venerdì 9 aprile 2021

L'alba delle droghe

"Questo libro è costituito da una raccolta di interventi tratti dalla rivista "High Times" diffusa in tutti gli Stati Uniti dai primi anni settanta e specializzata nella controinformazione su ogni tipo di droga. ( ... )

Secondo gli autori i problemi relativi alle sostanze alteranti, legali o illegali che siano, non derivano tanto dai loro principi attivi quanto dalle modalità con cui vengono impiegate, cioè dalla consapevolezza e del senso di responsabilità dei singoli consumatori ..."

Dagli anni settanta ad oggi ci siamo accorti che sperare in un livello di consapevolezza da parte dei "consumatori" di droghe era (diventata?) un'utopia. Per quanto riguarda l'esistenza e l'uso di droghe nella storia umana e nel regno animale, ritengo interessante lo spezzone che segue.
Catherine

È strano, ma l’alba delle droghe coincide con quella della vita su questo Pianeta.

Si pensa che la coltivazione intenzionale dei vegetali psicoattivi sia iniziata nel periodo neolitico poco dopo il 7000 a.C., praticamente in tutto il mondo, ma la raccolta delle piante che fanno strani effetti sulla mente era iniziata già da millenni.

Un’ipotesi fantasiosa sulla scoperta della marijuana, una delle più antiche specie a essere coltivata, può essere metaforicamente considerata valida per tutte le altre. Un abitante delle caverne, particolarmente curioso, nella sua incessante ricerca di cibo, raccoglie un po’ di fiori aromatici, li mette in bocca, ne mastica i semi con i suoi possenti molari e… un’ora dopo lo ritroviamo che vaga inebetito nella foresta, mentre cerca di ricordare cosa è successo.

Oppure: un fulmine colpisce un albero e la fiamma si propaga a un gruppo di arbusti di canapa che si trova nel prato; un uomo di Neanderthal fiuta l’aria, impaurito dal fumo e pronto a scappare… finisce invece col rotolarsi nel fango, muggendo il primo suono umano: wow! Si potrebbe ripetere lo stesso episodio per altre parti del mondo… per la corroborante coca, per l’ipomea lisergica, per l’oppio profumato, per i funghi sacri, per lo spinoso stramonio ...



Forse gli esseri umani hanno imparato l’uso delle droghe dagli animali.

La tradizione popolare australiana vuole che i koala abbiano sviluppato una dipendenza per le foglie dell’eucaliptus, che è il loro unico cibo, perché queste foglie avrebbero un effetto drogante. In Africa, dove gli antenati dell’Homo sapiens si sono evoluti tre milioni di anni or sono, gli effetti esilaranti del caffè, secondo la leggenda, furono scoperti da un pastore abissino, che aveva notato che il suo gregge si era messo a saltare sul pascolo, dopo aver mangiato il frutto di quell’albero verde e lucente; una storia simile viene raccontata nello Yemen a proposito del qat.

La mangusta indiana, dopo essere stata morsicata da un cobra si trascina nella giungla per rosicchiare la radice del mungo, come antidoto. In America le mucche vanno matte per la locoweed, una specie di datura; i gatti divorano l’erba gatta; le renne ruminano funghi. I conigli preferiscono la belladonna o la lattuga selvatica; gli uccelli canori e i topi crescono vigorosi con i semi di canapa; i pesci «sballano» grazie all’azione delle piante tossiche che cadono nell’acqua. 
Persino gli elefanti adorano certi frutti di palma che producono un liquore fortemente inebriante e, secondo le parole di un esploratore del secolo XIX, «dopo averli mangiati, diventano completamente brilli, barcollano, si esibiscono in grandi buffonate, barriscono talmente forte che li si sente per miglia e non è raro che si impegnino in tremende lotte».

Comunque sia, l’uomo imparò presto ad apprezzare le droghe.

Fu una droga a svegliare l’autocoscienza? 

La differenza tra un uomo e una scimmia è un pollice opponibile o qualcosa di più: la scintilla dell’immaginazione accesa nel cervello da una pianta o la capacità di valutare gli effetti di quella pianta, attaccandovisi attraverso l’eternità, sebbene faccia vomitare, cadere nella neve e correre delirando attraverso il sottobosco? 
L’entusiasmo della scoperta diede il via in tutto il mondo alla ricerca premeditata di sostanze che agiscono sulla mente.

Mamme e papà riunivano i loro figli intorno al fuoco, per insegnare loro come provare «l’ebbrezza» disegnando piante sulle pareti annerite delle caverne. 
Fu il succo di alcune piante che per primo si dimostrò così attraente; il liquido prodotto dai papaveri pestati, le dolci creme celestiali di funghi macinati, la resina appiccicosa del luppolo e della canapa, i succulenti sciroppi di granaglie e frutta, la polpa matura di migliaia di radici e di vegetali esotici: masticati, schiacciati, filtrati, macinati, inghiottiti interi, crudi, cotti, fermentati, marciti, freschi, putrescenti, fritti, arrostiti, sciolti fino a diventare zuppe, aromatizzati, risputati o defecati, colti da mucchi di escrementi e piante rampicanti, immagazzinati in vecchie ceste e recipienti, gettati nel fuoco, usati come unguenti sulla pelle, introdotti attraverso qualsiasi orifizio; le ricette erano ricordate e tramandate attraverso generazioni, insieme a ricordi archetipici di sballi mortali, non mangiare quello, caro, ha ucciso la zia!

