lunedì 29 settembre 2025

“Terra non Guerra": l'agricoltura che resiste

Oggi l’agricoltura vive una fase di profonda crisi: i piccoli allevamenti scompaiono, le campagne si spopolano e i sistemi intensivi dominano con logiche industriali che guardano alla terra come a una risorsa da sfruttare ed esaurire. 

La globalizzazione delle filiere e la pressione della grande distribuzione stanno riducendo il valore del cibo a semplice merce, mentre la crisi climatica e i conflitti rendono ancora più fragile il settore agricolo e le comunità che lo abitano.

In questo panorama però c’è chi resiste, una visione di agricoltura legata alla terra e al suo ruolo di creare comunità e costruire relazioni, con il territorio e i suoi frutti. 

La rete “Terra non guerra” racchiude biodistretti, cooperative, associazioni e contadini che vedono la terra non come proprietà privata da sfruttare, ma come bene comune, capace di generare pace, comunità e futuro e che, su tutto, si oppone a ogni tipo di guerra. 

Byoblu ha intervistato Lucio Cavazzoni, presidente del biodistretto Appennino Bolognese, uno dei fondatori di questa rete...


Il nome della rete è molto evocativo, da cosa è nato? Perché avete deciso di mettere in contrasto la parola terra proprio con la parola guerra? Cosa c’entra con una rete di agricoltori?

“Terra non guerra” nasce da un incontro importante. Siamo un mondo agricolo non definito ancora da un’associazione, anche se ci stiamo lavorando. Siamo una rete che unisce agricoltori, associazioni, cooperative, organizzazioni in tutta Italia. Lavoriamo e collaboriamo insieme da anni, dallo scoppio della guerra in Ucraina. Con l’inizio del conflitto, abbiamo sentito un’esigenza fortissima di rispondere, di dire la nostra, in qualche modo partecipare a questa catastrofe, che allora non sapevamo quanto fosse catastrofica. Ancora una volta tra morti e feriti ci sono tantissimi giovani contadini.

La rete nasce da questa esigenza di questo mondo di fare battaglia e dall’incontro casuale con una figura molto importante, il grafico Mauro Bubbico, di Montescaglioso, in provincia di Matera.

Chi fa parte di questa rete?

Agricoltori come me. Io nasco come apicoltore, sono uno dei cofondatori delle cooperative giovanili degli anni 70, che escono da una formazione di un’attività politica importante di quegli anni. Fra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 si formano 100 cooperative di giovani agricoltori che allora non si chiamavano biologiche, ma alternative. Ho fatto parte di Conapi, una delle più grandi d’Europa, di cui sono stato presidente per 30 anni. Mi sono sempre occupato di biologico, sono stato 20 anni presidente di Alce Nero, e oggi sono presidente di un biodistretto. Sono un po’ troppo presidente ma perché cerco di far nascere le cose.

In questa rete ci sono cooperative e associazioni, tra le più importante rete Humus, composta da agricoltori e cooperative che nasce a Bologna, ma al suo interno ha molti produttori soprattutto del sud Italia. Tra le altre, c’è la cooperativa El Tamiso di Padova, una delle prrime cooperative biologiche che esistono in Italia. Ci sono produttori calabresi, come il presidente della rete Agostino Maurizio. C’è AltraAgricoltura, associazione con sede a Matera molto presente nel sud Italia. Ci sono presidenti di biodistretti, come me, Fabiano Crucianelli presidente del biodistretto di Amerina, conosciuto nel viterbese che raccoglie 14 comuni e 500 agricoltori in lotta contro i noccioleti intensivi della Ferrero e contro i glifosati.

Un mondo che resiste. Una terra che resiste contro la filiera produttiva intensiva dei grandi marchi.

Non soltanto che resiste. Noi stiamo battendoci molto. Domani inizia la tre giorni vicino a Bologna a Montesolo di Marzabotto, dove nel 44 furono uccisi 270 contadini dai nazisti. Nell’evento “Abitare la campagna e la montagna: agricolture che costruiscono comunità” ci saranno 15 biodistretti italiani, 4 tedeschi, 2 irlandesi e uno francese per cercare di costruire i fondamenti per supportare una battaglia politica che consente al riconoscimento del valore sociale, diretto della piccola e media agricoltura di campagne e di montagne di chi la terra la vive, di chi nella terra ricostruisce la relazione con il vivente. Come vede, non ho parlato ancora di cibo, né di biologico.

Qual è il proposito di questa rete?

In linea con le volontà di questi sindacalisti del sud Italia del dopoguerra è rivendicare l’enorme importanza del valore sociale della terra. La terra è costitutiva di comunità. È uno degli elementi fondamentali che aiuta a costruire le comunità. Non è solo mangiare il cibo locale, ma il cibo come elemento di relazione con il tuo territorio e le persone che ti sono vicine. Questo riguarda tantissimo gli allevamenti.

A proposito di allevamenti. Gli allevamenti bovini stanno chiudendo in tutta Italia. Questo ci porta che nel giro di 20 anni nessuno riconoscerà più la differenza tra cibo vero e cibo industrializzato. Siccome la grande distribuzione che segue le necessità dei consumatori è sempre più impegnata nel far costare di meno il cibo, in questo risparmio c’è l’industrializzazione di fabbriche di carne. Siamo già nel cibo di laboratorio, questo è già cibo di laboratorio.

L’agroecologia che noi proponiamo e la dimensione piccola e media degli agricoltori che sosteniamo diversamente alla dimensione industriale sempre più concentriamo sosteniamo che abbia un enorme valore sociale di per se vivere e abitare la terra è una cosa completamente diversa dal lavorare la terra dallo sfruttare la terrra.

