domenica 23 giugno 2019

"La vita è troppo breve per spenderla in un lavoro full time. Vi racconto perché". La storia di Mohit Satyanand

Qualche anno fa Mohit Satyanand decise di lasciare il suo lavoro full time per andare a vivere, insieme alla moglie, sulle pendici dell'Himalaya. 
Quando tornò a Delhi perché per il figlioletto era giunta l'ora di andare a scuola, niente fu come prima. 

Per lui il tempo aveva acquisito un valore diverso e ciò che lo aveva spinto in passato a lasciare la città l'aveva plasmato in modo irreversibile. Ecco la sua storia, raccontata in prima persona su Quartz:

"La vita è troppo breve per un lavoro a tempo pieno. Troppo breve, e troppo preziosa. Il tempo non controllato e misurato è un tesoro, le chiacchierate in libertà, i pomeriggi che scivolano lentamente nella sera, le cene che sono l'occasione per un ultimo caffè.
Se siete come me, e trascorrete interi inverni a guardare le lingue di fuoco che sfarfallano nel camino, "non c'è mai tempo per fare tutto il nulla che vuoi", come ha detto Bill Watterson.

Ma non siete tenuti a dare retta a un montanaro part-time, anticonformista full time, come me. Ma non sono il solo. Carlos Slim, il secondo uomo più ricco al mondo, ha detto che "Dovremmo lavorare solo tre giorni alla settimana". È giunto il momento di rivedere radicalmente la nostra vita lavorativa. Abbiamo bisogno di più tempo per rilassarci, per migliorare la qualità della nostra vita.

Nel libro " Critical Path", l'eclettico e futurista Buckminster Fuller prevedeva che l'aumento della produttività mondiale avrebbe fatto sì che lavorare part time diventasse un'opzione percorribile per tutti. Non siamo ancora arrivati alla totalità, ma credo sia già una scelta per la maggior parte dei lettori di Quartz, per lo meno. Quanto a me, ho trovato il tempo di leggere Bucky quando con mia moglie decidemmo di andare per un anno in luna di miele nel nostro cottage di pietra nel Kumaon. Una mattina d'autunno, il sole brillava e l'Himalaya si stagliava nella sua candida chiarezza. Mia moglie disse una preghiera per lo stato di grazia in cui galleggiavamo. "Dobbiamo per forza tornare indietro?" si chiese...


Noi non l'abbiamo fatto, e abbiamo trascorso sei ricchi anni nel nostro giardino nella foresta, a guardare le pesche che maturavano e a cullare nostro figlio, godendoci il chiaro di luna al bagliore delle candele. Quando abbiamo fatto ritorno a Delhi perché nostro figlio doveva iniziare la scuola, sapevo che non sarei più potuto tornare a lavorare a tempo pieno. Ero troppo consumato dall'amore per la vita e la famiglia per legarmi di nuovo all'orologio e alla routine quotidiana. Avevo bisogno della libertà di trascorrere la giornata sul divano a leggere un libro, o a prendere il sole nel parco. Avevo bisogno di avere del tempo per ascoltare un amico che voleva parlarmi. Avevo bisogno di essere a casa quando mio figlio tornava da scuola.

La vita moderna non è strutturata per fare spazio a tutta questa eccentricità. Fu subito chiaro che per vivere avrei avuto bisogno di una scrivania, di un ufficio, di partecipare a lunghe riunioni, di lavorare fino a tardi. Continuai comunque a andare al parco, stendermi sul divano, abbracciando mio figlio al rientro da scuola e accompagnandolo alle feste di compleanno a bordo di una macchina scassata da anni di guida in montagna.

Quando arrivò lo stipendio, mi pagarono una frazione del compenso previsto per un lavoratore della mia età e formazione. Ne fui orgoglioso. Il progresso materiale ci dà la possibilità di convertire la nostra potenzialità di guadagno in maggiori consumi, o in più tempo da vivere. Io avevo fatto il mio, e ogni giorno per me era una gioia. Recentemente ho letto i rimorsi dei pazienti in fin di vita riportati nel libro di "The Top Five regrets Of The Dying" di un'infermiera australiana.

In cima c'era questo: "Aver perso la giovinezza dei propri figli, e la compagnia del loro partner". Credo che i nostri figli siano l'eredità che lasciamo e hanno bisogno di amore e tempo. Quando mio figlio compirà 16 anni, si affaccerà al mondo, portando con sé i suoi pregi e i miei difetti. Ma la disattenzione non sarà tra questi".

La settimana scorsa sono stato a IIM Ahmedabad, per un briefing con un gruppo di studenti per un progetto sul diritto di proprietà cui avevo lavorato anch'io. Dopo l'incontro mi hanno fatto delle domande sugli anni trascorsi in montagna. "

Anch'io potrei dire: 'Voglio andarmene lassù", ha detto uno di loro "Ma chi me lo permette?". "Ricordate questo" ho risposto, "non serve l'autorizzazione di nessuno per essere se stessi". Quando sono tornato, ho riletto il libro dei rimpianti: "Vorrei aver avuto il coraggio di vivere una vita fedele a me stesso, non quella che gli altri si aspettavano da me"."


