venerdì 9 agosto 2024

«Guerra e rivoluzione»: l’anarchico Tolstoj contro la superstizione statalista

"I governi sono sempre i più cattivi, i più insignificanti, crudeli, immorali e, soprattutto, i più ipocriti. E non è tanto per volontà del caso, ma piuttosto per una regola generale, la condizione assoluta dell’esistenza del governo."

Nel 1905, al termine della sanguinosa guerra russo-giapponese, vinta dalla potenza asiatica, e nel mezzo della prima rivoluzione russa, Lev Tolstoj scrive un saggio fondamentale per comprendere appieno il suo pensiero – perché come Dostoevskij, di cui raccoglie la pesantissima eredità, anche l’autore di Resurrezione [1] non è solamente un semplice scrittore, ma uno scrittore-pensatore -: Guerra e rivoluzione, pubblicato a Parigi nel 1906 e rimasto inedito in Italia per più di un secolo, fino all’edizione della Feltrinelli del 2015, a cura di Roberto Coaloa.

Guerra e rivoluzione è un testo preziosissimo, in cui emerge con una chiarezza abbacinante, da giorno estivo, pienamente estivo, il pensiero politico di Tolstoj, un pensiero anarchico – dall’autore mai definito tale, ed è bene puntualizzarlo, perché all’epoca anarchia faceva rima con violenza – basato su Étienne de La Boétie, il grande filosofo cinquecentesco (sì, cinquecentesco, ma di una modernità sconcertante con il suo celebre Discorso della servitù volontaria) a cui Tolstoj dedica un intero capitolo, il terzo della prima parte del saggio, su Jean-Jacques Rousseau, Henry David Thoreau e ovviamente Cristo, ma Cristo nella sua autenticità, nella sua purezza, libero dalle fuorvianti e interessate interpretazioni delle chiese ...

Il bersaglio privilegiato di Tolstoj in Guerra e rivoluzione è il governo, in qualunque sua forma, anche la più progredita e democratica. 

Governo che l’autore russo definisce così: «un regime sotto il quale un’infinita minoranza può forzare la grande massa a obbedire alla sua volontà» [2]. Il governo è immanentemente negativo:

«Si potrebbe tentare di giustificare l’obbedienza di tutto un popolo a un piccolo numero di uomini, se i governanti fossero, non dico i migliori, ma semplicemente i meno peggiori tra di noi; si potrebbe provare ancora se, di volta in volta, il potere fosse occupato da uomini onesti. Malauguratamente questo non è accaduto, non è mai stato e non potrà mai essere.
I governi sono sempre i più cattivi, i più insignificanti, crudeli, immorali e, soprattutto, i più ipocriti. E non è tanto per volontà del caso, ma piuttosto per una regola generale, la condizione assoluta dell’esistenza del governo» (30).

Non solo La Boétie, Tolstoj in Guerra e rivoluzione ricorre anche a Machiavelli, in particolar modo per descrivere l’autorità governativa: «e sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti, che colui che inganna, troverà sempre chi si lascerà ingannare» (33). 
Il principe secondo Machiavelli, lo sappiamo, deve essere camaleontico, multiforme, tanto «Ognuno vede quel che tu pari; pochi sentono quel che tu sei, e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione de’ molti» (ivi). 

E tutti i governanti, di tutti i regimi, sottolinea Tolstoj, osservano esattamente, alla lettera le regole fissate da Machiavelli, pur non avendole mai lette. 

L’autorità, in qualsiasi sua forma, non può essere diversa da come l’ha descritta lo scrittore italiano, perché «L’autorità degli uni sugli altri è, senza dubbio, il diritto riconosciuto ai primi di martirizzare e di uccidere i secondi; meglio, di indurli a essere i propri torturatori» (34).

Governo e morale – e la morale è sempre il fine ultimo dell’attività letteraria di Tolstoj, come di Dostoevskij e, più in generale, della grande letteratura russa del XIX e dell’inizio XX secolo – sono inconciliabili; uomo di stato virtuoso è uno stridente ed irreale ossimoro: «l’attività di tutti i governi non è costituita che da crimini» (36). Non solo: «Il male peggiore che commette il potere pubblico è la corruzione morale e intellettuale» (37). Corruzione attuata sistematicamente tramite un’educazione depravata:

«Un bambino nasce e lo si arruola presto nella religione che prevale nello stato. Fu sempre così nel passato, e questo si pratica ancora nella maggioranza dei paesi. Laddove questa prima costrizione non è in uso, ve ne sono di altre. Appena il bambino cresce, l’obbligazione è per lui di frequentare la scuola di stato. Alla scuola gli s’insegna che il governo, l’autorità in generale, è la condizione assoluta della sua vita, e che lo stato dove egli è nato è il più perfetto del mondo, che esso sia governato dallo zar, dal sultano, da Chamberlain con la sua politica coloniale, o da un governo repubblicano protettore del trust e dell’imperialismo. Tale è la scuola primaria e obbligatoria, e tali sono tutte le scuole superiori frequentate dagli adulti dello stato russo, turco, inglese, francese o americano.

