giovedì 20 agosto 2020

La maggior parte dei farmaci anti-tumorali approvati dall’EMA tra il 2009 e il 2013 non allunga la sopravvivenza e non migliora la qualità di vita

Uno studio sul BMJ apre la polemica ...

La maggior parte dei farmaci anti-tumorali approvati dall’EMA tra il 2009 e il 2013 non allunga la sopravvivenza e non migliora la qualità di vita. 

Affermazioni pesanti che vengono da un articolo pubblicato su British Medical Journal a firma di ricercatori del King’s College di Londra e della London School of Economics .

Questo studio – non manca di sottolineare Newsweek, una delle tante testate internazionali che hanno rilanciato la notizia – è solo l’ultimo di una lunga serie sull’argomento: molti farmaci oncologici, al vaglio della pratica clinica, non mostrano i benefici che le autorità regolatorie ritenevano esistessero al momento della loro approvazione.

Ma il lavoro pubblicato su BMJ va anche oltre e dimostra che molti dei farmaci approvati in quegli anni queste evidenze di beneficio non le avevano neppure sulla carta, cioè nei risultati degli studi registrativi ...

Availability of evidence of benefits on overall survival and quality of life of cancer drugs approved by European Medicines Agency: retrospective cohort study of drug approvals 2009-13”.

Una valutazione sistematica delle indicazioni per i farmaci oncologici approvati dall’EMA nel periodo 2009-2013 dimostra, secondo uno studio pubblicato sul British Medical Journal (BMJ), che la stragrande maggioranza dei farmaci sono arrivati sul mercato senza solide prove di benefici sulla sopravvivenza globale e sulla qualità di vita.
E anche dopo un follow up medio di 5,4 anni nel periodo post-marketing continuavano a non emergere significative evidenze che questi farmaci potessero estendere la durata della vita o migliorarne la qualità nella maggior parte delle indicazioni.

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Secondo lo studio inglese (con un disegno di studio retrospettivo di coorte) solo 11 delle 68 indicazioni per farmaci approvati dall’EMA nel periodo preso in esame hanno prodotto ‘benefici clinicamente significativi’ (valutati utilizzando un’apposita scala messa a punto dall’ESMO, la European Society of Medical Oncology Magnitude of Clinical Benefit Scale, ESMO-MCBS) a distanza di 5 anni dall’arrivo sul mercato in termini di sopravvivenza (OS, overall survival) e di qualità di vita.

Dal 2009 al 2013 l’EMA ha approvato l’uso di 48 farmaci oncologici per 68 indicazioni. 

Di queste, 8 indicazioni (il 12%) sono state approvate sulla base di uno studio a singolo braccio di trattamento. Al momento dell’approvazione, solo per il 35% delle indicazioni (24 su 68) era stato certificato un aumento di sopravvivenza significativo e solo nel 10% dei casi era stato dimostrato un aumento della qualità di vita (7 su 68 indicazioni).

Spesso le autorità regolatorie approvano un farmaco perché, sulla base dei dati clinici disponibili, si presume che i benefici sull’allungamento della sopravvivenza possano emergere solo su un periodo di osservazione più esteso. Ma in questo caso così non è stato. Nel periodo post-marketing, su 44 indicazioni per le quali, come visto, non c’erano evidenze di un prolungamento di sopravvivenza al momento dell’approvazione, questo è emerso sul lungo periodo soltanto per il 7% di queste (appena 3) e un riferito beneficio sulla qualità di vita in appena l’11% (5 in numero assoluto).

A conti fatti dunque, dopo una mediana di follow up di 5,4 anni (da 3,3 a 8,1 anni), su 68 indicazioni EMA, solo 35 (il 51%) aveva mostrato un significativo miglioramento o nella sopravvivenza complessiva o nella qualità di vita, mentre per le restanti 33 (il 49%) rimaneva una grossa incertezza. Inoltre delle 23 delle indicazioni associate con un beneficio di sopravvivenza, una volta passate al vaglio dello strumento ESMO-MCBS, solo per 11 è stato confermato un beneficio giudicato ‘clinicamente significativo’.

E il problema non riguarda solo l’Europa. 

Negli Usa accade esattamente la stessa cosa, sottolinea in un editoriale il dottor Vinay Prasad, della Oregon Health and Sciences University.

Perché dunque questi fallimenti terapeutici?

Secondo l’editorialista i pazienti arruolati nei trial clinici sono in genere più giovani e in miglior condizioni di salute di molti pazienti incontrati nella pratica clinica quotidiana; inoltre negli studi clinici si fa abbondante ricorso ad endpoint surrogati (esami del sangue e PFS) che se da una parte consentono di limitare la durata dei trial e offrire il farmaco innovativo a pazienti che in caso contrario dovrebbero attendere anni per poterlo utilizzare, dall’altro possono dare dei risultati ‘fantasiosi’ e a false speranze.

Certo, di fronte ad un paziente oncologico, ci si sente in dovere di tentare di tutto. Ma quello di cui si ha bisogno – chiosa Prasad – non sono ‘più opzioni terapeutiche’, ma ‘buone opzioni, cioè farmaci con benefici provati’.

di Maria Rita Montebelli
Fonte: Quotidiano sanità

Fonte: www.omeopatiasimoh.org

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