mercoledì 2 novembre 2011

Allarme: siamo già 7.000.000.000

  

1. Da alcuni giorni i mezzi d’informazione segnalano (timidamente, per la verità) che, secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato in primavera, il 31 ottobre la popolazione mondiale taglierà il traguardo dei 7.000.000.000. Una volta, il cambio ci cifra nella prima casella della popolazione era motivo di celebrazione, salutato come una pietra miliare dello sviluppo umano. Oggi, al contrario, il traguardo suona minaccioso, suggerendo ai più di avere molta, molta paura.

2. È impressionante la velocità con cui la popolazione mondiale è aumentata dalle origini ad oggi: ci sono voluti 250.000 anni, fino al 1804, per toccare quota un miliardo; un secolo per arrivare a due miliardi (nel 1927); altri 32 anni per raggiungere 3 miliardi (nel 1959); appena la metà per salire a 5 miliardi (nel 1987); 12 anni per aumentare a 6 miliardi (nel 1999) e solo 11 per fare di nuovo cifra tonda a 7 miliardi (grafico interattivo del Guardian).
Questa bomba demografica è innescata principalmente da due fattori: da un lato, una sostanziale riduzione della mortalità infantile; dall’altro, una riduzione troppo blanda dei tassi di fertilità. Il picco di crescita della popolazione è stata alla fine del 1960, quando il totale è stato in aumento di quasi il 2% l’anno. Ora il tasso è pari alla metà. Ad ogni modo, dal 1350(quando l’umanità fu flagellata da una terribile pestilenza) la crescita non si è più fermata, e ora procede al ritmo di di 10.000 nuovi individui all’ora.
Per rendere l’idea di quanti siamo sulla Terra, immaginiamo di convocare tutti i nostri simili in un’ipotetica riunione globale. Per ospitarci tutti, anche stando stretti spalla a spalla, nel 1950 sarebbe bastata l’isola di Wight, 381 km2 a largo dell’Inghilterra. Nel 1968 John Brunner, uno scrittore britannico, ha osservato che sarebbe stata necessaria l’isola di Man, 572 km2 nel mare d’Irlanda. Nel 2010, ipotizzava Brunner, avremmo avuto bisogno addirittura di Zanzibar, 1554 km2. Da qui il titolo del suo romanzo sul tema della sovrappopolazione, “Stand in Zanzibar“, uscito nel 1968. è superfluo notare che si è sbagliato di un solo anno....
Secondo le Nazioni Unite potremo toccare quota 9,3 miliardi entro la metà del secolo, oltre la quale le ipotesi si divaricano in una forbice compresa tra i 6,2 e i 15,8 miliardi entro il 2100.


3. Mai prima d’ora così tanti animali (invertebrati a parte) di una stessa specie hanno popolato il pianeta in così (relativamente) poco tempo. Al punto che alcuni scienziati hanno ribattezzato la nostra era come Antropocene, perché caratterizzata dall’azione a lungo termine dell’umanità tesa alla sistematica alterazione del contesto ambientale preesistente. Una specie che interagisce con l’ambiente circostante molto più intensamente di quanto le altre non abbiano mai fatto prima, e quasi sempre a danno di tutte le altre. Ci appropriamo dal 24% al 40% della produzione fotosintetica e di più della metà dell’acqua dolce disponibile. Ovunque, eccetto in Antartide (ma ancora per quando?) siamo impegnati nell’occupazione, manipolazione, sfruttamento del suolo e delle sue risorse. Dovunque ci spingiamo, la natura si ritira. Per la prima volta nella storia geologica della Terra, una forma di vita – la nostra – condanna all’estinzione significative proporzioni di piante e animali, nostri unici compagni conosciuti nell’universo.
Tali sconvolgimenti non sono conseguenza della crescita demografica in sé, bensì dell‘aumento e della smodatezza dei nostri consumi. Non stiamo alterando gli equilibri naturali per cattiveria, quanto per incuria. Ciascuno punta a massimizzare il proprio benessere, il che è legittimo; tuttavia,l’insieme dei nostri comportamenti, anche quelli più trascurabili, può avere effetti disastrosi se moltiplicati per sette miliardi. A cominciare dal consumo delle risorse, per proseguire con quello di acqua e suolo, chiudendo il ciclo con l’inquinamento dovuto allo smaltimento dei rifiuti.