Non è solo la scuola che forma la gioventù. La letteratura, le riunioni pubbliche o private, i giornali, al soldo del governo o a quello dei ricchi che s’appoggiano sull’autorità o semplicemente cercano i favori dello stato, ovunque e in qualsiasi paese esso sia, il cittadino è sottomesso alla suggestione corruttiva del potere pubblico. Gli è inculcato che l’autorità in generale, e quella del suo paese in particolare, con tutti i suoi attributi – catene, prigioni, pendagli da forca, eserciti – è la condizione assoluta della sua esistenza. Egli è convinto che l’attività governativa sia rispettabile e degna di tutta la stima e l’onore, alla quale ciascuno deve considerarsi felice di partecipare e deve rendere ai suoi rappresentati tutti gli omaggi» (37-38).



Ecco che l’uomo si ritrova schiavo del governo

E il «lato peggiore della situazione di questi schiavi del governo, è che essi sono lontani dal dubitare della loro schiavitù e dall’augurarsi la libertà. Essi s’immaginano – principalmente quelli che vivono sotto un regime costituzionale o repubblicano – di essere tra gli uomini più liberi. Sono orgogliosi della loro servitù» (38). 
Regime costituzionale o repubblicano: noi oggi, illudendoci di essere liberi, siamo orgogliosi della nostra servitù.

Tolstoj batte sempre, ostinatamente, sullo stesso chiodo: «i governi sono un male più inutile e funesto che tutti quei mali che fanno paura agli uomini» (38). 
L’autore russo rinnega il concetto stesso di potere, perché «essere al potere vuol dire fare ad altri ciò che noi non vorremmo che fosse fatto a noi stessi, cioè fare del male» (41). Che l’uomo sia dotato o meno di ragione, in ogni caso il governo non ha ragione di esistere. Ed ecco l’uomo che rifiuta lo stato – rigorosamente con la esse minuscola, sempre, irriducibilmente -, ecco Tolstoj: 

«È molto probabile che lo stato fosse già necessario e lo sia ancora oggi, per tutti i vantaggi che voi riconoscete in esso, dice l’uomo che ha assimilato il concetto cristiano della vita. Io so soltanto che per me, da una parte, io non ho più bisogno dello stato e, d’altra parte, io non posso più commettere le azioni che sono necessarie alla sua esistenza. 
Organizzatevi come vi parrà meglio; in quanto a me, io non posso dimostrare né la necessità, né l’inutilità dello stato, ma io so quello che posso fare e quello che non posso fare. Io non ho bisogno d’isolarmi dagli uomini delle altre nazioni, ed ecco perché non posso riconoscere di appartenere esclusivamente a una nazione qualunque e perché rifiuto ogni soggezione; so che non ho bisogno di tutte le istituzioni governative attuali, ed ecco perché non posso, privandone gli uomini che hanno bisogno del mio lavoro, darlo sotto forma d’imposte a beneficio di queste istituzioni; so che io non ho bisogno né di amministrazione, né di tribunali fondati sulla violenza, ed ecco perché non posso partecipare né all’amministrazione né alla giustizia; so che io non ho bisogno di assalire gli uomini delle altre nazioni, di ucciderli, e neanche di difendermi da loro con le armi in mano, ed ecco perché non posso partecipare alla guerra né prepararmi. 
È del tutto possibile che vi siano uomini che considerino tutto ciò come necessario, io non posso contraddirlo; so soltanto, ma in modo assoluto, che io non ne ho bisogno…» (47).


Altri bersagli prediletti di Tolstoj in Guerra e rivoluzione sono la chiesa – e anche qui la lettera iniziale, come per stato, è sempre rigorosamente minuscola – e la scienza, forze dannose che, con le loro menzogne, impediscono, ostacolano quell’evoluzione della mentalità umana, quella rivoluzione interiore necessaria allo smantellamento di ogni forma di governo e al raggiungimento della vera, suprema libertà. 

