mercoledì 29 gennaio 2025

L’Esodo, di Cinzia Mele


Il libro dell’esodo descrive come Israele sfuggì miracolosamente alla schiavitù egizia e la successiva conquista della Terra promessa, situata oltre la penisola sinaitica; la fuga dall’oppressore sotto la guida di Mosè sancì una svolta epocale per Israele che rinvigorì la fede e rinsaldò l’identità nazionale.

Datare con precisione il più celebre evento veterotestamentario è impresa ardua, poiché il testo non cita il nome del “faraone dell’esodo”, né dei predecessori che ebbero contatti diretti con Giuseppe e ancor prima con Abramo; tuttavia, gli studiosi  ritengono che l’uscita dall’Egitto sia verosimilmente collocabile tra il XV e il XIII secolo a.C.

L’esodo è oggetto di acceso dibattito non solo per quanto riguarda la collocazione temporale, ma anche per altri aspetti che non hanno trovato conforto in quelle evidenze che ci si aspetterebbe di trovare a fronte di un evento colossale che avrebbe dovuto lasciare molte impronte.
Alla fine del 1800 l’archeologo britannico Flinders Petrie portò alla luce nell’attuale Luxor la stele di Merenptah, così chiamata in riferimento al faraone che governò l’Egitto all’inizio del XIII secolo a.C. ...

Sir William Matthew Flinders Petrie (Charlton, 3 giugno 1853 – Gerusalemme, 28 luglio 1942)

La stele, incentrata sulle vittorie militari degli egizi, fu accolta con entusiasmo dagli studiosi biblici poiché  su di essa si vide inciso il termine ysrir, inteso da Petrie come l’etnonimo “Israele”, ponendo fine all’attesa di  quelle prove concrete che tardavano ad arrivare.
Sebbene nel XIX secolo  la storicità della Bibbia non fosse questione dibattuta, l’interpretazione di Petri appagò le aspettative di molti, poiché quei geroglifici del XIII secolo a.C. costituivano la più antica menzione di  Israele.

Su ysrir si accese un dibattito mai sopito. All’iniziale entusiasmo seguì lo scetticismo di chi non avvalorava la traduzione di Petrie[1]; oggi, anche l’esegesi biblica è cauta nell’accostare ysrir a Israele tanto che nella prefazione della Bibbia di Gerusalemme a cura di Monsignor Ravasi, l’iscrizione è definita “oscura”[2].

Le lacune storiografiche riguardano anche le dodici tribù: il Prof. Mario Liverani nella sua opera Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele rileva che «Nessuno dei nomi delle tribù di Israele, riportate dai testi biblici, è attestato in Palestina alla fine dell’età del bronzo: la documentazione è troppo scarsa, ma forse quelle tribù non si erano ancora costituite come entità auto-identificate»[3].

Se per l’Egitto la fuga degli Ebrei implicava perdere forza lavoro in proporzioni tali da causarne il tracollo, per i territori limitrofi la calata di una folla oceanica sarebbe stata parimenti catastrofica per opposte ragioni.

Secondo la Bibbia 600.000 uomini armati e genti straniere,[4] lasciarono l’Egitto: includendo mogli e numerosi figli, si tratterebbe di milioni di individui determinati a conquistare terre già popolate.

Tuttavia, ad oggi non è emersa alcuna fonte scritta né da chi subì lo smacco dell’abbandono, né da chi patì l’arrivo di quella moltitudine.

La Bibbia tramanda che Israele risiedeva in Egitto da secoli, dal tempo di Giacobbe, quando il figlio Giuseppe entrò nelle grazie di un anonimo faraone diventandone vicerè; dopo lunga permanenza e poco prima della fuga secondo Es 1,9 gli Ebrei superavano in numero gli egizi che, inspiegabilmente, non menzionano in alcun scritto il popolo ospite.

Ancor più oscuro è il motivo per cui gli Israeliti alla conquista di Canaan attribuiscano a quei territori nomi di popolo che il già menzionato Prof. Liverani definisce “nomi in gran parte fittizi, di popoli mai esistiti” (ad esclusione dei Cananei).

L’esodo biblico è inafferrabile anche nella toponomastica: le tappe menzionate nella Bibbia a delineare l’itinerario Egitto – Sinai – Terra promessa sono in gran parte introvabili o anacronistiche.

La questione è nota agli esegeti: la Bibbia Cei nelle note ai passi Es. 15, 22 – 18, 27 rileva che “L’itinerario geografico d’Israele nel deserto sinaitico non è chiaro”; sono dello stesso avviso anche i curatori della Bibbia di Gerusalemme: non solo ritengono che determinare l’itinerario e la localizzazione delle singole tappe sia “estremamente difficile”[5] ma evidenziano un particolare eclatante sul celeberrimo monte meta del turismo mondiale.

“La localizzazione del Sinai è difficile”, affermano, e aggiungono che “dal IV secolo d.C. la tradizione cristiana lo pone a sud della penisola che da esso trae il nome, sul Jebel Musa; la necessità di “individuare” un monte secoli dopo l’evento sarebbe dovuta al fatto che “gli Israeliti sembrano aver dimenticato presto la sua ubicazione precisa” [6].