  

4. Il futuro del genere umano (e, di riflesso, del pianeta) oscilla tra catastrofe e opportunità così come le opposte posizioni di malthusiani e cornucopiani: i primi mettono in guardia sui pericoli di una inarrestabile sovrappopolazione; i secondi credono invece che l’ingegnosità umana, rispondendo alle necessità del momento, riuscirà comunque a trovare nuove risorse per soddisfare le popolazioni in aumento. Finora sono stati questi ultimi ad avere ragione, come testimoniato dal costante aumento degli standard di vita dal dopoguerra ad oggi e dalla recente ascesa dei Paesi emergenti. Ma ogni cosa ha un prezzo e quello pagato in virtù del tanto decantato sviluppo ridimensiona le teorie (e le speranze) dei cornucopiani. Dal 1961, ad esempio, la superficie di di terra coltivata nel mondo è cresciuta del 13% a fronte di una popolazione umana più che raddoppiata: in altre parole, la superficie agricola pro capite si è praticamente dimezzata. Questo perché il grosso del suolo è fagocitato dall’urbanistica e dalle attività industriali, come se il problema alimentare fosse secondario rispetto a quello abitativo o della crescita economica. Ricicliamo poco, quasi nulla, dei minerali estratti, pur consapevoli i giacimenti sono in via di esaurimento; la quasi totalità della nostra energia (in gran parte sprecata) proviene da fonti non rinnovabili. Nel 2050 ci servirà il doppio dell’acqua e secondo la Nasa metà della capacità produttiva della Terra sarà al servizio delle nostre attività.
Peraltro, è noto che il consumo di risorse è pesantemente squilibrato: la Banca Mondiale calcola che l’impatto ambientale di un cittadino del Regno Unito è pari a quello di 22 abitanti del Malawi. Ognuno di noi tende a consumare di più man mano che la sua vita procede e che il progresso glielo consente. Ma se i Paesi emergenti – al momento gli unici a registrare uno stabile sviluppo economico – raggiungono i livelli di consumo delle nostre latitudini, la situazione diventa insostenibile. La Terra non è in grado di sostenere 10 miliardi di persone con lo stesso impatto pro capite delle 7 miliardi di oggi. Una crescita demografica a tempo indeterminato è fisicamente impossibile su un pianeta finito: ad un certo punto dovrà necessariamente arrestarsi. Ciò avverrà in modo “umano”, attraverso un minor numero di nascite e un’oculata politica demografica; oppure più tragicamente in modo “naturale”, attraverso una decimazione di massa per fame, malattie e guerre. O riduciamo i nostri “numeri” volontariamente, o la natura lo farà per noi brutalmente.

  
5. L’aumento della popolazione non è unifome. In generale il tasso di fertilità di declino, ma con differenze molto profonde da zona a zona. Il Guardian offre un’approfondita analisi di questa dinamica. Nel 1970 il tasso di fecondità era di 4,45 figli per donna; ora è sceso a 2,45. Attualmente il mondo è più o meno equamente diviso tra i Paesi al di sopra del tasso di sostituzione della popolazione (2,1) e quelli al di sopra. Il primo gruppo è costituito da Europa, Cina e nel resto dell’Asia orientale. Il secondo comprende Sud e Sud-Est Asiatico, Medio Oriente e Americhe. Si è constatato che il tasso è inversamente proporzionale alla crescita economica: più una società diventa ricca, meno figli tende a fare, spostando in avanti l’età media della sua popolazione.
L’altra faccia della medaglia è costituita dalla sovrappopolazione nei Paesi più poveri, in cui l’aumento incontrollato contribuirà a peggiorare un contesto già drammatico sia dal punto di vista alimentare che da quello igienico-sanitario. Nel 1950 il 68% della popolazione mondiale era concentrata nelle aree più povere. Oggi tale quota è salita all’82% e si prevede che aumenterà all’86% entro il 2050. Si stima che per allora quasi tutte le nuove nascite (97%) si verificheranno nelle regioni meno sviluppate.

