Che cos'è la metagenealogia? Perché non parlare piuttosto di psicogenealogia?
Il vocabolo pare sia stato coniato da Alejandro Jodorowsky all'inizio degli anni ottanta. In seguito si è usato sempre meno, in quanto si applicava alle più svariate pratiche che hanno snaturato il significato stesso della parola.
Alcune di queste attività erano legate alla psicologia vera e propria, altre allo spiritismo meno verificabile. Ma tutti questi approcci avevano un punto in comune, in quanto derivanti da una consapevolezza emersa fin dall'inizio dell'era della psicoanalisi: l'influenza della famiglia sull'individuo.
L'interesse degli psicoterapeuti e della gente comune per l'albero genealogico ha continuato a crescere dopo gli anni settanta, epoca in cui gli psicoanalisti hanno affrontato la questione dei legami transgenerazionali.
L'Occidente sta scoprendo oggi qualcosa che molte altre culture affermano già da tempo sotto forme religiose, magiche o sciamaniche: l'inconscio familiare interagisce con l'inconscio personale, nel bene e nel male ...
Probabilmente uno schema che rischia di essere un mero inventario delle informazioni vitali di cinque generazioni di antenati, forse qualche messaggio intuitivo proveniente dai nostri ricordi o ancora la certezza di essere un discendente di Carlo Magno. In ogni caso ci si potrebbe meravigliare dell'esattezza delle informazioni.
Ed è altrettanto probabile che si potrebbe riuscire a scoprire l'esistenza di certe ripetizioni di cui non eravamo consapevoli, forse di qualche segreto di famiglia o l'origine di un'ossessione o addirittura di una fobia. In qualche caso ci si potrebbe sentire frustrati dall'eccessivo intellettualismo di una diagnosi fredda e inutile o al contrario scettici di fronte ai deliri irrazionali di una seduta piena di cliché new age o divagazioni romanzesche.
Nel linguaggio attuale, poiché i concetti della neurologia sono ormai diventati di dominio pubblico, possiamo dire che si tratta di riequilibrare l'emisfero destro con il sinistro.
Ma come si fa a descrivere una disciplina saldamente radicata nella psicologia, nell'arte, nella scienza così come nelle tradizioni spirituali ed esoteriche?
Saldamente ancorata alle teorie psicologiche e scientifiche del suo tempo, la metagenealogia riflette il percorso artistico di un'intera vita e l'insaziabile ricerca del senso che la anima. Questa disciplina suggerisce che qualsiasi "malattia" può essere intesa come una mancanza di bellezza e di coscienza e che "guarire" consiste nel divenire autenticamente se stessi.
"La verità è quello che è utile in un momento ben definito, in un luogo definito e per un essere definito"
Lo spirito umano ha due aspirazioni principali: la conoscenza e l'immortalità. Si dovrebbe concepire l'inconscio come un insieme di due zone: l'una è il prodotto delle esperienze del passato e possiamo continuare a chiamarla inconscio, mentre l'altra racchiude virtualmente le possibilità di mutazione che faranno crescere esseri dotati di coscienza cosmica quindi non composta da esperienze passate bensì da possibilità future. Ci evolviamo su un pianeta che prende parte ad una danza continua, dove tutto è un continuo nascere, scomparire, trasformarsi. E allora come possiamo definirci?
Per trovare la radice del "se stesso", Io permanente nell'impermanenza, dobbiamo situarlo al di là della materia universale per identificarci con il suo centro creativo, con la consapevolezza che siamo nati per partecipare attivamente all'evoluzione del cosmo.
L'"Io" individuale e il "Noi" cosmico non possono non unirsi nella Coscienza.
Un ideale cui simbolicamente aveva già pensato l'Alchimia, essendosi posta come compito di spiritualizzare la materia e nello stesso tempo materializzare lo spirito. Tradotto nel linguaggio psicologico, questo diventa: l'ego deve integrarsi nell'inconscio e l'inconscio deve integrarsi nell' ego. La nostra individualità definita dalla famiglia, dalla società, dalla cultura, stabilisce un legame con la materia bruta, la nigredo o il piombo che l'alchimia trasforma in oro, in Essere essenziale, in Coscienza.
La vera mutazione forse passa dalla presa di coscienza della propria immortalità in quanto esseri collettivi, dunque liberi o meglio liberati da vincoli mentali, così che nulla possa separarci dalla nostra energia creatrice e poter aspirare all'unione totale. Sviluppare un elevato livello di Coscienza richiede uno sforzo tenace, continuo, intenso, implacabile. Roberto Assagioli direbbe forse, più sinteticamente, che richiede una volontà buona.
Il nostro cervello, probabilmente l'oggetto più complesso dell'universo, possiede più di centomila milioni di neuroni, cellule dotate di un nucleo che funziona come un apparato ricevente-emittente in miniatura: esse si uniscono tra loro formando reti di connessione che si trasmettono le informazioni sotto forma di impulsi elettrici. Veniamo al mondo con un potenziale neuronale che è quello dell'uomo futuro, ma purtroppo con pochissime connessioni. Tale rete si forma a poco a poco, a contatto con i nostri famigliari e le conoscenze che essi ci trasmettono. Ereditiamo esperienze. Ma essendo esperienze limitate, si traducono in "lingue nazionali" che provocano stati mentali stagnanti, un mondo interiore che contiene ben poche connessioni, una cellula culturale da cui difficilmente riusciamo a fuggire.
