venerdì 6 dicembre 2019

Ma come parlano gli Alieni?

di Sabrina Pieragostini

Se mai incontrassimo un Alieno, come faremmo a comunicare con lui? Quale bizzarra lingua parlerebbe, basata su quale assurda grammatica e con quale incomprensibile pronuncia? Bè, sembra strano a dirsi, ma secondo l’accademico considerato il padre della linguistica moderna non sarebbe poi tanto diversa dalle molteplici sfumature di cui si colorano gli idiomi usati in varie parte del mondo dagli esseri umani.

L’idea che le diverse lingue parlate sul nostro pianeta abbiano in comune una sorta di grammatica universale, in virtù di alcune strutture innate e condivise da tutti noi, ormai è piuttosto diffusa e deve la sua fortuna principalmente all’opera di Noam Chomsky, professore emerito di linguistica presso il MIT oltre che filosofo, teorico della comunicazione e attivista politico. Chomsky - ormai quasi novantenne - nei giorni scorsi (maggio 2018 - NdC) ha partecipato all’International Space Development Conference che si è tenuta a Los Angeles.

Al convegno si è discusso del futuro dell’esplorazione spaziale – come ad esempio degli insediamenti su Marte e sulla Luna o della possibilità di ricavare metalli pregiati estraendoli dagli asteroidi e così via - ma anche di vita aliena
Nel workshop intitolato Linguaggio nel cosmo, promosso da Douglas Vakoch, presidente del METI (ovvero Messaging Extra-Terrestrial Intelligence), si è parlato di come potrebbero avvenire i primi contatti con ipotetiche intelligenze extraterrestri ...


Chomsky ha detto spesso che se un Marziano visitasse la Terra, penserebbe che tutti noi parliamo un dialetto della medesima lingua visto che tutti i linguaggi terrestri condividono una struttura di base comune.

(A destra: Noam Chomsky)

Ma se anche gli Alieni avessero una lingua, sarebbe simile alle nostre? 

Questo è il grande problema”, ha detto Vakoch. Secondo l’illustre linguista la risposta è sì: “Per dirla in modo originale, il linguaggio dei Marziani potrebbe non essere poi tanto differente da quello umano, dopo tutto”, ha dichiarato durante il workshop.

Una visione condivisa anche da altri due linguisti, ovvero da Bridget Samuels (dell’università della California del Sud) e Jeffrey Punske (Università dell’Illinois meridionale), anche loro ospiti del convegno di Los Angeles.

Al sito Cnet.com hanno spiegato il loro punto di vista così: “Alcuni fattori universali alla base del linguaggio potrebbero essere in grado di colmare i grandi gap tra la nostra biologia e quella aliena. L’intero universo è soggetto alle stesse leggi della fisica: ad esempio, non ci sono molti modi per trasmettere un segnale, in particolare su grandi distanze. Quindi, possiamo aspettarci che anche i linguaggi extraterrestri abbiano un vocabolario costituito da blocchi di significato che possono essere combinati per creare significati più complessi.“

In sostanza, l’idea è che - indipendentemente dal mondo di origine, dalla sua atmosfera o dal suo ecosistema, e da come in questo ambiente gli ET si siano evoluti - tutte le specie viventi (e per estensione, tutti i linguaggi) provengono fondamentalmente dallo stesso brodo primordiale da cui sarebbe scaturita la vita

“Pur apparendo remota la possibilità che gli esseri umani entrino in contatto con gli Extraterrestri e pur apparendo ancora più remota la possibilità che riescano a comunicare con loro, le leggi della fisica, la teoria dell’informazione, la logica e la matematica costituiscono un comune punto di partenza”, hanno spiegato Samuels e Punske.

(A sinistra: Douglas Vakoch, direttore del METI)

Il METI (Messaging Extraterrestrial Intelligence) da tempo sta riflettendo su quale possa essere il messaggio più adatto da inviare nel cosmo perché sia compreso da potenziali altre civiltà dello spazio. 

Fino ad oggi abbiamo spedito targhe ricoperte di simboli, formule matematiche, persino dischi con incisi brani musicali. 

Ma se davvero esiste una grammatica universale che non solo unisce tutti gli idiomi della Terra, ma che è condivisa anche dalle lingue parlate su altri pianeti, bisogna procedere in un’altra direzione. “Costituisce un cambiamento radicale per gli scienziati del SETI, che hanno sempre respinto l’idea di creare un messaggio interstellare ispirato ai linguaggi naturali”, ha ammesso Vakoch.

Il disco d’oro mandato dalla NASA nello spazio nel 1977

Tuttavia c’è anche chi non sposa affatto l’ottimistica visione di Chomsky. Come il professore emerito Gonzalo Munevar, della Lawrence Technological University, che ha puntato la sua attenzione su come differenti specie animali, già qui sulla Terra, hanno sviluppato cervelli che lavorano in modo molto diverso tra di loro. Le farfalle luna (con ali lunghe fino a 15 centimetri), ad esempio, possono vedere i raggi ultravioletti mentre alcuni pesci percepiscono i campi elettrici.

“Una creatura intelligente la cui principale modalità sensoriale è elettrica anziché visuale avrebbe degli schemi di pensiero completamente estranei ai nostri”, ha detto. Ma non solo. Secondo il professore Munevar, non c’è nessuno motivo che giustifica la nostra pretesa che in mondi lontani esistano linguaggi simili o la medesima matematica. Dunque, profila uno scenario nel quale la comunicazione diventa molto ardua, se non del tutto esclusa. Ma che gli Alieni possano capirci oppure no, il METI va avanti sulla sua strada, nonostante tutto.

Infatti, inviare un messaggio nello spazio non è solo una sfida da un punto di vista linguistico, ma lo è anche dal punto di vista temporale
Ci vogliono anni, se non decenni, prima di far giungere un nostro segnale, fosse anche soltanto un “ciao”, su uno dei pianeti extrasolari più vicini a noi. Serve un netto cambio di mentalità per incominciare a pensare in termini multi generazionali, dice Vakoch. “Gli scienziati che partecipano oggi ad un esperimento del genere probabilmente non saranno più da queste parti quando la risposta dovesse mai arrivare sulla Terra.”

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