martedì 2 dicembre 2014

Perché lavoriamo tanto nonostante sia il XXI secolo?

 di Owen  Hatherley

In pratica, se nel passato c’è qualcosa su cui tutti i futurologi concordavano, è che nel XXI secolo ci sarebbe stato moltissimo meno lavoro. 
Che cosa avrebbero pensato, nell’aver saputo che nel 2012 la classica giornata lavorativa dalle 9 alle 17 si sarebbe evoluta in qualcosa di più simile a una giornata dalle 7 del mattino alle 7 di sera? Sicuramente si sarebbero guardati attorno e avrebbero visto come la tecnologia prendeva il controllo in molte professioni nelle quali prima era necessaria una numerosa mano d’opera, avrebbero contemplato lo sviluppo dell’automatizzazione e della produzione intensiva, e si sarebbero chiesti, “perché passano dodici ore al giorno in lavori futili?”.
 
Si tratta di una questione alla quale né la destra né la sinistra ufficiali rispondono adeguatamente. Ai conservatori è sempre piaciuto pontificare riguardo alle virtù morali del lavoro duro e una buona parte della sinistra, concentrata nei terribili effetti della disoccupazione di massa, propone comprensibilmente “più lavoro” come soluzione principale contro la crisi. Le vecchie generazioni avrebbero trovato tutto questo disperatamente deludente.

In quasi tutti i casi, gli utopisti, i socialisti e il resto dei futurologi credevano che il lavoro avrebbe finito con l’essere quasi abolito soprattutto per una ragione: potremmo lasciare che lo facciano le macchine. Il pensatore socialista Paul Lafargue scrisse in un suo breve trattato intitolato “Le droit à la paresse” – 1833 (Il diritto alla pigrizia, ndt):

“Le nostre macchine, con alito di fuoco, con braccia di acciaio incombustibile, con meravigliosa e infinita abbondanza, eseguono con disciplina il loro santo lavoro. E ciò nonostante, l’indole dei grandi filosofi del capitalismo continua a essere dominata dai pregiudizi del sistema salariale, la peggiore delle schiavitù. Ancora non capiscono che la macchina è la salvatrice dell’umanità, il Dio che libererà l’uomo dall’essere vittima del lavoro, la divinità che gli concederà l’ozio e la libertà”... 


Acciaierie di Sheffield a metà dell'800

Oscar Wilde fu immediatamente d’accordo: nel suo scritto del 1891, “The Soul of Man Under Socialism” (L’anima dell’uomo sotto il socialismo, ndr), disprezza “l’assurdità di ciò che si scrive e dice oggi, riguardo alla dignità del lavoro manuale”, e insiste “ l’uomo è fatto per qualcosa di meglio del distribuire sporcizia. Tutto il lavoro di questo genere dovrebbe realizzarlo una macchina”.
Lascia ben chiaro quello che vuol dire:

“La macchina deve lavorare per noi nelle miniere di carbone, e occuparsi di tutti i servizi di sanità, ed essere fuochista degli strumenti a vapore, e pulire strade e portare messaggi nei giorni di pioggia e realizzare tutto ciò che sia noioso o difficile”.

Sia Lafargue che Wilde si sarebbero terrorizzati dal rendersi conto che, solo dopo vent’anni, lo stesso lavoro manuale si sarebbe convertito nell’ideologia dei partiti laburisti e comunisti che si dedicarono a glorificarlo invece che ad abolirlo.

Anche in questo, senza dubbio, l’idea consisteva nel fatto che il lavoro sarebbe stato sostituito. 

Dopo la Rivoluzione Russa, uno dei grandi difensori del culto del lavoro fu Aleksei Gastev, un vecchio metallurgico e dirigente sindacale che divenne poeta, pubblicando antologie dai titoli come “Poesia della pianta di produzione”. Si convertì nel più grande entusiasta del Taylorismo, la tecnica nord americana di gestione industriale, solitamente criticata dalla sinistra, che riduceva il lavoratore a essere un semplice pezzo della macchina, dirigendo l’Istituto Nazionale del Lavoro, con il patrocinio dello Stato. 

Quando fu intervistato riguardo a tale cambiamento dal socialdemocratico tedesco Ernst Toller, Gastev rispose: “Abbiamo la speranza che grazie alle nostre scoperte arriveremo a uno stadio nel quale il lavoratore che prima lavorava otto ore in un determinato impiego ne debba lavorare solo due o tre”
In un qualche momento tutto questo fu dimenticato a favore dei supermuscolosi stacanovisti che eseguivano prodezze sovraumane nell’estrazione del carbone.

I teorici industriali nord americani, per quanto possa apparire strano, sembravano condividere la visione socialista. 

Buckminster Fuller, il disegnatore, ingegnere e polifacetico saggio nord americano, dichiarò che “l’equazione industriale” è come dire che la tecnologia abilita l’umanità a fare “di più con meno” eliminando in poco tempo la nozione stessa del lavoro. 
Nel 1963 scrisse: “Nel giro di un secolo, la parola - lavoratore – non avrà alcun significato attuale. Sarà qualcosa che dovremo cercare in un dizionario dell’inizio del XX secolo”. 
Se questo è stato sicuro negli ultimi dieci anni, lo è stato solo nel senso che “oggi facciamo tutti parte della classe media” del Nuovo Laburismo, non nel senso di eliminare veramente i lavori minori o la divisione tra operai e padroni.