  

5. La bomba demografica ha due fondamentali conseguenze. La prima è la ridefinizione della geografia umana attraverso i flussi migratori. L’immigrazione potrebbe essere un modo per bilanciare il carico demografico globale, alleviando la pressione della popolazione nelle zone più povere per compensare i fenomeni dell’invecchiamento e della scarsa natalità nelle nazioni più sviluppate. Ne sanno qualcosa gli Stati Uniti, da sempre terra di migranti, dove negli anni a venire la crescita della popolazione sarà sostenuta soprattutto dall’afflusso di stranieri. IlGiappone, al contrario, resiste fermamente all’assimilazione degli stranieri, nonostante l’allarme, lanciato da tempo, sul progressivo invecchiamento della società. D’altra parte, non tutti concordano col fatto che le migrazioni siano foriere di benefici, come testimoniato da alcune ricerche. Di tratta comunque di fenomeni controversi, dai risvolti spesso imprevedibili e il più delle volte incontrollabili dagli stessi governi. È inoltre accertato il legame tra le migrazioni e cambiamenti climatici, i quali, come detto, sono in gran parte gli effetti collaterali delle attività umane.
La seconda è il nesso tra sovrappopolazione e aumento della violenza. Ormai il 90% delle morti violente totali (526.000) avviene al di fuori delle aree di guerra: oggi a mietere vittime è soprattutto la violenza criminale. Le ultime ricerche della Geneva Declaration dimostrano inoltre il legame che sussiste tra omicidi e sottosviluppo: un quarto degli omicidi nel mondo avviene in 14 Paesi (per lo più in Africa e in America Latina), tutti accomunati da un basso indice di sviluppo umano. Viceversa, quando i Paesi progrediscono in termini di sviluppo, i loro livelli di violenza omicida hanno delle possibilità di diminuire.


6. L’umanità rischia di essere schiacciata sotto il suo stesso peso. In parole povere, la festa è finita.
Inutile avere paura di quel sette in capo a un numero a dieci cifre: non è questa una risposta costruttiva. Neppure la notizia che la crescita della popolazione stia declinando può essere di conforto. Il coraggio e la determinazione di agire sono l’unica soluzione. Dobbiamo convincerci che nessun essere umano ha il diritto di consumare sempre di più. Perché se si potesse in qualche modo colmare il divario globale dei consumi ponendoli al livello dei Paesi sviluppati il pianeta affonderebbe. C’è bisogno di una rapida trasformazione, tecnologica e culturale, del nostro sile di vita. Piuttosto che adattare il futuro alle nostre esigenze dovremo adeguare le nostre esigenze al futuro. L’umanità intera dovrà, per forza di cose, imparare a fare di più con meno. Inoltre, se la crescita della popolazione è concentrata nei Paesi poveri, al punto da diventarne una piaga, allora lo sviluppo di queste comunità diventa una necessità ecologica, oltre che un atto umanitario. L’analista Hans Rosling ha dimostrato, attraverso un’impressionante combinazione di statistiche, che bambini più sani e più ricchi, una volta adulti, tendono a formare famiglie più piccole. Porre fine alla povertà globale, aumentando il tasso di sopravvivenza dei bambini, è il chiaro percorso per raggiungere una popolazione umano sostenibile.
Il passaggio a questa nuova era non sarà del tutto indolore, ma è nell’interesse di tutti quelli che hanno a cuore un ambiente veramente sostenibile e il futuro dei propri. figli. Il Prof. David Bloom, dell’Università di Harvard, ha sagacemente osservato che nuove sfide significano nuove opportunità: “Queste sfide non sono insormontabili, ma non possiamo affrontarle mettendo la testa sotto la sabbia. È semplicemente irresponsabile assistere pigramente all’esperienza del cambiamento demografico “

 
7. Infine, sette miliardi di persone non sono soltanto sette miliardi di bocche da sfamare o altrettanti produttori di rifiuti. Sono innanzitutto sette miliardi di storie da raccontare. A questo scopo sono dedicati siti come http://7billionactions.org, per ricordarci che tali storie sono importanti, e che tra di esse ce ne sono alcune capaci di fare la differenza all’interno di una comunità. Con l‘implicita speranza che tutte, grandi o piccole che siano, possano contribuire ad un nuovo capitolo della storia della Terra: il post Antropocene, in cui l’umanità non sia più padrona ma ospite rispettosa di questo pianeta, al pari di tutte le altre forme di vita che vi abitano.

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