Il nostro cervello, probabilmente l'oggetto più complesso dell'universo, possiede più di centomila milioni di neuroni, cellule dotate di un nucleo che funziona come un apparato ricevente-emittente in miniatura: esse si uniscono tra loro formando reti di connessione che si trasmettono le informazioni sotto forma di impulsi elettrici. Veniamo al mondo con un potenziale neuronale che è quello dell'uomo futuro, ma purtroppo con pochissime connessioni. Tale rete si forma a poco a poco, a contatto con i nostri famigliari e le conoscenze che essi ci trasmettono. Ereditiamo esperienze. Ma essendo esperienze limitate, si traducono in "lingue nazionali" che provocano stati mentali stagnanti, un mondo interiore che contiene ben poche connessioni, una cellula culturale da cui difficilmente riusciamo a fuggire.
Allo stesso modo possiamo pensare che questa misteriosa energia tenda a unire tutte le coscienze che popolano il nostro universo. La volontà famigliare-sociale-culturale lotta per far sì che l'individuo obbedisca alla volontà dei suoi antenati, che nella maggior parte dei casi, per un eccessivo accumulo di idee, sentimenti, desideri e bisogni ereditati, ostacola il progetto spirituale ricacciandolo ai più bassi livelli della Coscienza. L'albero genealogico potrebbe agire come un tranello, imponendo alla perfezione del progetto cosmico dei discendenti i propri limiti materiali e psicologici, mescolando timori, rancori, frustrazioni, illusioni.
Già prima della nascita il feto riceve una sorta di ordine per imitare il modello trasmesso da chi lo ha preceduto. La famiglia non" accetta" la creazione pura e semplice, venuta dal "nulla" senza un modello esterno. Ciascun individuo è il prodotto di due forze: la forza imitatrice, governata dal gruppo famigliare che agisce provenendo dal passato e la forza creatrice, guidata dalla Coscienza universale e proveniente dal futuro. La Coscienza sin dall'inizio dell'incarnazione individuale è prigioniera del conflitto tra creare e imitare. Le anime creatrici sono poche, mentre ci sono eserciti di anime imitatrici. Le prime devono imparare a comunicare e a seminare i propri valori, le seconde devono liberarsi dagli schemi e imparare a creare, vale a dire arrivare a essere se stesse e non quello che la famiglia, la società, la cultura vogliono o meglio hanno necessità che sia per continuare a far esistere ed agire sulla scena della vita la loro "parte".
Il clan agisce come un organismo. Quando uno dei suoi
membri sperimenta un cambiamento, è tutto l'insieme a
reagire, in modo positivo o negativo. Un albero bellissimo
che dà frutti velenosi è un cattivo albero. Un albero tutto
storto che dà frutti sani è un buon albero. Il fatto che un
individuo espanda la propria Coscienza, diventando lui
stesso il buon frutto, conferisce al proprio albero
(genealogico) un nuovo significato.
Le sofferenze degli antenati (ferite narcisistiche,
umiliazioni, sentimenti di vergogna o sensi di colpa)
acquistano una ragion d'essere. Quando la famiglia
reagisce, lo fa anche la società in cui essa si trova.
Fonte: www.counselingpsicosintetico.org
Fonte: www.counselingpsicosintetico.org
Il tappeto magico - Estratto da "Metagenealogia"
A quel tempo facevo il regista e con i miei film El Topo (1970) e La montagna sacra (1973) avevo riscosso un certo successo in Francia, per cui il produttore Eric Rochat mi propose di fare un viaggio in India per girare la storia di un elefante che nasce schiavo in un campo di lavoro e piano piano si libera, espandendo la propria coscienza, per diventare il dio-elefante Ganesha, venerato da un intero popolo.
Ho vissuto per tre mesi a Bangalore, in una riserva di elefanti, per filmare una storia per bambini: Tusk (1980). Al mio ritorno a Parigi, all’inizio dell’autunno, ho ricevuto la malaugurata notizia che il mio produttore aveva fatto bancarotta e non mi avrebbe pagato quanto previsto dal contratto. Con il poco denaro rimasto, sono stato costretto ad affittare una casetta fuori Parigi, a Joinville-le-Pont, e mi sono messo a leggere i Tarocchi per dar da mangiare a mia moglie e ai miei figli.
Ho vissuto per tre mesi a Bangalore, in una riserva di elefanti, per filmare una storia per bambini: Tusk (1980). Al mio ritorno a Parigi, all’inizio dell’autunno, ho ricevuto la malaugurata notizia che il mio produttore aveva fatto bancarotta e non mi avrebbe pagato quanto previsto dal contratto. Con il poco denaro rimasto, sono stato costretto ad affittare una casetta fuori Parigi, a Joinville-le-Pont, e mi sono messo a leggere i Tarocchi per dar da mangiare a mia moglie e ai miei figli.
Ma quello che molti potrebbero considerare una disgrazia fu per me un gran beneficio. Se il mio produttore non fosse stato l’impostore che era, non avrei mai inventato la tarologia, la psicogenealogia, la psicomagia né lo psicosciamanesimo.
Per ricevere i miei consultanti, dipinsi di bianco le pareti e il soffitto di una stanza, lucidai il parquet, comprai un tappeto di colore viola di un metro e sessanta per ottanta centimetri, e in quello spazio immacolato e privo di mobili e quadri lo distesi al centro del pavimento. Di fronte al rettangolo viola, il consultante - seduto come me su uno zafu, il cuscino per la meditazione zen - ascoltava la mia lettura dei Tarocchi.
Ma perché un rettangolo viola? A quel tempo avevo stretto un’amicizia sincera con un uomo straordinario, Pierre Derlon, autore del libro Traditions occultes des gitans, pubblicato dall’editore Robert Laffont nel 1975. Pierre, francese di origine, era uno specialista della magia tzigana. Le sue idee mi tornarono utilissime, sebbene a volte le sue affermazioni fossero difficili da credere. Per esempio, anche se lui dimostrava sessant’anni e la sua moglie zingara trenta, giurava che lei avesse la sua stessa età. Grazie all’incantesimo di un anziano della sua tribù, invecchiava soltanto un anno ogni due!
