Se il fine può giustificare i mezzi purché vi sia qualcosa che ne motivi gli intenti, alla serpeggiante discriminazione ruskih [N.d.R., russa] si trovano sempre nuove giustificazioni. Benché bandire gatti e paralimpici ex-sovietici dalle competizioni internazionali misuri al millimetro la levatura morale dell’Occidente, l’intelligence atlantista esige eroismi ancor più splendenti.
Ecco allora che diventa impossibile per la mia radiosa siberiana di nome Olga, colombella ignara delle cose del mondo, sfrecciare libera per la campagna emiliana con la sua UAZ 469 targata sinistramente PC. La polizia segreta e i vigili urbani della Val Trebbia hanno iniziato a pedinarla come sospetto mezzo dell’armata rossa, temendo segretamente che da quel soft-top telonato possa spuntare, fra i cestini di vimini e le chiappe pelose di un bracco ungherese, la canna di un Kalashnikov.
Il salumiere mi guarda in tralice quando gli domando un etto di insalata russa perché, inconsapevole degli ingredienti originali cari a Tchaikovsky, in quel gelido antipasto vede forse piselli stranieri insidiare patate nostrane. E ancora, l’attempata receptionist di un alberghetto romantico della Val d’Orcia che, dopo aver intercettato un sospetto passaporto slavo, subito compone numeri telefonici sussurrando segrete delazioni con la mano sulla bocca ...
Mentre sono al Bricocenter e la mia fidanzata riceve una chiamata della madre, sono costretto a chiarire allo psicotico vicino di cassa, che già impugna un trapano a percussione, come quella cirillica loquela sia in realtà accento ucraino su dialetto magotto. Il barista sotto casa, che un tempo ci comandava il lasciapassare verde, oggi incita a esibire almeno una bandierina gialla e blu prima di consumare.
Insomma, una cortina di ferro ideologica ci separa ormai dai miei compaesani, poiché dove non era riuscita l’ipocondria pandemica ha avuto successo la paranoia russofoba, resa necessaria da una tangibile minaccia sul territorio. Quando scruto quegli occhi ineffabilmente a mandorla immersi nelle selvatiche cromie della taiga, persino attraverso i fumi dell’infatuazione vedo chiaramente la futura unione fra Mosca e Pechino.
Per rassicurare i visibilmente terrorizzati amici, in accordo con la mia stessa compagna, ho escogitato piccole precauzioni: la sua t-shirt con scritto “Mr. President” e l’immagine di Vladimiro a torso nudo in tenuta da pesca è stata sostituita da una militante felpa che recita “Free Navalny”, per evitare un outfit da apologia di genocidio e tre anni di galera; l’affezionata badante bielorussa di mio nonno, Alina, è stata sbrigativamente rimpiazzata con un’Alina di Odessa – per due anni in mare sulla barca di quel Marcello e referenziatissima da una certa Annunziata; come livre de chevet, infine, il Cane di terracotta di Andrea Calogero Camilleri ha rubato il Cuore di cane a Bulkakov. Piccoli gesti, sì, ma urgenti. Necessari.
Cionondimeno, viviamo ancora in un clima di escalation paranoide.
E non è tanto l’intimidazione di sguardi ostili – che in fondo rimbalza, come quelle occhiatacce, sulla mia alta uniforme del reggimento Semënovskij – a pesarmi, quanto il vertiginoso ruzzolare di amiche in fuga dalla Santa madrepatria. Dover assorbire l’urto di due – da lunedì son diventate tre – giovani siberiane esiliate in cerca d’asilo che vengono a svernare sul tuo divano… può rivelarsi esperienza snervante. Ma con l’incorruttibile finezza di un Albinus, di un Humbert Humbert, indifferente alle fatue lusinghe di qualche smutandata giovinetta, sono ancora qui per voi a vergare giornalismo indipendente.
Vi è tuttavia un ostacolo precettivo: ospitare l’immigrato, integrare l’extracomunitario, rispettare le legittime aspirazioni della donna, o cacciare quelle luride figlie di Putin come disabili dalle Olimpiadi? Oh my God! Che cosa farebbe quell’Eitan in tale disorientante congiuntura? Con quali ammonimenti mi esorterebbe Michelle Murgiama? Ebbene, io sono rimasto umano e ho offerto accoglienza. Ho detto no alla xenofobia, come quei due sindaci.
#AbbracciaUnaRussa è l’hashtag che mi è venuto dal cuore e che parla la diplomatica lingua della distensione.
Nella speranza di vivaci e riconcilianti rapporti multilaterali.
Fonte: www.byoblu.com
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