Il luccio è il pesce protagonista dell’esperimento che ha dato il nome a questa sindrome.
Il suo comportamento in questo studio ha rappresentato il punto di partenza di ciò che oggi conosciamo come “sindrome del luccio”.
Tuttavia, cosa ci insegna questo animale?
In realtà, noi siamo più “lucci” di quanto crediamo.Anche se non viviamo sotto l’acqua e non abbiamo le branchie, vedrete che vi identificherete con il nostro pesce quando sentirete la sua storia.
Siamo sicuri, inoltre, che conoscere la sindrome del luccio vi farà riflettere sul vostro comportamento o sui pensieri che adottate in certe situazioni ...
La sindrome del luccio: l’esperimento
Durante questo studio, il nostro amico squamato ha fornito ai ricercatori e agli psicologi un grande insegnamento. Dopo l’esperimento, infatti, il comportamento del pesce è stato paragonato a quello degli esseri umani e sembrerebbe che i modi di agire di un pesce e quelli di una persona siano più simili di quanto sembri.
L’esperimento dal quale è nata il termine “sindrome del luccio” è molto semplice: i ricercatori hanno messo il luccio in una vasca piena d’acqua, divisa in due da un vetro trasparente.
Da una parte c’era il nostro luccio, mentre dall’altra c’era la sua cena (delle piccole carpe). Per prima cosa il luccio ha cercato di papparsi quel banchetto delizioso che aveva davanti agli occhi. Tuttavia, a pochi centimetri dalla sua preda, è finito a sbattere contro il vetro.
Il luccio ha continuato a provarci fino a darsi per vinto, cambiando poi direzione e mettendosi a nuotare nel suo spazio di vasca.
Dopodiché, i ricercatori hanno tolto il vetro divisorio, ma nonostante ciò, il luccio ha continuato a comportarsi come se il vetro ci fosse ancora e non ha riprovato a catturare il proprio cibo, rimanendo nel suo lato dell’acquario.
Come mai un simile comportamento?
Perché la sua esperienza precedente lo aveva condizionato ed era ormai certo che non ci fosse alcun modo di arrivare alle carpe.
La sindrome del luccio nelle persone
Simile alla vicenda del luccio è anche la famosa favola dell’elefante nata dalla penna dello scrittore argentino Jorge Bucay. Il suo elefante viene incatenato appena nato.
Si tratta di catene dalle quali, in quel momento, non riesce a liberarsi, ma che, una volta cresciuto, sono deboli di fronte alla sua nuova forza.
Nonostante ciò, l’elefante non prova comunque a scappare.
Proprio quello che è successo al luccio e all’elefante succede spesso anche a noi.
Quando pensiamo che ci sia qualcosa che non siamo in grado di fare, perché così ci ha insegnato la nostra esperienza, smettiamo di provarci.
Anche se le condizioni cambiano, anche se cresciamo e sviluppiamo nuove capacità, non ci riproviamo perché, nella nostra esperienza, c’è ancora il ricordo del primo fallimento.
Se pensiamo di avere tutte le informazioni che ci servono per risolvere una situazione, ma non riusciamo a portare a termine il nostro compito, è allora che si manifesta la sindrome del luccio.
Ciò significa che accettiamo quell’incapacità che abbiamo constatato con le nostre esperienze precedenti.
Se qualcosa non ha funzionato in passato, crediamo automaticamente che succederà lo stesso nel presente o in futuro.
Ci rifiutiamo di cercare o considerare nuove opzioni o punti di vista, pieghiamo la testa e ci arrendiamo, sventoliamo bandiera bianca senza nemmeno riprovarci, perché lo abbiamo già fatto e non abbiamo ottenuto i risultati che speravamo.
Che sia dovuto ad insegnamenti familiari, ad esperienze personali o ad informazioni sbagliate che abbiamo raccolto, ci comportiamo come il luccio e l’elefante e non ci riproviamo più.
Fate un altro sforzo
Ogni volta che dite “ci ho già provato abbastanza” o “non c’è altro che possa fare”, rifletteteci di nuovo.
Forse la situazione è cambiata e qualcuno, o voi stessi, ha tolto il vetro trasparente che vi separava dal vostro obiettivo.
Analizzate bene ciò che non avete fatto come avreste dovuto, e riprovateci.
Fonte: lamenteemeravigliosa.it
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