Derlon mi mostrò anche un cuscino contro l’insonnia di colore viola (un colore che per gli zingari è particolarmente ricettivo), un calendario fatto di cerini, un modo speciale di tagliare le mele per utilizzarle in un rituale amoroso, un metodo per indovinare il futuro mediante gli ossi di pollo...
Ma tutto questo mi interessava ben poco perché fin dall’inizio, nel mio lavoro tarologico, mi sono rifiutato di leggere il futuro preferendo dedicarmi a leggere il presente del consultante, vale a dire i suoi problemi attuali frutto di un passato conflittuale. Invece, a destare il mio interesse fu il tappeto magico.
Per ricevere i miei consultanti, dipinsi di bianco le pareti e il soffitto di una stanza, lucidai il parquet, comprai un tappeto di colore viola di un metro e sessanta per ottanta centimetri, e in quello spazio immacolato e privo di mobili e quadri lo distesi al centro del pavimento. Di fronte al rettangolo viola, il consultante - seduto come me su uno zafu, il cuscino per la meditazione zen - ascoltava la mia lettura dei Tarocchi.
Ma perché un rettangolo viola? A quel tempo avevo stretto un’amicizia sincera con un uomo straordinario, Pierre Derlon, autore del libro Traditions occultes des gitans, pubblicato dall’editore Robert Laffont nel 1975. Pierre, francese di origine, era uno specialista della magia tzigana. Le sue idee mi tornarono utilissime, sebbene a volte le sue affermazioni fossero difficili da credere. Per esempio, anche se lui dimostrava sessant’anni e la sua moglie zingara trenta, giurava che lei avesse la sua stessa età. Grazie all’incantesimo di un anziano della sua tribù, invecchiava soltanto un anno ogni due!
Derlon mi mostrò anche un cuscino contro l’insonnia di colore viola (un colore che per gli zingari è particolarmente ricettivo), un calendario fatto di cerini, un modo speciale di tagliare le mele per utilizzarle in un rituale amoroso, un metodo per indovinare il futuro mediante gli ossi di pollo...
Ma tutto questo mi interessava ben poco perché fin dall’inizio, nel mio lavoro tarologico, mi sono rifiutato di leggere il futuro preferendo dedicarmi a leggere il presente del consultante, vale a dire i suoi problemi attuali frutto di un passato conflittuale. Invece, a destare il mio interesse fu il tappeto magico.
Derlon mi raccontava che quando gli zingari vogliono concentrarsi piantano quattro paletti per terra, li uniscono con un cordino formando un rettangolo di ottanta centimetri di larghezza per un metro e sessanta di lunghezza, vi collocano all’interno alcuni “accumulatori”, come lattine di conserva vuote, pietre, pezzetti di legno, e così via, che dispongono formando delle figure geometriche. Seduti di fronte al rettangolo, tengono lo sguardo fisso su quel punto fino a uscire dal tempo e dallo spazio. Viaggiano in un’altra realtà... Pierre era convinto che tale pratica avesse dato origine alla leggenda del tappeto volante che compare in alcuni racconti arabi.
Il giorno in cui ci trasferimmo a Joinville-le-Pont, Pierre venne a casa nostra senza annunciarsi, e nel giardinetto conficcò per terra quattro forchette, le unì con un cordino formando un rettangolo e all’interno dispose alcune pietre, rametti secchi, tre bottiglie di bibite, mezza dozzina di patate che tirò fuori dalle tasche, e mi invitò a inginocchiarmi di fronte al tappeto magico per meditare e uscire dal corpo. Mi interessava provare quell’esperienza. Avevo appena finito di leggere in Wittgenstein, di William Warren Bartley III, un sogno che il filosofo Ludwig Wittgenstein aveva fatto nel 1919.
Il sogno aveva proposto un enigma che non era stato in grado di risolvere: “Era notte. Io stavo fuori da una casa su cui splendeva una luce. Mi avvicinai a una finestra per guardare all’interno. E lì, sul pavimento, scorsi un tappeto magico straordinariamente bello, per cui mi venne voglia di osservarlo da vicino. Tentai di aprire la porta sul davanti, ma un serpente mi si slanciò addosso impedendomi di entrare. Tentai di entrare da un’altra porta, ma anche lì un serpente mi si slanciò addosso bloccandomi il passo. Anche alle finestre apparvero dei serpenti che resero vani i miei sforzi di raggiungere il tappeto magico”.
Secondo l’autore, Wittgenstein interpretò il tappeto come un pene eretto e i serpenti come le barriere morali alla sua omosessualità. Un tappeto come un fallo? E perché non il ventre materno che ci consente di morire in esso per essere partoriti in un’altra dimensione?
Il tappeto del sogno offriva al filosofo una possibilità di andare oltre la mente razionale per entrare nella magia della vita. Per eludere emozioni e desideri, si identifica con il proprio intelletto mediante serpenti accusatori, vietandosi così l’ingresso in un mondo che va al di là delle parole. I rettili guardiani sono i suoi limiti razionali. Concetti stagnanti che impediscono alla sua fantasia di spiccare il volo verso le profondità dell’Inconscio. I monaci zen lo chiamano fare un passo nel vuoto.
Fermamente deciso a non lasciarmi sconfiggere dalla paura di liberarmi dal carcere della ragione, mi sedetti di fronte al rettangolo creato da Pierre Derlon con l’intenzione di decapitare i miei serpenti mentali per abbandonarmi al viaggio magico. Restammo immobili, con Io sguardo fisso, fino a sera. Ma non uscii dal mio corpo né dallo spazio, non volai come lui avrebbe voluto. Pierre se ne andò senza nascondere la delusione. Non lo rividi mai più; morì nel 1989.