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6 commenti:

  1. Ricordo di aver letto anni fa un articolo del Sole 24 ore (mi pare), diceva che passati i 40 anni si dovrebbe lavorare per non più di 25 ore a settimana. Magnifico e molto saggio. Personalmente da quasi un anno ne lavoro 30 a settimana, il ché ci va vicino e questo é un vantaggio. È pagato anche bene e con giuste accortezze magari un buco di monolocale me lo consentirebbe. Il rovescio della medaglia é che é uno sporco lavoro vampirizzante: agente telefonico per recupero crediti. Praticamente sono stata assunta per fare l'agente Smith del sistema, cosa che mi é stata da subito talmente ostica e contraria alla mia frequenza da avermi prosciugato ogni forma di espressione creativa. Dunque, non é solo una questione di tempo-ore lavoro, ma di qualità-energia del lavoro. Se ti corrisponde e ti é affine, magari lavori anche 10 ore al giorno e ti rigenera, se ti contrasta e ti prosciuga, anche 3 ore al giorno sono troppe.
    Ps. Da settembre mi godró 6 mesi di disoccupazione e magari a quel punto sì torneró a vivere da sola.

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  2. Avendo già 40 anni rientro nella categoria delle 25 ore settimanali, e infatti lavoro come libero professionista solo quando voglio io.

    Silvano Agosti lo dice da anni d'altronde, mitico il suo "il discorso tipico dello schiavo" che dovrebbe essere proiettato in tutte le scuole del mondo.

    Bisogna scegliere cosa si vuole nella vita: o beni materiali che soffochino ogni angolo di casa nostra e della nostra coscienza, o più tempo per coltivare se stessi.
    Io ho scelto di vivere da minimalista, e l'ho scelto quando ancora questa parola nemmeno era stata coniata e non andava di moda esserlo con tanto di canali youtube e siti dedicati che danno le informazioni più dettagliate e assurde su come vivere in modo frugale; i miei averi sono stati per anni all'interno di una valigia, strumentazione per suonare a parte. Vivevo e vivo tuttora di pochissimo, ho praticamente le tessere delle biblioteche di mezzo mondo e non sento la mancanza di nulla di superfluo, perché ho tutto ciò che serve in me stesso, il bene più prezioso che sono, non che ho.
    Rendiamoci conto di quante merci sovraprodotte e invendute piacciono all'interno di magazzini e container chilometrici che occupano ettari ed ettari di terreni dove si potrebbero piantare intere foreste od orti per i cittadini. Pensiamo alle isole, o mezzi continenti ormai di plastica e altri rifiuti che galleggiano da decenni sugli oceani.
    E tutto questo in nome di cosa? Della moda? Del consumo scellerato per dimostrare di avere in tasca e nel conto corrente più finto denaro di altri?

    Se solo si capisse una buona volta che la decrescita è la chiave di tutto, ci avvicineremmo di molto a un mondo migliore.

    Enoch


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    1. fortunato chi trova il proprio ikigai e ne ha saputo fare una libera professione che lo renda ugualmente libero di essere e sperimentare se stesso nelle esperienze di vita.

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  3. "Il confine tra lavoro e gioco è illusorio: niente al mondo è di per sé interessante. Le cose sono interessanti perché ci mettiamo tempo e sforzo per renderle interessanti. Se si ha un concetto fluido di lavoro e tempo libero, la maggior parte del tempo si può trasformare in gioco, qualunque sia il lavoro." Alan Watts
    C'ho messo un bel po' a capirlo, ma poi col tempo, e soprattutto con l'aiuto della Bhagavad Gita, sto cercando di metterlo in pratica: sono le "aspettative" che rendono difficoltoso/faticoso trasformare il lavoro in gioco, ma è possibile sorridere mentre si lavora.

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  4. Giuseppe le aspettative e i desideri sono il soffitto di oggi e il pavimento di domani.

    Una ricerca continua di qualcosa che riempia il vuoto interiore.
    In definitiva aveva ragione il Buddha dicendo che la via maestra è quella del non attaccamento.

    Enoch ci sta riuscendo. Ci vuole una grande forza interiore iniziale per vivere in modo minimalista, ed è la via detta da sempre da ogni vero maestro.
    Io vivo in modo frugale e minimalista, non è stata una scelta, non me ero ero neppure accorto perchè è venuto da se.

    Probabilmente praticando sciamanesimo sono stato agevolato, suppongo che è così in ogni "via" seria quale che sia.

    Gianni

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  5. Non ho mai avuto dubbi sulla razionalità/coerenza del tuo modo di vivere, l'ho condiviso fin dal primo momento!
    E vai, Gianni, calpestiamo le aspettative per cominciare a vivere!
    Buona giornata a tutti!

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