venerdì 15 luglio 2016

Fine del male?

La saggezza popolare identifica nella morte la fine di ogni sofferenza. “Ha smesso di soffrire”, “E’ passato/a a miglior vita”…: queste frasi esprimono il convincimento che, dopo il decesso, o perché subentra il nulla o in quanto l’anima si libera dai gravami terreni, ogni forma di dolore sparisce.

Quanto è plausibile tale convinzione?
Se hanno ragione i materialisti, secondo i quali la fine del corpo è la fine di tutto, non si pongono problemi, ma se avessero torto?

Adepti di talune confessioni cristiane asseriscono che solo un’esigua minoranza degli uomini sarà premiata con l’eterna beatitudine, mentre miliardi di reprobi già dimorano nell’inferno dove sono destinati a precipitare quasi tutti gli appartenenti alle attuali generazioni della Terra.

Sono sempre più numerosi i ricercatori che vedono nella luce avvolgente, nella sensazione di beatitudine ricordate da chi ha avuto un’esperienza di pre-morte un inganno arcontico: gli Arconti (o i demoni alias alieni malevoli) attirerebbero l’anima in una trappola per poi riciclare la psyché, reintroducendola in un nuovo involucro. In questo modo gli Altri possono proseguire a parassitare le loro vittime e ad usarle per trasferire le memorie da un cervello ad un altro...


Non sappiamo se tale ipotesi sia credibile: vero è che trova il suo fondamento in alcune idee della Gnosi antica, spesso l’unica fonte da cui si sono attinte conoscenze in gran parte avvalorate da ricerche recenti in relazione alla natura umana, al ruolo dei Dominatori, alla vera essenza del Potere.

I molteplici vissuti di pre-morte (in inglese near death experiences), anche di Musulmani, Buddhisti, Induisti etc. evocano sovente non solo il Regno dei cieli, ma pure il Tartaro e di solito curiosamente lo raffigurano secondo l’iconografia cristiana (più che cattolica, poiché il Purgatorio è presenza rara). Se nel caso di “redivivi” cristiani tale scenario, dove figura sempre Dio e compare spesso il Messia, si può giudicare come filtro culturale con cui si interpreta e, in parte, si modella una realtà trascendente, come si può spiegare questo canovaccio quando a raccontare la sua avventura nell’aldilà è, ad esempio, un fervido seguace del Profeta?

Il racconto dell’adolescente Nathan, israeliano, pur riferendosi all’Empireo ed alla Gehenna in cui i veri Ebrei non credono accenna pure al Messia, ma non proprio nel modo in cui lo intendono i Cristiani. Di conseguenza il quadro si complica.

Pare purtroppo che vedere nella morte la fine di ogni male tout court sia un’illusione, mentre è possibile che, o in un altro livello o in un altro soma, si debba seguitare, se non a soffrire, comunque a resistere prima della liberazione definitiva.

E’ ovvio che siamo nel campo delle mere speculazioni: nessuno può dispensare la verità assoluta su questioni tanto liminali e vertiginose. Non sappiamo, verbigrazia, se esista il Paradiso: avrà ragione Agostino a considerarlo un “luogo” bellissimo ma semideserto?

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