vizi e le nostre virtù risultino diametralmente opposti ai valori vigenti in un differente contesto, proprio non riusciamo ad uscire dallo steccato che il Potere ha tracciato per noi in tenera età, senza provare un infinito senso di colpa e di distacco.

Il meccanismo risulta piuttosto collaudato (sia che si tratti di democrazie liberali, stati totalitari o di natura confessionale) e funziona sempre alla perfezione, tanto da raggiungere lo scopo prefisso: portare il singolo a partorire idee solo all’interno del perimetro che il legislatore ritiene accettabile. Oltre il quale vi sono prigioni, multe, boicottaggio, frustate, lapidazioni, pubbliche gogne e chi più ne ha più ne metta.


Il fenomeno noto come “cancel culture” rappresenta, tuttavia, una forma di sovra-socializzazione del tutto inedita, un nuovo bavaglio censorio, in quanto palesemente controintuitiva e rivolta a rinchiudere ciò che è lecito dentro confini tanto angusti da limitare al massimo la libertà di pensiero ed espressione individuale.
«Bisogna aver
e il coraggio di dirlo: per molti aspetti la cancel culture ricorda i roghi dei libri del nazismo». Trattasi di un’affermazione espressa da Enrico Mentana (!) in merito al politicamente corretto così imperante, a dimostrazione che quando si parla di cancel culture ci si riferisce a un aspetto tanto concreto quanto subdolo.


Una volta fissata nell’immaginario collettivo una serie di concetti percepiti immediatamente come sgradevoli (razzismo, sessismo, omofobia, patriarcato) il legislatore provvede ad applicare le suddette categorie di antivalori a tutto ciò che si trova dissonante, in relazione alla nota dominante emessa dal coro. 

Qualunque dubbio relativo al funzionamento della perfettissima macchina globale diventa così ascrivibile ad un complesso di sensazioni sovra-socializzanti che si pongono in netto contrasto con l’armonia sociale e che trasformano il libero pensatore in un nemico da combattere o, peggio ancora, in un’anomalia da eliminare.
Se il discorso risulta già aberrante quando lo si riferisce all’attualità, si trasforma in un mostro orwelliano ogni volta in cui lo si declina alla storia, secondo gli schemi della cancel culture.

La cancel culture moderna altro non è, infatti, se non il goffo tentativo di riscrivere la storia umana a seconda delle esigenze attuali del pensiero dominante, con l’intento di creare una serie di archetipi completamente sradicati dal contesto che li aveva originati.

Secondo la suddetta dottrina, figlia della cultura “woke”, la storia umana è intrisa di antivalori e aberrazioni e necessita, pertanto, di una totale riscrittura e della conseguente eliminazione di tutto ciò che risulta difforme dai gioiosi valori che accompagnano l’era digitale e turbo-capitalista.
Le opere di Lovecraft possono quindi essere lette, ma solo a seguito di un solenne biasimo verso l’autore, per la sua vicinanza alla mistica nazionalsocialista e il suo scetticismo relativo al multiculturalismo.

Lo stesso discorso si applica agevolmente al mondo della fiaba classica, della narrazione storica, delle opere letterarie e della cinematografia novecentesca. Fino a raggiungere paradossi semantici che prevedono “Via col vento” alla stregua di un film pericoloso per la salute mentale dei bambini.

È politicamente corretto cambiare il colore della pelle a Biancaneve?

È politicamente corretto eliminare i 7 nani?

Logicamente, la rappresentazione di una Biancaneve mulatta, di un Anna Bolena afroamericana o di Lovecraft attivista contro l’Apartheid non risarcisce minimamente i milioni di schiavi africani trasportati sulle galere e costretti a lavorare nei campi di cotone, ma sposta l’asticella della sovra-socializzazione in direzione di un colossale spot, dove le cose non esistono se non le si nominano.

Cancellando la parola “grasso” da tutte le fiabe del mondo, l’obesità non scompare d’incanto. 
Così come eliminando i nani dalla fiaba di Biancaneve non si giunge ad un mondo popolato esclusivamente da pallavolisti e campioni di basket.

Il fine della cancel culture non è quello di riequilibrare le sorti della giustizia nell’Universo, ma quello di creare un perimetro netto alle nostre aree di pensiero e di spingerci in direzione di determinati comportamenti e consumi, in linea con lo spirito dei tempi. 

Lo scopo è quello di pervertire ogni condizione naturale, cancellare qualsiasi forma di regole o tradizioni, sradicare fin da bambini ogni riferimento alla propria cultura e comunità, perché chi controlla il passato controlla il futuro

All’interno del suddetto perimetro, tutti comprano ciò che il legislatore propone loro. I valori di domani andranno a sostituire quelli di oggi, come sempre accaduto, e nuove parole riempiranno le bocche dei bambini, nuove storie verranno (ri)scritte e nuovi nemici verranno additati come perturbatori della pubblica quiete.
Nel turbinio di un mondo che non sa più fermarsi a riflettere, la cancel culture non è che un ingranaggio della rincorsa alla novità che ci lascerà tutti senza fiato, frustrati e costretti a sorridere ogni volta in cui, dentro di noi, vorremmo piangere e urlare.

“La verità è che siamo incapaci di essere liberi.
La sola idea di poterlo essere davvero ci terrorizza.
Siamo creature assetate di obbedienza, diceva Freud,
e mai come questo periodo storico ce lo sta dimostrando.”
(Dal mio libro “Liberi Dentro, Liberi Fuori”)

A sottolineare il rischio di una nuova deriva ideologica, il 7 luglio 2020 ben 150 intellettuali (tra cui Noam Chomsky, J.K. Rowling, Salman Rushdie, Margaret Atwood e Francis Fukuyama) hanno pubblicato sulla rivista americana Harper’s Magazine una lettera aperta intitolata “A Letter On Justice And Open Debate“. 
Un monito pubblico per lanciare un avvertimento sui pericoli derivanti da «una nuova serie di standard morali e schieramenti politici che tendono a indebolire il dibattito aperto in favore del conformismo ideologico».

Al fine di non rimanere stritolati in un complesso di pistoni stridenti che martellano la nostra psiche, l’unica via di uscita è quella di riconoscere e distinguere ciò che è “vero” da ciò che si pone come semplice strumento rivolto alla sovra-socializzazione.
Se le azioni umane hanno e devono avere un confine, i pensieri rappresentano invece la più sublime e nobile forma di libertà: non esiste al mondo una sola idea che non meriti di essere valutata, ponderata e analizzata con spirito critico.

Liberando la mente dallo steccato ci si accorge spesso che i “buoni” non sono poi così buoni e che il recinto non serve di certo al nostro “bene”.

Laddove la cancel culture rappresenta il più angusto confine conosciuto al nostro pensiero, la libertà è in grado di oltrepassarla e di lasciare quel complesso di parole, avulse dal loro significato, capaci di intossicare le menti e fare a pugni con la ragione, l’equilibrio e il buon senso.
In fondo abbiamo tutti una testa, usiamola.

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