Eppure quell’esperienza fu fondamentale per il futuro delle mie tecniche terapeutiche.
Il giorno in cui ci trasferimmo a Joinville-le-Pont, Pierre venne a casa nostra senza annunciarsi, e nel giardinetto conficcò per terra quattro forchette, le unì con un cordino formando un rettangolo e all’interno dispose alcune pietre, rametti secchi, tre bottiglie di bibite, mezza dozzina di patate che tirò fuori dalle tasche, e mi invitò a inginocchiarmi di fronte al tappeto magico per meditare e uscire dal corpo. Mi interessava provare quell’esperienza. Avevo appena finito di leggere in Wittgenstein, di William Warren Bartley III, un sogno che il filosofo Ludwig Wittgenstein aveva fatto nel 1919.
Il sogno aveva proposto un enigma che non era stato in grado di risolvere: “Era notte. Io stavo fuori da una casa su cui splendeva una luce. Mi avvicinai a una finestra per guardare all’interno. E lì, sul pavimento, scorsi un tappeto magico straordinariamente bello, per cui mi venne voglia di osservarlo da vicino. Tentai di aprire la porta sul davanti, ma un serpente mi si slanciò addosso impedendomi di entrare. Tentai di entrare da un’altra porta, ma anche lì un serpente mi si slanciò addosso bloccandomi il passo. Anche alle finestre apparvero dei serpenti che resero vani i miei sforzi di raggiungere il tappeto magico”.
Secondo l’autore, Wittgenstein interpretò il tappeto come un pene eretto e i serpenti come le barriere morali alla sua omosessualità. Un tappeto come un fallo? E perché non il ventre materno che ci consente di morire in esso per essere partoriti in un’altra dimensione?
Il tappeto del sogno offriva al filosofo una possibilità di andare oltre la mente razionale per entrare nella magia della vita. Per eludere emozioni e desideri, si identifica con il proprio intelletto mediante serpenti accusatori, vietandosi così l’ingresso in un mondo che va al di là delle parole. I rettili guardiani sono i suoi limiti razionali. Concetti stagnanti che impediscono alla sua fantasia di spiccare il volo verso le profondità dell’Inconscio. I monaci zen lo chiamano fare un passo nel vuoto.
Fermamente deciso a non lasciarmi sconfiggere dalla paura di liberarmi dal carcere della ragione, mi sedetti di fronte al rettangolo creato da Pierre Derlon con l’intenzione di decapitare i miei serpenti mentali per abbandonarmi al viaggio magico. Restammo immobili, con Io sguardo fisso, fino a sera. Ma non uscii dal mio corpo né dallo spazio, non volai come lui avrebbe voluto. Pierre se ne andò senza nascondere la delusione. Non lo rividi mai più; morì nel 1989.
Eppure quell’esperienza fu fondamentale per il futuro delle mie tecniche terapeutiche.
Nel momento in cui mi ero inginocchiato di fronte al rettangolo per meditare, avevo sentito che la mia ombra psichica si proiettava su di esso. Una linea verticale lo divideva in un lato sinistro e un lato destro. Tre linee orizzontali lo dividevano in quattro parti. Nella parte superiore si rifletteva la mia testa; in quella subito sotto, il mio petto; nella terza, fianchi, zona pelvica, sesso; e nella quarta, la più vicina a me, le gambe fino alle ginocchia. La linea verticale trasformava queste quattro parti in otto. Quelle del mio lato destro corrispondevano alle energie attive. Quelle del lato sinistro alle energie ricettive. Rispetto a dove mi trovavo, si riflettevano sulla prima sezione la mia vita materiale, i bisogni, la formazione infantile. La sezione successiva corrispondeva ai miei desideri, sessuali e creativi. La terza, alla mia vita emozionale. E la quarta, alla mia vita intellettuale.
La proiezione del mio corpo su un rettangolo - all’origine dell’uso del tappeto viola - mi aprì orizzonti che cambiarono il mio modo di leggere i Tarocchi. Era l’epoca in cui avevo inventato la nozione di Tarologia, per distinguere il mio lavoro da quello dei cartomanti: avevo l’ambizione di interpretare il linguaggio grafico dei Tarocchi senza attribuirmi doti di veggente. Tale pratica avrebbe dato origine in seguito a una nuova disciplina che ribattezzai Psicogenealogia.
A partire da quel momento, organizzai le mie letture nel modo seguente: chiedevo al consultante di estrarre dal mazzo dei Tarocchi cinque dei ventidue Arcani maggiori e di collocarli in ciascuna delle quattro sezioni. Il che significava utilizzare venti carte. Le due rimanenti - collocate fuori dal tappeto - simboleggiavano quanto segue: la carta in basso, ciò che il consultante era stato nel passato; quella in alto, ciò che desiderava diventare nel futuro. La persona mi esponeva i suoi dubbi, i problemi nell’operare determinate scelte, e così via. Iniziavo ad analizzare i suoi bisogni materiali; poi, andando sempre più su, i conflitti creativi o sessuali; la vita emozionale e infine, nella parte superiore del tappeto, le idee che controllavano la sua vita.
Potei constatare che non appena iniziavano a interrogare l’arca materiale (salute, lavoro, territorio), i consultanti si riferivano alla loro infanzia, alla città natale o ai rapporti con i fratelli e le sorelle, e alla fine arrivavano a parlare delle circostanze in cui erano stati partoriti.
Nella seconda sezione comparivano i genitori, come formatori della capacità di creare e delle attitudini sessuali del consultante. D’altronde, la creatività e la sessualità dei genitori dipendevano sovente dai rapporti che a loro volta avevano avuto con i propri fratelli e sorelle. Le zie e gli zii materni e paterni si rivelarono di fondamentale importanza per il consultante, anche se lui non li aveva mai conosciuti.