Se è difficile accettare l’idea che il luogo dove Yahweh si palesò per la prima volta alla popolazione, laddove Mosè ricevette le Tavole della Legge, un luogo cruciale nella narrazione biblica, è legittimo dubitare che ciò che fu presto dimenticato dai protagonisti potrebbe non corrispondere a quanto tardivamente riscoperto dalla cristianità secoli dopo gli eventi ai quali il monte è connesso.

Se erroneamente si identificò il Jebel Musa con il monte biblico verrebbe meno anche la denominazione di tutta la penisola.

Molteplici ragioni rendono incongruente il Testo Sacro con la realtà mediorientale.


Neil Asher Silberman e Israel Finkelstein, docente presso la facoltà di Archeologia dell’Università di Tel Aviv nel testo Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito asseriscono che (in terra di Canaan) “non ci sono praticamente elementi relativi al culto; nei villaggi non sono stati trovati santuari, così non si può risalire a un credo religioso”[7]e rincarano la dose affermando perentori che “Il processo che qui descriviamo è in effetti l’opposto di quello che viene rappresentato nella Bibbia: l’apparizione dell’antico Israele fu il risultato e non la causa, del collasso della cultura cananea. E la maggior parte degli israeliti non arrivò a Canaan da fuori, ma emerse al suo interno. Non ci fu un esodo di massa dall’Egitto, come non ci fu una conquista violenta di Canaan”[8].

Le aspettative che al tempo di Petrie sfociarono in prematuri entusiasmi potrebbero avere condizionato anche i traduttori biblici, soprattutto in ambito geografico.

Al testo biblico originale sono sconosciuti molti altisonanti luoghi, ad esempio il Nilo, il mar Rosso, Eliopoli, il deserto, e lo stesso nome dell’Egitto.

Il fiume Nilo è in realtà indicato come un anonimo canale (ye’or), il mar Rosso è un semplice canneto (yam suf), Eliopoli è indicata come “On”, il deserto, che il lettore immaginerà come un’arida distesa sabbiosa, è in realtà un midbar (luogo dove si conduce al pascolo), estraneo alla morfologia della penisola sinaitica; infine, l’Egitto è chiamato Mitsrayim, di cui la Bibbia non nota le piramidi.

Un caso a sé rappresenta la regione di Ramses che, nel colossal “I dieci comandamenti”, la finzione cinematografica trasforma in Ramses II, il crudele faraone antagonista di Mosè. A onor del vero nella Bibbia Ramses è solo un nome di luogo citato già in Genesi, secoli prima dell’avvento di uno dei più celebri sovrani d’Egitto.

Lacune storiografiche, nomi di popolo “inventati”, mancate evidenze toponomastiche e archeologiche, nel loro complesso delineano un quadro antitetico alla narrazione veterotestamentaria: invocare il principio che “l’assenza di una prova non è prova di una assenza” è una forzatura di fronte alle incongruenze macroscopiche che affliggono la relazione tra Bibbia e Medio Oriente.

Potrebbe gettare luce sui misteri dell’esodo un radicale cambio di paradigma, che trae spunto direttamente dal Testo Sacro.

Ez 38,15 recita: «[Gog, tu] verrai dalla tua dimora, dagli estremi confini del settentrione, tu e i popoli numerosi che sono con te», tra questi popoli numerosi Ez 38,5 annovera Etiopia (Kush in ebraico) che parimenti dovrebbe arrivare da analoghe latitudini; a sua volta Etiopia (Kush) è fratello di Egitto (Mitsrayim) come specifica la tavola delle nazioni di Gen 10; pertanto, è lecito ipotizzare che il biblico Mitsrayim non indichi la grandiosa civiltà dei faraoni ma un territorio all’estremo nord del Medio Oriente.

In conclusione, il contenuto testuale della Bibbia sembra suggerire luoghi ben diversi dai territori tradizionalmente connessi al Testo sacro; d’altra parte, le omonimie toponomastiche sono una realtà nota e andrebbero valutate in accordo alle precise indicazioni del testo che si vuole comprendere.

Forse, eventi evanescenti in Medio Oriente potrebbero trovare spiegazione in un altrove lontano e mai considerato.

[1] La stele di Merneptah e i dubbi del biblista, Claudio Balzaretti, Rivista biblica, anno LXXI, n° 4, Bologna 2023.
[2] AA.VV. (a cura di), La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2019, p. 15.
[3] Liverani M., Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Editori Laterza, Bari 2017, p. 29.
[4] Es 12, 37-38 ed Es. 13,18.
[5] AA.VV. (a cura di), La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2019, note a Es. 13,17 – 15,21.
[6] Ibidem, note ai passi Es. 19,2.
[7] Finkelstein I., Silberman N.A., Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito, Carocci Editore, Roma 2023, p.123.
[8] Ibidem, p. 133.




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