lunedì 13 luglio 2015

Chi più felice dell'uomo della pietra?

 di Gianni Tirelli

Affermare che l’uomo cibernetico del nostro tempo sia l’espressione massima del suo ego, è una conclusione inattendibile e incongruente.

Contrariamente a tali congetture, l’individuo robotizzato delle società moderne, non ha alcun Ego, non essendo in possesso di alcun parametro di solido riferimento attraverso il quale addivenire a delle scelte oggettive!

Viviamo nel totale relativismo, etico, morale affettivo e spirituale! Non serviamo più a nulla, non abbiamo scopi, vere motivazioni, se non la meccanica spinta alla mera sopravvivenza, condizionata da un residuo istinto di auto/conservazione, che si va spegnendo e che porterà una gran parte dell’umanità ad un suicidio di massa.

Viviamo e ci comportiamo contro natura. Questo accade perché, oggi, ogni comportamento, motivazione e scelta, non sono rivolti al benessere, al bisogno primario e alla felicità dell’individuo, ma al mero e banale profitto materiale e psicologico – alla soddisfazione di dipendenze, e al ricorso di attenuanti, addotte al fine di relativizzare, giustificare le nostre debolezze strutturali.

Confrontando e comparando, attraverso alcuni parametri di riferimento oggettivi la condizione e lo stile di vita dell’uomo della pietra con l’individuo tecnologico dell’era moderna, saremo in grado di ricavarne il livello di libertà, e di felicità raggiunti dall’uno o dall’altro, nella loro diverse circostanze temporali.

La consapevolezza di sé e delle cose, è il gradino più alto della conoscenza. E quanto più è filtrata dalle intrusioni di natura didattica, culturale, informatica, psicologica e nozionistica, tanto più la libertà mentale dell’uomo sarà prossima alla verità...



La sfera della consapevolezza dunque, si amplia e si espande, nella misura in cui il nostro rapporto con la realtà è mondo da ogni tipo di sollecitazione, debolezza e dipendenza, e da ogni altro condizionamento che intervenga ad inquinare quel processo primigenio (logico e istintuale), che ci conduce alla radice (all’essenza) della verità, fugando ogni relativizzazione, contaminazione, e giudizio soggettivo.

Pertanto, il grado stabilizzato di felicità da noi raggiunto, è direttamente proporzionale al nostro livello di consapevolezza.

Diversamente dall’uomo preistorico, e in netta antitesi, la nostra esistenza è obnubilata da una serie infinita di ipotesi, di congetture, invenzione e tecnicismi, che ci precludono inevitabilmente la possibilità e la capacità di determinare quella presa di coscienza, necessaria e deputata al risveglio di una consapevolezza acritica.

La visione del mondo “dell’uomo della pietra”, era diretta, simbiotica e mutualistica, interagendo con la natura (la terra) come il solo, unico interlocutore e mediatore affidabile e indiscutibile, fonte di consapevolezza, e quindi di saggezza e di pura conoscenza. Una condizione di privilegio, che gli assicurava uno stabile e durevole livello felicità, e dove il “libero arbitrio” si rattrappiva sui bisogni primari e sull’istinto di auto-conservazione.

E se il Libero Arbitrio è la possibilità propria dell’uomo di fare o non fare qualcosa, decidendo liberamente, come si coniuga con la realtà dei nostri tempi?

Il Grande Enigma sta proprio in quel, “decidendo liberamente” – ma liberamente da cosa?

Se tutti gli altri, se il Sistema, oggi, in un modo o in un altro, intervengono nel condizionare le nostre scelte, possiamo noi ritenerci i soli responsabili dei nostri comportamenti e scelte?
E’ poi pensabile che l’anima e la coscienza (come per la genetica) siano soggette a condizionamenti di natura ereditaria? E sulla base di una tale supposizione, gli individui non cesserebbero di ritenersi responsabili dei loro atti?
Nessuno, a questo punto, potrebbe “decidere liberamente” né tanto meno, essere accusato di qualcosa.
Mai e poi mai potrebbe inoltre esistere un tribunale super partes in grado di giungere ad un giudizio inequivocabile e assoluto.

Se le cose fossero in questi termini (e oggi lo sono) l’umanità sarebbe avvolta dentro un relativismo totale e schiacciante, e il caos regnerebbe sovrano.

Anche dentro di noi, nonostante il relativismo dilagante che caratterizza le nostre moderne società consumiste, questo meccanismo continua a funzionare perfettamente e autonomamente. Possiamo ribellarci al Disegno Supremo, contrastarlo, dimenticarlo e provare in tutti i modi a rimuoverlo, ma lui, imperituro, non cesserà mai di essere.
Questa è la legge e queste sono le regole inviolabili.
Per un tale motivo, la coscienza saprà sempre distinguere il giusto dall’iniquo e la verità dalla menzogna. Anche l’uomo più dissennato e diabolico di questo mondo, dovrà sempre sottostare a questo dogma, e volente o nolente, piegarsi con il tempo al suo volere.
Possiamo così facilmente comprendere (per poi dedurre) che non esiste alcun Dio sopra di noi, giudice assoluto delle nostre azioni, che nella condanna e nel perdono esercita la sua funzione di Parametro Inquisitore e misericordioso, ma che quel Dio è la sublimazione del nostro arbitrio, non che la proiezione immaginifica di un’entità astratta addotta ad attenuante e causa primaria di ogni cosa.

Ecco perché il giudizio sull’uomo non contempla condoni di sorta e prescinde da ogni personale condizione! Essendo ogni uomo Dio all’origine, non gli è concesso di demandare ad altri le sue responsabilità, essendo lui stesso, quel Dio.
È l’uomo, il giudice di se stesso; si assolve e si condanna, si commisera e si esalta. Se il verdetto che l’uomo (nella sua doppia veste di giudice supremo e imputato) non corrisponde o non è il risultato di una oggettiva consapevole valutazione della realtà dei fatti, l’uomo, dicevo, pagherà con il dolore il prezzo della sua codardia esistenziale.

L’uomo è Dio di se stesso, in quanto, unico e solo parametro imputato a decidere arbitrariamente della sua salvezza e della sua sconfitta.
Solo così, nonostante il limite della parola (non è che l’ombra della verità inespressa) siamo in grado di comprendere il senso della frase: “decidendo liberamente” e interpretandola correttamente nel suo significato più nascosto e remoto.

Del resto, le parole non sono di alcuna utilità se la consapevolezza e la passione della verità non abitano il nostro cuore.

Questo secolo ci ha derubato di ogni residua consapevolezza, e così trasfigurato la felicità in una sorta di isterico e schizofrenico sbalzo di umore, che subito scompare per fare posto al dubbio e alla paura, fin dentro un frustrante e patologico stato d’angoscia esistenziale.
Un’umanità di individui snaturati e smarriti, più concentrati sul male che possono fare agli altri, che il bene a loro stessi.

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