Nella terza sezione, dopo avere esaminato a fondo i sentimenti dei consultanti, mi resi conto dell’importanza dei quattro nonni, e anche di prozii e prozie. Loro avevano trasmesso i loro successi e i fallimenti sentimentali ai genitori, e questi ai loro figli.
Giunto all’ultima sezione, quella che definisce l’area intellettuale, notai che era formata in gran parte da idee assurde e morali precarie che arrivavano dai bisnonni. E non mancava mai un libro religioso che dettasse leggi di comportamento mal interpretate da sacerdoti misogini con ambizioni politiche. Potevano essere la Torah o il Nuovo Testamento, il Corano, un testo buddhista o un libro sacro di un’altra religione.
E fu così che piano piano arrivai a visualizzare sul tappeto l’albero genealogico del consultante. Pieno d’entusiasmo per la mia scoperta, lasciai perdere il tappeto viola e le carte dei Tarocchi e mi dedicai a studiare direttamente l’albero genealogico dei miei consultanti. Li interrogavo dettagliatamente sulla loro famiglia e annotavo le informazioni ottenute su un foglio rettangolare. In genere, i dati richiesti erano i seguenti; nomi, cognomi, date di nascita, data e causa delle morti in famiglia, matrimoni, aborti, adulteri, divorzi, malattie, abusi subiti, incidenti, perdite del territorio (vale a dire cambiamenti di casa, esili o guerre), tracolli economici, ingiustizie, professioni, successi e fallimenti di ciascun membro della famiglia, fino ai bisnonni.
Salvo rare eccezioni, non andavo a cercare nella quinta, sesta generazione, perché la memoria famigliare si perde oltre i bisnonni; le informazioni diventano nebulose, si trasmettono frammenti di personalità, poche immagini, qualche parola, ed è praticamente impossibile trovare dati certi nel tumulto delle personalità. Dato che tutti abbiamo otto bisnonni, nelle generazioni più indietro i trisnonni sono il doppio, sedici. E così di generazione in generazione i nostri avi continuano ad aumentare; 32, 64, 128, 256, 512. Nel giro di trenta generazioni, i nostri antenati sono 1.073.741.824, vale a dire più di mille milioni.
Andando indietro nel tempo con la moltiplicazione degli antenati, abbandoniamo la cerchia della famiglia vera e propria per addentrarci nella moltitudine di una società, abbracciando l’umanità intera.
Dopo numerosi consulti ho scoperto che, tranne rare eccezioni, l’Inconscio si strutturava su un terreno famigliare che comprendeva al massimo quattro generazioni. Poi l’albero sprofondava in un immenso oceano di fantasmi anonimi.
Ho anche potuto notare che tutta la famiglia, dai bisnonni fino al consultante, formava un’unità che stava alla base dei problemi e delle virtù di ciascun individuo. Non si poteva curare una persona senza curare anche la famiglia che si annidava nelle tenebre del suo Inconscio. Come sulla carta fotografica che sotto l’azione dell’acido rivela progressivamente l’immagine che racchiude, vidi scaturire ripetizioni stupefacenti. Dalla prima alla quarta generazione si reiteravano nomi, malattie, fallimenti, conflitti. Comparivano zone oscure: famigliari scacciati dal clan dei quali non si era trasmesso nulla, segreti custoditi gelosamente, rivalità tra fratelli e sorelle, rancori, nevrosi da fallimento, vergogne, tracolli economici.
Eppure l’albero non era solo un campo di battaglia e un luogo di afflizione, perché rivelava anche possibilità di realizzazione, valori morali e spirituali, capacità di affrontare i problemi.
Mi resi conto che l’albero genealogico era contemporaneamente un tranello e un tesoro.
Questa visione ebbe un così grande impatto sui miei consultanti che furono loro a organizzarmi i primi laboratori di quella che chiamai Psicogenealogia. Un gruppetto di volontari - tra cui alcuni terapeuti, psicologi e psicoanalisti interessati alle mie teorie -iniziò a riunirsi nel 1980 per sottoporsi a esercizi sperimentali in cui mettevamo a confronto i nostri alberi genealogici. Il che ci consentì di scoprire gli aspetti più profondi del tranello famigliare. Come, per esempio, le “programmazioni”.
Parto programmato: “Mia madre ha avuto il primo figlio a trentasei anni, io ne ho ventisei. Ho ancora dieci anni di buono per godermi la vita”.
Disamore programmato: “Mio padre non mi ha mai voluto bene. Sono così sfortunata che di sicuro finirò per vivere con un uomo egoista e indifferente”.
Morte programmata (ne troviamo un esempio nella corrispondenza di Freud): “... non si stupisca se io, a ottant’anni e mezzo, continuo a pensare se arriverò all’età di mio padre e di mio fratello, o se la supererò arrivando all’età in cui è morta mia madre”.
La proiezione del mio corpo su un rettangolo - all’origine dell’uso del tappeto viola - mi aprì orizzonti che cambiarono il mio modo di leggere i Tarocchi. Era l’epoca in cui avevo inventato la nozione di Tarologia, per distinguere il mio lavoro da quello dei cartomanti: avevo l’ambizione di interpretare il linguaggio grafico dei Tarocchi senza attribuirmi doti di veggente. Tale pratica avrebbe dato origine in seguito a una nuova disciplina che ribattezzai Psicogenealogia.