I sondaggi continuano a mostrare già da molto tempo che la maggior parte dei lavoratori pensa che i propri impieghi siano irrilevanti, e dando un’occhiata alle offerte di lavoro di un’impresa media - personale di attenzione telefonica al cliente, archivista, e soprattutto i diversi compiti di un’impresa di servizi - è difficile non essere d’accordo.

Senza dubbio, la visione utopica dell’eliminazione del lavoro industriale è passata da diverse metodologie a miglior vita. Negli ultimi dieci anni le acciaierie di Sheffield hanno prodotto più acciaio che mai con una piccola parte dell’antica mano d’opera, e i porti dei containers di Avonmouth, Tilbury, Teesport e Southampton si sono liberati della maggioranza degli scaricatori ma non delle tonnellate di acciaio.

Il risultato non è stato che gli scaricatori o i lavoratori siderurgici si vedessero liberi, esattamente come disse una volta Marx “cacciare al mattino, pescare il pomeriggio e dedicarsi alla critica solo dopo aver cenato”. Al contrario, si sono visti sottomessi alla vergogna, alla povertà e all’incessante preoccupazione di cercare un altro lavoro che, nel caso si fosse trovato, poteva essere insicuro, mal pagato, senza copertura sindacale, nel settore dei servizi. 

Nella presente era del precariato, questa è in concreto la norma, e il lavoro sicuro, qualificato e l’orgoglio per il proprio impiego non sembrano tanto orribili. Nonostante ciò, in passato, il movimento operaio si consacrò all’abolizione di tutti quei lavori di poca importanza, noiosi e stancanti. Oggi disponiamo delle macchine per convertirlo in realtà, però scarseggiamo di volontà.

Owen Hatherley, tagliente critico di architettura e urbanismo, è autore di Militant Modernism (Zero Books, 2009); A Guide to the New Ruins of Great Britain (Verso, Londra, 2010) e Uncommon (Zero Books, 2011) sul gruppo musicale “pop” britannico Pulp.

4 commenti:

  1. Spero sia talmente altruista, Catherine, di mettermi a parte del riassunto delle 6000 conferenze e relativi esperimenti attuativi, ad esempio come si produce il pane o si stendono le tagliatelle. Dal momento che tutti i "geni" che si dilettano nel detrarre il "Dottore" si soffermano quasi sempre sulle entità spirituali che loro non sono in grado di contattare.

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    1. Credo che l'assunto di base dell'articolo sia molto semplice e che non sia necessario tutto questo spiegamento di studi ed esperimenti. Basta guardarsi intorno: la tecnologia è per certi versi al servizio dell'uomo, si, al servizio delle sue debolezze e delle sue paure, e soddisfacendo la sua principale esigenza che è quella di rifiutare qualsiasi forma di responsabilità .. ma è soprattutto al servizio di chi la elargisce col contagocce, in modo mirato, traendone vantaggi in denaro e potere ..
      Il prezzo da pagare è la schiavitù.

      E poi, lavoriamo forse di meno? .. ;)

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  2. Riporto questo link a una notizia comparsa nel luglio di quest'anno (credo di ricordare) che mi pare rispondere bene al senso del post.
    Il punto, temo, è che la mistica del lavoro (che nobilita l'uomo e lo rende simile alla bestia) risponde alla logica del dominio dell'uomo sull'uomo, del ricco sul povero (che deve rimanere povero così da farsi volontariamente suo servo), dello Stato sull'individuo.
    La libertà dal lavoro è essenzialmente libertà dal bisogno.
    Ma un uomo che non è schiacciato dal bisogno non teme né la prepotenza del ricco né la coercizione dello Stato, esprimendo azioni e pensieri propri che contrastano con la logica del Potere.
    La domanda che mi pongo è: perché siamo disposti a morire di lavoro, spesso di troppo lavoro inutile in cambio di una misera pagnotta, ma non siamo disposti a morire, magari di stenti, ma per affermare il diritto supremo alla nostra libertà di decidere come e a mano di chi morire?

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    1. Grazie per il link. :)
      Condivido la tua riflessione Rossland. Credo che la risposta sia da cercare in una caratteristica spiccata dell'indole umana: quella di fuggire alle proprie responsabilità e quindi di aderire ciecamente alle decisioni altrui, pur sapendo che chi comanda lavora soprattutto per se stesso e non per la massa ..
      Questo atteggiamento deriva secondo ma dalla paura di conoscere, e talvolta affrontare, se stessi. Nelle nostre società, principalmente quelle occidentali, si tende a dare le colpe a tutto ciò che succede al di fuori di noi, raramente ci rendiamo conto che il mondo è così com'è perché lo ha voluto ognuno di noi, singolarmente... anche, e forse soprattutto, NON decidendo.
      A nulla serve scendere in piazza per pretendere un lavoro (quel "valore" in cui tutti credono) per tutti se il sistema stesso fa acqua da tutte le parti; è come cercare di tappare una perdita d'acqua con lo scotch ;)
      Ciao.

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