La chiesa non ha fatto altro che traviare, sistematicamente, il messaggio di Cristo, e ha diffuso la menzogna, per solidificare il proprio potere, che la religione sia inscindibile dal misticismo, dalla magia, dai miracoli, dai riti e dalle cerimonie; la scienza, a sua volta, ha l’aspirazione di imporsi come nuova chiesa, diffondendo quella superstizione scientifica che gli permetta di mantenere il potere. 

Per quanto riguarda la religione, Tolstoj auspica un ritorno all’autentica parola di Cristo, ma il Cristo prima di tutto uomo, che migliori le condizioni di vita hic et nunc, sulla terra. Bisogna agire ora, nel presente, in questi pochi anni di vita che ci sono concessi, senza perdersi nelle fantasie di un futuro ultraterreno. È questo uno dei fondamenti del tolstoismo, vero e proprio credo nato dal pensiero dell’autore russo. 

Per quanto riguarda la scienza, la critica ad essa, in quegli anni, si trova in un altro straordinario pensatore, peraltro grandissimo amante di Tolstoj: Carlo Michelstaedter [3], che, ne La persuasione e la rettorica, a proposito degli scienziati scrive: 

«Io dico ch’essi, nei quali parla la voce degli elementari bisogni e si procura la futura vicinanza, sono strumenti inconsci nello svolgimento della κοινωνία κακῶν [comunella dei malvagi] per la quale gli uomini se non riusciranno ad intendersi certo giungeranno ad intendersela» [4]. 

E i tragici eventi della Seconda guerra mondiale, limitandoci ad un solo episodio storico, il più emblematico forse, danno tristemente ragione a Tolstoj e Michelstaedter, pensatori esatti.

Carlo Michelstaedter crede ciecamente nella «persuasione», ma non a tal punto da evitare il suicidio – e nel saggio Tolstoj scrive che per i più generosi tra gli uomini non vi è altra via che la morte volontaria, coincidenza sorprendente -, mentre per l’autore russo «gli uomini non hanno che un mezzo per liberarsi del male di cui soffrono: la diffusione tra di loro della vera dottrina religiosa» (65). 

Agire nel e per l’oggi, ma con la consapevolezza del domani: questa la ricetta di Tolstoj, che non rifiuta affatto la dimensione ultraterrena della religione, ma invita a considerarla per ciò che effettivamente è: futura. 
La dottrina religiosa è la dottrina di Cristo – che coincide in sostanza con tutte le importanti dottrine religiose (brahmanesimo, confucianesimo, taoismo…) -, riassunta così da Tolstoj: «l’uomo è un essere spirituale, simile al suo principio-Dio; la missione dell’uomo è fare la volontà del suo principio-Dio; la volontà di Dio è di contribuire al Bene degli uomini; il Bene degli uomini è realizzato dall’amore; l’amore attivo è di fare agli altri quello che vorresti fosse fatto per te» (66). 
Ma, pur accettando la dimensione divina, innanzitutto l’uomo, l’uomo in se stesso deve essere il primo architetto del proprio miglioramento morale. Tolstoj non manca mai di sottolineare la responsabilità dell’uomo.

Il’ja Efimovič Repin, Il Manifesto del 17 ottobre, 1907

Nel mezzo della prima rivoluzione russa, Tolstoj inneggia sì alla rivoluzione, ma una rivoluzione interiore, da realizzarsi senza il ricorso alla violenza, perché non si può in alcun modo sopprimere il male con il male; la non resistenza è l’unico mezzo per raggiungere la vera libertà. 
E proprio nel capitolo dedicato alla non resistenza, il quinto della seconda parte del saggio, si trova una pagina fondamentale sull’inganno delle elezioni, probabilmente la pagina più attuale di Guerra e rivoluzione:

«Chiunque avrebbe potuto accorgersi che tutto ciò non era altro che un imbroglio, sia in teoria che in pratica, giacché anche nel più democratico dei sistemi e anche laddove vige il suffragio universale, il popolo non può comunque esprimere la propria volontà. 
E non può esprimerla, in primo luogo, perché una simile volontà collettiva di tutto un popolo, di molti milioni di persone, non esiste e non può esistere; in secondo luogo, perché, anche se esistesse una tale volontà collettiva, una maggioranza di voti non potrebbe comunque esprimerla pienamente in alcun modo. 
Questo inganno – anche a tacere sul fatto che gli uomini eletti in tal modo, partecipando al governo del loro paese, approvano leggi e governano il popolo non in vista di ciò che è bene per esso, ma lasciandosi guidare per lo più, unicamente, dall’intento di mantenere salda la propria posizione di privilegio e il proprio potere frammezzo alle lotte dei vari partiti, e per tacere altresì della depravazione che questo inganno diffonde tra il popolo mediante le menzogne, lo stordimento e le corruzioni che sono caratteristica costante dei periodi elettorali – è particolarmente dannoso a cagione di quella schiavitù autocompiaciuta in cui esso riduce gli uomini che vi incorrono» (88).