A partire da quel momento, organizzai le mie letture nel modo seguente: chiedevo al consultante di estrarre dal mazzo dei Tarocchi cinque dei ventidue Arcani maggiori e di collocarli in ciascuna delle quattro sezioni. Il che significava utilizzare venti carte. Le due rimanenti - collocate fuori dal tappeto - simboleggiavano quanto segue: la carta in basso, ciò che il consultante era stato nel passato; quella in alto, ciò che desiderava diventare nel futuro. La persona mi esponeva i suoi dubbi, i problemi nell’operare determinate scelte, e così via. Iniziavo ad analizzare i suoi bisogni materiali; poi, andando sempre più su, i conflitti creativi o sessuali; la vita emozionale e infine, nella parte superiore del tappeto, le idee che controllavano la sua vita.
Potei constatare che non appena iniziavano a interrogare l’arca materiale (salute, lavoro, territorio), i consultanti si riferivano alla loro infanzia, alla città natale o ai rapporti con i fratelli e le sorelle, e alla fine arrivavano a parlare delle circostanze in cui erano stati partoriti.
Nella seconda sezione comparivano i genitori, come formatori della capacità di creare e delle attitudini sessuali del consultante. D’altronde, la creatività e la sessualità dei genitori dipendevano sovente dai rapporti che a loro volta avevano avuto con i propri fratelli e sorelle. Le zie e gli zii materni e paterni si rivelarono di fondamentale importanza per il consultante, anche se lui non li aveva mai conosciuti.
Nella terza sezione, dopo avere esaminato a fondo i sentimenti dei consultanti, mi resi conto dell’importanza dei quattro nonni, e anche di prozii e prozie. Loro avevano trasmesso i loro successi e i fallimenti sentimentali ai genitori, e questi ai loro figli.
Giunto all’ultima sezione, quella che definisce l’area intellettuale, notai che era formata in gran parte da idee assurde e morali precarie che arrivavano dai bisnonni. E non mancava mai un libro religioso che dettasse leggi di comportamento mal interpretate da sacerdoti misogini con ambizioni politiche. Potevano essere la Torah o il Nuovo Testamento, il Corano, un testo buddhista o un libro sacro di un’altra religione.
E fu così che piano piano arrivai a visualizzare sul tappeto l’albero genealogico del consultante. Pieno d’entusiasmo per la mia scoperta, lasciai perdere il tappeto viola e le carte dei Tarocchi e mi dedicai a studiare direttamente l’albero genealogico dei miei consultanti. Li interrogavo dettagliatamente sulla loro famiglia e annotavo le informazioni ottenute su un foglio rettangolare. In genere, i dati richiesti erano i seguenti; nomi, cognomi, date di nascita, data e causa delle morti in famiglia, matrimoni, aborti, adulteri, divorzi, malattie, abusi subiti, incidenti, perdite del territorio (vale a dire cambiamenti di casa, esili o guerre), tracolli economici, ingiustizie, professioni, successi e fallimenti di ciascun membro della famiglia, fino ai bisnonni.
Salvo rare eccezioni, non andavo a cercare nella quinta, sesta generazione, perché la memoria famigliare si perde oltre i bisnonni; le informazioni diventano nebulose, si trasmettono frammenti di personalità, poche immagini, qualche parola, ed è praticamente impossibile trovare dati certi nel tumulto delle personalità. Dato che tutti abbiamo otto bisnonni, nelle generazioni più indietro i trisnonni sono il doppio, sedici. E così di generazione in generazione i nostri avi continuano ad aumentare; 32, 64, 128, 256, 512. Nel giro di trenta generazioni, i nostri antenati sono 1.073.741.824, vale a dire più di mille milioni.
Andando indietro nel tempo con la moltiplicazione degli antenati, abbandoniamo la cerchia della famiglia vera e propria per addentrarci nella moltitudine di una società, abbracciando l’umanità intera.
Dopo numerosi consulti ho scoperto che, tranne rare eccezioni, l’Inconscio si strutturava su un terreno famigliare che comprendeva al massimo quattro generazioni. Poi l’albero sprofondava in un immenso oceano di fantasmi anonimi.
Ho anche potuto notare che tutta la famiglia, dai bisnonni fino al consultante, formava un’unità che stava alla base dei problemi e delle virtù di ciascun individuo. Non si poteva curare una persona senza curare anche la famiglia che si annidava nelle tenebre del suo Inconscio. Come sulla carta fotografica che sotto l’azione dell’acido rivela progressivamente l’immagine che racchiude, vidi scaturire ripetizioni stupefacenti. Dalla prima alla quarta generazione si reiteravano nomi, malattie, fallimenti, conflitti. Comparivano zone oscure: famigliari scacciati dal clan dei quali non si era trasmesso nulla, segreti custoditi gelosamente, rivalità tra fratelli e sorelle, rancori, nevrosi da fallimento, vergogne, tracolli economici.
Eppure l’albero non era solo un campo di battaglia e un luogo di afflizione, perché rivelava anche possibilità di realizzazione, valori morali e spirituali, capacità di affrontare i problemi.
Mi resi conto che l’albero genealogico era contemporaneamente un tranello e un tesoro.
Questa visione ebbe un così grande impatto sui miei consultanti che furono loro a organizzarmi i primi laboratori di quella che chiamai Psicogenealogia. Un gruppetto di volontari - tra cui alcuni terapeuti, psicologi e psicoanalisti interessati alle mie teorie -iniziò a riunirsi nel 1980 per sottoporsi a esercizi sperimentali in cui mettevamo a confronto i nostri alberi genealogici. Il che ci consentì di scoprire gli aspetti più profondi del tranello famigliare. Come, per esempio, le “programmazioni”.
Parto programmato: “Mia madre ha avuto il primo figlio a trentasei anni, io ne ho ventisei. Ho ancora dieci anni di buono per godermi la vita”.
Disamore programmato: “Mio padre non mi ha mai voluto bene. Sono così sfortunata che di sicuro finirò per vivere con un uomo egoista e indifferente”.
