martedì 5 gennaio 2021

Quando la dipendenza dall'effimero si antepone ai bisogni primari

di Gianni Tirelli

Il pane è cibo primordiale. E’ il nutrimento per eccellenza e vita esso stesso. Il suo significato non si può limitare al solo valore alimentare, ma va ben oltre, toccando tutti i momenti più importanti della vita dell’individuo e della comunità, fino a diventare simbolo di fede o mezzo magico, per evocare i fantasmi e le paure, l’angoscia e la solitudine dell’umanità. E solo mangiandolo l’uomo può lenire la propria sofferenza!

Il famoso detto “pane al pane e vino al vino” è un’ espressione con la quale si vuole evidenziare il lodevole comportamento di chi, in ogni circostanza, sa esprimere, con franchezza e senza timori reverenziali verso qualcuno, il proprio parere positivo o negativo.

“Pane al pane e vino al vino”, sono parole fondamentali, dotate di una potente carica semantica, utilizzate come metafore e figure letterarie, come modelli delle verità più immediate, dei significati più profondi e più elementari. Per il fatto di essere tra i più antichi segni umani della terra, il pane e il vino diventano simboli della nostra stessa identità.” Così, il prof. Cusumano ha spiegato come questi frutti di una storia e di una cultura millenaria siano congiunti alla radice sia sul piano alimentare che su quello linguistico e ha riportato ampie e interessanti esemplificazioni documentate nella letteratura orale e popolare e nei riti e negli usi tradizionali.

Per tutto questo, diciamo ancora «pane al pane e vino al vino», per chiamare le cose con il loro nome, per restituire, in un tempo difficile e confuso, significato e valore alle parole, per ritrovare il senso vero e profondo della realtà che rischiamo di perdere, abbagliati dallo sfavillio dell’effimero che oggi abita le nostre vite ..


Il cibo, come il sesso e poche altre cose, sono in grado di procurarci quell’innocuo e rigenerante “piacere” che ci pone nella posizione, un gradino più in alto, nella scalata che tentiamo di compiere per il raggiungimento della felicità. 

Ma oggi il cibo e il sesso, come ogni altra cosa, che siano emozioni, aspirazioni, atmosfere o passioni, verità o bellezza, giustizia o libertà, non sono che orpelli – gli elementi dissonanti e caricaturali - di una società che ha trasfigurato la sua originaria vocazione, in una messinscena carnevalesca, volgare, deprimente e chiassosa...

Quale stupido può ancora credere che sia la fame di pane a ricompattare le masse occidentali consumisti e accendere rivolte e sommosse contro il Sistema Bestia che, giorno dopo giorno, a vampirizzato le nostre vite e oscurato il futuro dei nostri figli? Non è forse più plausibile e drammaticamente reale, pensare (visto il livello di omologazione e di dipendenza), che l’inevitabile e imminente ribellione sociale sarà scandita al grido di “prendeteci tutto – ma non il cellulare, ridateci le fabbriche – non fateci zappare”?.

Oggi tutto è anacronistico, fuori luogo, equiparabile e relativizzabile. Per tanto, il pane ed il vino della modernità (lontani dall’essere assunti a parametri di riferimento e di comparazione dei nostri bisogni essenziali), non hanno più valore di un abbonamento a Sky, di un derby calcistico, di una crema anti rughe, di una ricarica telefonica, di un reality, di un condizionatore o di un aperitivo al bar.


Ogni cosa che rotea in questo grottesco Luna Park delle illusioni (un paese dei balocchi progettato da Satana in persona), è l’esatto contrario di come dovrebbe essere. 

E così, il pane non è il pane e il vino, un intruglio chimico dagli effetti inquietanti. 
Ogni cosa è un’altra cosa, manipolata, filtrata e contraffatta dall’ingegnosa opera di multinazionali criminali, che per facilità di applicazione e mero profitto, hanno anteposto la forma al contenuto e la licenza alla libertà.

