sabato 18 ottobre 2025

Immagina che ci sia la guerra e nessuno ci vuole andare


Da camice bianco a mimetica: i modelli della propaganda di Covid si ripetono su un nuovo sfondo.

Un commento di Milosz Matuschek

La storia si sta ripetendo come tragedia, come farsa, o è già un dramma real-satirico? È ormai evidente: Merz vuole la guerra. 

Che si tratti della reintroduzione della leva obbligatoria, di pacchetti di debiti miliardari, di miliardi per l’Ucraina, di presunti avvistamenti di droni, di proclami sulla “prontezza alla guerra” come “la prossima grande cosa”, di considerare lo stato di tensione o di questa frase: non siamo ancora in guerra, ma nemmeno più in pace. Se la storia ci insegna qualcosa, è questo: chi vuole la guerra troverà sempre un motivo per giustificarla. La grande domanda è solo una: chi dovrebbe seguire questi politici in qualche trincea? 

Non si può spiegare seriamente perché un potenziale aggressore come Putin dovrebbe aspettare che noi ci armiamo o che magari costruiamo una légion étrangère di migranti pronti a combattere. 
Lo sente in ogni talk show quanto siano mal equipaggiate le forze armate tedesche. Non si può nemmeno spiegare in modo convincente perché sia necessario dichiarare uno stato di tensione ora e non, per esempio, un caso di difesa già dai tempi della distruzione di Nord Stream. 
Il tempismo e la scelta delle parole sono sempre parte della coreografia...


Il ritorno dell’ipnosi di massa

Le analogie con l’escalation di Covid sono già sorprendenti. Quanto si ripeteranno gli altri schemi? 
Prima la creazione o l’accentuazione di una minaccia, spesso invisibile o vaga: prima i virus, ora attacchi informatici o scenari di minacce ibride. 
Poi l’apparizione dei propagandisti: esperti che si presentano come sommi sacerdoti della necessità – un tempo virologi, oggi militari, ambienti della sicurezza, parlamentari zelanti con ambizioni di lobbying. 
Quindi lo spostamento del processo decisionale in piccoli circoli opachi: un tempo conferenze tra governo federale e Länder via Zoom, quando arriveranno i gabinetti di sicurezza e le stanze segrete della NATO? 
Infine, la richiesta di sacrifici: allora mascherine, restrizioni ai contatti, divieti professionali; più tardi rinuncia all’energia, confische patrimoniali, leva obbligatoria? Il risultato è lo stesso: il controllo democratico si indebolisce, l’opinione pubblica viene posta in uno stato di allarme permanente, e la società viene ridotta a una risorsa da mobilitare, disciplinare e, se necessario, reclutare. 
Stato di emergenza sanitaria da una parte, stato di tensione e di difesa dall’altra. Covid è stato un esperimento di massa per la docilità collettiva – una prova generale.

Campagna tedesca per i riservisti, con il motto "I tempi cambiano, essere pronti è tutto"

Quando arriva la guerra?

La risposta, amara e paradossale: può essere venduta come soluzione solo quando tutto è stato distrutto al punto che la guerra appaia come una “salvezza” e non, come ora, come un problema. 
Non vediamo già i precursori di tutto questo? Prima si distrugge l’economia, si indebolisce il tessuto industriale, si logorano le strutture interne. Poi si approfondiscono i divari sociali: la migrazione come problema, l’intelligenza artificiale come killer di posti di lavoro, la deindustrializzazione come destino. 
Quando tutto sembra senza speranza, quando milioni di persone sono disoccupate e la narrazione della crisi nazionale domina, allora la guerra non appare più come un problema, ma come una soluzione. 
La guerra diventa la grande terapia, il leva per creare posti di lavoro, definire nemici e simulare l’unità nazionale.

Cosa può fare il singolo?

Ma come può il singolo preservare la pace? Forse non attraverso grandi movimenti, ma con una determinazione interiore. 
Con ciò che Ernst Jünger chiamava il Trattato del Ribelle, il ritiro dell’individuo dalla prigionia spirituale e morale della massa. La pace inizia dove l’essere umano rifiuta di seguire il branco. È il momento in cui smette di essere una pecora e inizia a essere un lupo – non nel senso della violenza, ma dell’autodeterminazione. La tirannia dello Stato, secondo Jünger, crea i propri avversari. 

Più grande è il consenso proclamato, più lupi si nascondono nel branco. Il numero sconosciuto di chi segue il Trattato del Ribelle, questa resistenza invisibile, è il vero incubo dei potenti. Sanno che esistono persone che non si lasciano più catturare, che non hanno paura a comando, non obbediscono a ordini, non marciano al passo. Preservare la pace significa dunque salvare sé stessi. Sviluppare un occhio critico per riconoscere quando una catastrofe viene spacciata per una presunta soluzione. La pace non viene salvata dalle istituzioni, ma da coloro che rifiutano di delegare la propria coscienza. In tempi di mobilitazione, il Trattato del Ribelle non è una ritirata, ma l’ultimo atto di coraggio: il rifiuto di partecipare al gioco. Perché la pace non inizia con trattati, ma con la decisione del singolo di non diventare uno strumento di distruzione.

Ndr: Trattato del Ribelle è un saggio sociopolitico del 1951 di Ernst Jünger. L’autore si interroga sui compiti che spettano agli uomini liberi nei momenti storici in cui la tirannia impedisce loro di esprimere le proprie giuste rivendicazioni.

Fonte, articolo completo e riferimenti: www.nogeoingegneria.com

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.