Morte programmata (ne troviamo un esempio nella corrispondenza di Freud): “... non si stupisca se io, a ottant’anni e mezzo, continuo a pensare se arriverò all’età di mio padre e di mio fratello, o se la supererò arrivando all’età in cui è morta mia madre”.
La famiglia è un clan cui desideriamo appartenere, forse per la nostra natura di mammiferi a sangue caldo che muoiono se sono separati dal gruppo. Per il timore di essere esclusi se ci mostriamo diversi, ripetiamo gli errori che sono stati dei nostri avi. Se una nonna soffriva di una malattia epatica, i nipoti dichiarano di essere deboli di fegato, affermando così la propria appartenenza al clan. Se un bisnonno ha fatto ritorno dalle trincee della Prima guerra mondiale con i polmoni corrosi dai gas, molti dei suoi discendenti soffriranno di malattie polmonari.
Un’ascesa sociale che non rientra nei piani coscienti o inconsci della famiglia può indurre una persona, nel pieno del successo, a comportamenti autodistruttivi. (Ricordo il caso di genitori operai che criticavano la figlia per essersi laureata in veterinaria e guadagnare parecchi soldi esercitando la professione: la ragazza finì a fare la cassiera in un supermercato. O quello di un nonno minatore che, in un incidente, morì con la testa fracassata; ebbe un figlio e un nipote parrucchieri.)
Per più di un anno continuai a tenere questi seminari due volte al mese. Nello stesso tempo, facevo conferenze gratuite ogni mercoledì, che ben presto presero il nome di “Cabaret mistico”. All’inizio in una piccola sala da ballo in rue Malebranche, poi all’Ecole des Mines (negli anni ottanta) e all’Università Jussieu (nel 1992), e infine nel dojo di karaté dei mio amico Jean-Pierre Vignau, sempre a Parigi.
Durante una visita al Museo Rodin, un’altra visione condizionò il seguito delle mie elucubrazioni sperimentali sull’albero genealogico: contemplando il monumentale gruppo scultoreo I borghesi di Calais, ebbi l’intuizione che la famiglia (i vivi e i morti) si struttura nell’Inconscio di ciascuno di noi come un gruppo scultoreo.
Tutti abbiamo una percezione soggettiva del tempo e dello spazio che dipende dal nostro albero genealogico. Per esempio, molte donne si sposano alla stessa età delle loro madri, o molti uomini hanno successo o si rovinano alla stessa età in cui lo avevano fatto i loro nonni. C’è chi si sente vecchio a quarant’anni, e chi si sente giovane a settanta. Ad alcuni basta vivere in venti metri quadrati, altri si sentono soffocare in trecento. Alcuni spiriti vivono confinati in una minuscola isola mentale; altri, in una dimensione più ampia; e pochissimi - quasi nessuno - vivono nell’eternità infinita. I limiti imposti alla nostra immaginazione temporale e spaziale derivano dalla morale, dalla religione, dalla situazione sociale, dal livello di
Coscienza dei nostri avi. Lo spazio interiore in cui organizziamo i ricordi ha un centro luminoso che diventa via via più scuro. In esso sistemiamo la nostra famiglia: chi è stato importante per noi lo collochiamo vicino al centro, e chi lo è stato di meno verso i bordi pili scuri. Lo stesso succede nella pittura medievale, dove coloro che esercitano il potere o hanno dispensato l’amore migliore hanno una dimensione più grande. L’importante è scoprire in quale zona ci collochiamo noi: siamo il centro del nostro albero, il frutto primigenio o siamo stati spostati verso le tenebre secondarie?
Il nostro gruppo famigliare se ne sta annidato dentro tutti noi, nel nostro spazio interiore, seguendo un ordine dettato dai pregiudizi, dalle frustrazioni, dai desideri e dai valori morali che ci sono stati trasmessi.
Se ero riuscito a simboleggiare la famiglia usando un tappeto viola e le carte dei Tarocchi, immaginai di poterla rappresentare anche in modo tridimensionale... Le mie conferenze settimanali, che si svolgevano davanti a duecento-trecento persone, mi offrirono il contesto ideale per realizzare l'esperimento, Fu così che nel 1980 inventai la teatralizzazione dell’albero.
Selezionavo a caso uno spettatore e gli chiedevo di scegliere fra il pubblico coloro che avrebbero rappresentato i membri della sua famiglia - fratelli e sorelle, genitori, nonni, bisnonni - e di organizzarli formando un insieme. I famigliari assenti o sconosciuti doveva situarli lontano dal gruppo; quelli importanti o dominanti su una sedia; gli umiliati in ginocchio; quelli che, disprezzati, avevano trasmesso soltanto il nome, di spalle; i bambini morti prima di nascere erano persone sdraiate sul pavimento in posizione fetale; quelli che si amavano stavano vicini vicini; quelli che si odiavano separati, o voltandosi le spalle, e così via.
Una volta formato il gruppo, chiedevo a chi lo aveva scelto di trovare la propria posizione al suo interno, e a quel punto uscivano allo scoperto i problemi di adattamento alla famiglia, come sentirsi escluso, la consapevolezza che gli si preferivano un fratello o una sorella, o dover rendere omaggio a un nonno considerato come l’unico vero uomo della famiglia... Chiedevo al consultante di parlare con ciascun attore. E le persone interpellate gli davano quasi sempre risposte-giuste, perché - inesplicabile mistero - coloro che erano stati scelti avevano qualcosa in comune - nel loro passato o nel carattere - con il personaggio che dovevano interpretare. Per esempio, se la nonna era morta di cancro, la persona scelta per incarnarla aveva anche lei una nonna che aveva avuto un tumore. Giunsi alla conclusione che l’Inconscio coglie in modo telepatico la storia famigliare di ciascun individuo...