Ormai lo sfruttamento del suolo, l’estrazione delle terre rare sono il principio primario dei paesi. La terra è vista solo come miniera d’oro, come con Gaza, con l’Ucraina, si cerca di prendere il più possibile.

Stiamo lavorando molto con i biodistretti perché l’ultima forma che siamo riusciti a far riconoscere dove gli agricoltori non sono più soli stiamo lottando per far capire che l’agricoltura non può essere una attività corporativa la terra non è di proprietà degli agricoltori, ma la terra, l’aria l’acqua la bellezza la natura sono beni comuni. In questo quadro si inserisce la nostra attività. Il primo compito del contadino è quello della rigenerazione del territorio perché nessun contadino distrugge che sta lavorando, come sta accadendo in tutto il mondo perché non ci sono più contadini non c’è idea di agricoltura di mantenimento ma solo di sfruttamento e di estrrazione. Rappresentata dal discorso di Trump all’Onu, estrarre dal pianeta terra il massimo delle ricchezze possibile per farne valore, profitto.

Eravamo consapevoli che la guerra in Ucraina avrebbe scatenato altre ideologie di guerre. Come vede oggi parliamo solo di guerra. Oggi stiamo parlando di investire in guerra stiamo parlando di sottrarre risorse per fare armamenti, le società più apprezzate in Borsa sono quelle che si occupano di armamenti.


Mi parli della vostra iniziativa di “Re-labelling for rebelling. Agricoltori per Gaza”.

Essendo persone molto vicine a quello che sta accadendo a Gaza, da sempre, abbiamo pensato quest’iniziativa di “re-labelling for rebelling“. Abbiamo preso una posizione molto forte: rietichettiamo i nostri prodotti, che sono la nostra essenza, il nostro bene, quello che noi facciamo. I contadini fanno delle cose concrete hanno dei vantaggi rispetto ad altri fa il miele, fa l’olio le carote, ecc.

Sui nostri prodotti ci mettiamo l’etichetta della Palestina, per denunciare il massacro lanciare la nostra posizione e ovviamente mandiamo il ricavato a Gaza. Stiamo cercando di far diffondere più possibile, questa iniziativa anche perché si tratta della prima vera azione del mondo agricolo verso il disastro che sta accadendo in Palestina. Il mondo agricolo è quello più opportunista. Non lo vedi in cima alle battaglie sociali. Non prendono mai posizione. Si sono solo lamentati per le interruzioni della filiera che andava in Russia.

Qual è il modo che le persone hanno per abbracciare questa causa e aderire all’iniziativa?

Lasciamo tutti liberi di aderire nel modo che vogliono, chiediamo solo che i soldi arrivino a Gaza. Abbiamo messo le etichette sul sito, a disposizione. Vorremo girassero per piazze e mercati per rappresentare la nostra protesta.

Se sono agricoltori possono mettere dei prodotti. Molti hanno chiesto di venderli nei mercati e nelle fiere o ad associazioni che fanno banchetti. Anche i ristoranti dedicheranno dei piatti il cui ricavato andrà a Gaza.

C’è un legame storico, che si ripete tutt’oggi, tra guerra e terra.

Sì, c’è un legame di contrasto in questo binomio. Ho supportato e lavoro con Don Ciotti in Sicilia dagli anni dei primi anni 2000 sui primi campi di Riina che venivano affidati a Libera. Qui ho potuto fare esperienza di tutta questa storicità del secondo dopoguerra che ha portato alle stragi di Portera della Ginestra, all’uccisione di 56 giovani presidenti di cooperative e sindacalisti della Cgil, tra il ’47 e il ’51, che chiedeva la riforma agraria per la redistribuzione di queste terre. Tra questi c’era anche Placido Rizzotto, di cui il giovane Dalla Chiesa a Corleone scoprì i colpevoli dell’assassinio.

Sono stato molto tempo in Sicilia, al fianco di Luigi Ciotti per le prime cooperative di Liberra Terra e poi come presidente di Alce Nero. Un movimento simile c’è stato anche in Calabria dove la polizia represse movimenti contadini nel secondo dopoguerra.

Qual è la differenza tra lavorare la terra e vivere la terra, come proponete di fare voi?

Lavorare la terra considerare la terra come elemento strumentale, un mezzo di produzione che mi consente la produttività. Se metto in una terra che sta soffrendo in termini di fertilità, ovvero di vita interna, se la carico di sostanze organiche, ho una buona produzione ma sottraggo ancora risorse ed energie alla terra. Questo è quello che ci sta portando ad aumentare la concentrazione dei proprietari di terra come gli allevamenti.

Vivere la terra, essere sulla terra, abitare la terra è una cosa completamente diversa. 
È casa mia e io casa mia non la distruggo. 

Come si traduce concretamente in termini di mercato questa cosa? Il primo tipo di agricoltura è quello delle filiere che possono essere anche molto lunghe, un’altra sono le comunità. L’agricoltura di cui parliamo noi alla fine costruisce comunità non è solo il cibo locale, è il tema di un’agricoltura che sviluppa socialità e relazioni, sviluppa paesaggio e costruisce vitalità nel territorio.

Significa anche farne parte, riconoscersi parte. Ci siamo messi al di sopra, in una posizione di potere nei confronti della terra che ci ha portato ad uno sfruttamento estremo e ora la riconosciamo più come casa, non ci sentiamo più parte.

Il motivo per cui sta morendo l’agricoltura dell’appennino italiano è lo spopolamento dei contadini è la prima base dell’impoverimento delle comunità. Stiamo cercando di far capire alle comunità politiche l’importanza straordinaria che ha non preservare a livello assistenziale ma promuovere questo modello agricolo perché riporta comunità nei territori.

Fonte: www.byoblu.com

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