I cittadini degli stati costituzionali sono come carcerati, carcerati inconsapevoli, s’illudono di essere liberi, ma in realtà sono schiavi. 

In ogni contesto politico è dunque necessario innescare quel processo di rivoluzione interiore che permetta di rendersi conto della malvagità e della dannosità del governo, perché «i principali mali di cui noi soffriamo […] provengono esclusivamente dal riconoscere la legittimità della tirannia dei governi» (99). 

In una società senza governo i malvagi sarebbero dei semplici briganti, e i vari stati, la Russia, l’Inghilterra, la Germania, la Francia, la nostra «serva» Italia – l’attualità dell’invettiva dantesca non passerà mai – sono solo «potenze artificiali». 
La pacificazione dell’umanità può avvenire solo ed esclusivamente attraverso l’«abolizione dello stato e della sua autorità basata sulla violenza» (102), l’eliminazione di quella dannosa «superstizione statalista» che ci viene inculcata sin dall’infanzia. 
Tolstoj individua la soluzione teorica nella dottrina di Cristo, la soluzione pratica nella vita agricola (di seguito il quadro meraviglioso di Repin che immortala l’autore russo trainare l’aratro), prendendo come esempio i mir, criticando aspramente la civiltà della città, «dove non ci sono erbe e alberi, dove il cibo è adulterato e in cui tutta la vita è malsana e dolorosa» (115), definendo la civilizzazione «un’arma di oppressione e nulla di più» (116) [5].

Il’ja Efimovič Repin, Tolstoj ara la terra, 1887

Insomma, per Tolstoj «la causa principale, se non unica, dell’essenza della libertà è la superstizione statalista» (124). Del feticcio dello stato è necessario liberarsi, dando vita a quella rivoluzione interiore che sola può portare a una forma di vita autentica, non più violenta, ma sana e pacifica.

Nella sua feroce critica ai governi, alla chiesa e alla scienza, Guerra e rivoluzione di Lev Tolstoj è uno di quei libri che recidono le palpebre, che portano un uomo a mettere in discussione tutto, a riconsiderare tutto, se stesso e il mondo nel quale vive. 
Frutto del genio di un illustre malpensante, Guerra e rivoluzione esorta a non essere complici, a liberarsi dal giogo che i governi impongono agli uomini, a non essere più servi, e per di più volontari, la cosa peggiore che ci possa essere.


NOTE

[1] Per un approfondimento sull’opera rimando all’articolo Resurrezione, il più grande romanzo di Tolstoj.

[2] Lev Tolstoj, Guerra e rivoluzione, a cura di Roberto Coaloa, Feltrinelli, Milano 2015, p. 21. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[3] Per un approfondimento sul rapporto tra Michelstaedter e Tolstoj rimando al secondo capitolo della terza parte dello studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter: Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj.

[4] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 136.

[5] In tal senso, emblematico il memorabile incipit di Resurrezione, tra gli incipit più esplosivi dell’intera storia della letteratura: «Per quanto gli uomini, riuniti a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, cercassero di deturpare la terra su cui si accalcavano, per quanto la soffocassero di pietre, perché nulla vi crescesse, per quanto estirpassero qualsiasi filo d’erba che riusciva a spuntare, per quanto esalassero fumi di carbon fossile e petrolio, per quanto abbattessero gli alberi e scacciassero tutti gli animali e gli uccelli, – la primavera era primavera anche in città. Il sole scaldava, l’erba, riprendendo vita, cresceva e rinverdiva ovunque non fosse strappata, non solo nelle aiuole dei viali, ma anche fra le lastre di pietra, e betulle, pioppi, ciliegi selvatici schiudevano le loro foglie vischiose e profumate, i tigli gonfiavano i germogli fino a farli scoppiare; le cornacchie, i passeri e i colombi con la festosità della primavera già preparavano i nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri, scaldate dal sole. Allegre erano le piante, e gli uccelli, e gli insetti, e i bambini. Ma gli uomini – i grandi, gli adulti – non smettevano di ingannare e tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini ritenevano che sacro e importante non fosse quel mattino di primavera, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene di tutte le creature, la bellezza che dispone alla pace, alla concordia e all’amore, ma sacro e importante fosse quello che loro stessi avevano inventato per dominarsi l’un l’altro» (Lev Tolstoj, Resurrezione, traduzione di Emanuela Guercetti, Garzanti, Milano 2013, pp. 3-4).




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