L’esperienza di regista teatrale mi consentì di moderare tali sedute e di prendere in considerazione ciascuno dei collaboratori presenti sul palcoscenico. Avevo capito che ogni rappresentazione doveva avere un finale, possibilmente positivo, per cui una volta che l’albero era stato composto mi sforzavo di riorientarlo in modo che il consultante e i suoi benevoli aiutanti non avessero il loro ruolo invano. Fu così che iniziai a esplorare un campo enorme: il risanamento dell’albero.
Durante le teatralizzazioni, chiedevo al consultante - dopo che si era reso conto del livello di Coscienza raggiunto dalla propria famiglia ed era divenuto consapevole dei problemi - di offrire a ciascun parente quello che gli era mancato: ai morti in giovane età, una lunga vita; ai falliti, il successo; ai malati, la salute; ai poveri che non erano stati amati, prosperità e amore; agli esclusi e agli assenti, un posto in famiglia (questo è il lavoro che ho fatto su di me nel 1992 nel mio romanzo Quando Teresa si arrabbiò con Dio pubblicato da Feltrinelli nel 1996). Sempre attento all’equilibrio dei personaggi nello spazio esterno che rifletteva lo spazio interno del consultante, gli chiedevo di riequilibrare le posizioni degli attori. Per esempio, far scendere quelli che stavano sulle sedie, e sollevare quelli che stavano in ginocchio o sdraiati sul pavimento, dando così uguale dignità a tutti. Poi chiedevo al consultante di trovare una posizione all’interno del gruppo che lo facesse sentire felice. Dopo aver cercato mille soluzioni, il consultante si piazzava sempre tra il padre c la madre. Poi aggiungeva sorelle e fratelli, zie e zii, nonni e bisnonni. In genere il lavoro finiva con il consultante circondato dagli attori che avevano incarnato i parenti che formavano un gruppo compatto e unito in un abbraccio generale.
Con il passare degli anni, mi sono reso conto che alcuni dei partecipanti alle mie conferenze si erano autodichiarati “terapeuti dell’albero genealogico” o “psicogenealogi”. Non avendo mai pensato di “professionalizzare” quella che per me era unicamente una ricerca, ho smesso di tenere conferenze e seminari pubblici sull’argomento per continuare il mio lavoro in modo privato, e ho deciso di ricevere un consultante al giorno per definire il suo albero genealogico e tentare di curarlo.
Ritengo importante chiarire come mai abbia scelto di usare il termine consultante parlando delle mie letture dei Tarocchi o delle analisi dell’albero genealogico: rifiuto il termine paziente perché lo ritengo riservato all’ambito medico e perché ho la sensazione che all’interno di una terapia psicologica si sottovaluti la persona desiderosa di realizzarsi. Guarire - psicologicamente parlando - è trovare se stessi. Un “paziente” (fondamentalmente passivo) non può curarsi, perché si aspetta che la salute gli venga restituita da un medico o nel peggiore dei casi da un ciarlatano. Invece un “consultante” è capace di trasformarsi nel guaritore di se stesso; sa che la sua realizzazione (trovare la pace) dipende dai suoi sforzi. Un terapeuta non deve comportarsi come un Maestro orgoglioso ma come un’umile guida.
Iniziavo le mie sedute leggendo i Tarocchi al consultante, il che mi consentiva di portare rapidamente alla luce il problema centrale. Poi, sopra un grande foglio di carta, scrivevo la maggior quantità di dati ricavabili sui suoi famigliari, e li analizzavo. Dopo avere fatto un po’ di ordine nella memoria, drammatizzavamo l’albero disponendo sul tavolo una serie di statuine. A volte erano una ventina, altre volte, nelle famiglie numerose, potevano essere molte di più. Il consultante, dopo avere organizzato il gruppo, doveva identificarsi con i suoi antenati, uno dopo l’altro, dando loro una voce e facendo conversazione, insomma portando alla luce i problemi relazionali.
Aggiunsi dei piccoli oggetti (per esempio una pallina nera che simboleggiava il cancro al seno trasmesso dalla nonna alla madre e poi alla nipote; una piccola spada rotta, simbolo del fallimento intellettuale sofferto per tre o più generazioni da membri della famiglia che non riuscivano a ottenere l’anelato diploma; un tubetto di tempera rossa, a rappresentare il rifiuto o il disprezzo per il mestruo negli alberi misogini). Il consultante doveva identificarsi anche con quegli oggetti e, facendoli passare da una statuina all’altra, doveva dar loro una voce.
Poi chiedevo al consultante di disegnare sopra un foglio di carta, senza ricorrere al linguaggio orale, l’insieme della sua famiglia dandole qualsiasi forma purché non antropomorfica, e nel disegno di includere anche se stesso. Capita sovente che un divieto assoluto impartito nell’infanzia impedisca in seguito al consultante di esprimere oralmente determinati desideri o aspirazioni. Ma nel momento in cui autorizzavo i consultanti a sostituire le descrizioni orali con dei disegni, tracciavano sul foglio di carta quello che era stato loro proibito.
Per esempio, magari disegnavano un cerchio che occupava la metà del foglio (la madre), un quadratino piccolo messo lontano in un angolo (il padre debole o assente) e loro si piazzavano al centro del grande cerchio attribuendosi una forma molto simile a quella di un feto; in questo modo, esprimevano la sensazione di non essere ancora nati. Anche nelle sedute di disegno intuitivo, come in quelle di drammatizzazione dell’albero, alla fine chiedevo al consultante di riequilibrare le forme per ottenere un disegno soddisfacente.
Tutte queste esperienze mi hanno confermato che le strutture dell’albero genealogico vanno osservate con occhio d’artista, perché l’artista è capace di cogliere il miracolo.
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