Niente oggi, ha più sapore, odore, calore e colore!! Tutto è piatto e neutro come il grafico delle nostre emozioni e della nostra conoscenza delle cose. 
Nessun atto d’amore è contemplato nel Mercato del Grande Malfattore, ma solo brama di ricchezza e di potere, volti alla soddisfazione di vizio e perversione.

La rabbia dei giovani, che presto esploderà in tutta la sua potenza e violenza, non sarà, dunque, relativa alla richiesta dei beni essenziali, ma degli effimeri. 

Un caso unico per eccezionalità nella storia dell’uomo ma un classico del relativismo, dove ogni cosa è lecita e, le attenuanti soggettive, vengono sdoganate come supremo atto di libertà.

Oggi nessuno sa zappare, seminare, raccogliere, accendere un fuoco, cacciare, riconoscere le piante e le loro proprietà. 

Nessuno sa interpretare i segnali provenienti dalla natura. L’uomo moderno è privo di ogni tipo di intraprendenza e non è assolutamente in grado di potersi adattare ad avvenimenti catastrofici di portata planetaria. 

Tutto quello che rimane, siamo certi che sia cultura? Certo che no!

Solo arido, meccanico apprendimento, fine a se stesso – pensieri geneticamente modificati (PGM) da un meccanismo di contraffazione e da un’opera di mistificazione che, in questo modo, li ha resi sterili e quindi improduttivi.

La vera cultura, all’opposto, è un manuale di sopravvivenza, pratica, morale e spirituale che, nell’ indipendenza, autonomia, e nell’autosufficienza, conforta le ragioni dell’esistere e della libertà di scelta.

Per tutti questi motivi, l’uomo monco di questo secolo nefasto, soccomberà, schiacciato dal peso della sua ottusità, ignoranza e stupidità, mettendo così fine alla sua apparizione sul pianeta terra.

“L’orto è una grande metafora della vita spirituale”, scrive Enzo Bianchi nel suo libro “Il pane di ieri”. E continua, “anche la nostra vita interiore abbisogna di essere coltivata e lavorata, richiede semine, irrigazioni, cure continue e necessita di essere protetta, difesa da intromissioni indebite. L’orto, come lo spazio interiore della nostra vita, è luogo di lavoro e di delizia, luogo di semina e di raccolto, luogo di attesa e di soddisfazione. Solo così, nell’attesa paziente e operosa, nella custodia attenta, potrà dare frutti a suo tempo.”


Fonte: cogitoergo.it

Ventiquattro straordinari racconti di varia lunghezza compongono quest'opera dello scrittore Orhan Kemal, nome d'arte di Mehmet Raşit Öğütçü, tradotto da Barbara La Rosa Salim, con la prefazione e a cura di Giampiero Bellingeri e pubblicato dalla Lunargento di Venezia nella sua collana Cahiers de voyage. 
Se mi permettete un consiglio: leggete prima, tutti d'un fiato i racconti, gustateveli e poi tornate, a ritroso, alla dettagliata e competente prefazione di Bellingeri che ci arricchisce con le notizie sull'autore e sulle sue tematiche. 
Sono racconti che hanno come protagonisti sempre e soltanto gli "ultimi", che siano bambini come in "Sonno" o "Il bambino Alì" o persone detenute come "Ysuf, l'inserviente dell'infermeria" (e questa storia sarà stata probabilmente ispirata dal periodo trascorso in carcere dall'autore dal 1939 al 1943 accusato di incitamento alla rivolta nelle caserme) o donne come in "Una morta" o "Una donna"; sono tutte storie che hanno come denominatore comune la povertà, la lotta per la vita, per il pane, come dice il titolo, ma sempre venate da un sorriso nonostante tutto, da un "ottimismo naturale, raggiunto vivendo, e non imparato a qualche scuola?" come scrive Orhan Pamuk, scrittore turco premio Nobel.

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