Dopo secoli di esperimenti, si venne a creare una stirpe speciale, gli stregoni, uomini e donne che sapevano quale droga mangiare e quale no, quando mangiarla e quando no, quali dèi ringraziare e quali maledire. I segreti di questi esperti di sostanze psicoattive sono sempre stati, almeno in parte, segreti di selezione e tecnologia. Non si trovavano nell’armadietto delle medicine, si andava a cercarli sul terreno, e guai a chi sceglieva la pianta sbagliata. 

Diecimila anni fa, sapere come ricavare la birra dall’orzo era altrettanto sensazionale quanto sapere oggi come si fa l’Lsd. Alcuni segreti erano custoditi così gelosamente che rimangono tuttora dei veri e propri misteri. 

Cos’era l’albero della vita? Cos’era l’albero della conoscenza? Che cosa era il nepenthes di Omero, che annegava tutti i dispiaceri? Che sostanze usavano i Sumeri per drogare i cortigiani destinati a essere seppelliti vivi con il re o con la regina: oppio, hashish o semplicemente vino? Che cosa erano soma e haoma, adorati dagli Arii in India e in Persia? Che cosa cuocevano i maghi taoisti cinesi in pentole alchemiche per produrre la divina euforia del non far niente? 

In America, di gran lunga più ricca di allucinogeni dell’Europa, che cosa fumavano esattamente nelle pipe della pace o nel guscio del mais e che cosa inalavano con cannule nasali? Perché i sacerdoti Inca chiamavano la lucente stella Spica nella costellazione della Vergine «Mamma Coca»: credevano forse che venisse da lì? 

In quale età primordiale si imparò a mangiare il nauseante cactus con la tenera pelle di dinosauro o a impastare le cortecciose piante rampicanti e la vite ricca di viticci? Chi fu il primo a immaginare che un fungo strano potesse offrire visioni più imperiose delle sacre montagne degli dèi? 
I mezzi più sofisticati della scienza moderna hanno lasciato insoluti questi problemi; forse devono rimanere per sempre delle ombre nel mitico passato.

Scavare nella storia della droga significa penetrare nel più profondo dei sensi umani: déja-vu, è tutto già successo, tutto succederà di nuovo. 

Le distorsioni dello scorrere del tempo, introdotte dalla droga, portano il partecipante a scivolare senza sforzo, di eternità in eternità, da uno scenario cosmico all’altro. E forse è proprio questo intensificarsi di memoria ancestrale, questo senso di mitologia senza tempo, prodotto dalle stesse droghe, che meglio illumina la loro storia attraverso i tempi. 

Abbiamo imparato molto su come ottenere l’ebbrezza da quando per la prima volta l’umanità si è svegliata sulla Terra, e stiamo ancora imparando. 

Il primo precetto della stregoneria – la scelta basata sul danno o sul vantaggio che effettivamente si prova – rappresenta precisamente la tecnica impiegata dagli scienziati moderni per esaminare il grado di sicurezza di un nuovo medicinale.

Alcuni dei più antichi esempi conosciuti riguardanti l’uso della droga ce lo dimostrano. 

Il carbonio radioattivo ci conferma che i semi rossi di mescal, allucinogeni, trovati in rifugi di roccia situati in Texas e in Messico, erano usati più di diecimila anni fa dai cacciatori preistorici di bufali. Questi semi scarlatti sono altamente tossici e possono risultare letali. 

Quando si scoprì che il peyotl offriva visioni più spettacolari con minore pericolo, venne usato il cactus al posto del fagiolo. Però i fagioli di mescal adornano ancora le vesti dei sacerdoti della Native American Church, in ricordo di quella antica esperienza. 

La scienza della droga progredì ulteriormente quando si cominciò a non mangiare più qualsiasi pianta fosse a portata di mano, ma a sperimentare la lavorazione di speciali preparati.

Un po’ di cocci rotti sono tutto quello che rimane del preparato forse più vecchio della Terra: la semplice, familiare birra. Un alambicco con un setaccio in fondo e cannucce sul bordo esterno è venuto alla luce da strati che risalgono al 6400 a.C. circa in Catal Hüyük, Turchia. 

Alcuni studiosi credono che questa pentola, setaccio e arnesi simili nell’Egitto predinastico, fossero frutto della scoperta di qualche mago del periodo Neolitico che imparò a frantumare l’orzo che aveva raccolto, a passarlo attraverso il colino, lasciarlo fermentare un po’ e bere la poltiglia ottenuta, ricca di proteine e di fermenti, che lo avrebbe trasportato in uno stato mentale insolito.

Già dal 4500 a.C., secondo il dott. Richard H. Blum, gli Egiziani «avevano imparato a elevare al massimo grado la fermentazione e il contenuto alcolico, facendo germogliare il grano in determinate condizioni di umidità e temperatura… E tutte le culture asiatiche Sud-occidentali avevano come bevanda domestica la birra». 

L’atteggiamento sospettoso della civiltà occidentale nei confronti delle droghe è iniziato in un fosco bagno di mistura di orzo. Le paghe giornaliere in Babilonia e in Egitto erano costituite da birra e pane. «Non bere troppa birra», venivano ammoniti gli operai che costruivano le piramidi. «Parli stupidamente e non ti ricordi le parole che ti sono uscite di bocca. Se poi cadi e ti rompi qualcosa nessuno ti darà una mano. I tuoi compagni di bevuta rimangono dove sono e ti dicono: “Lasciamo perdere questo ubriaco”, e se qualcuno ti viene a cercare, ti trova disteso per terra come un bambino». 

Così la birra era la bevanda delle masse lavoratrici e il vino l’elisir dell’aristocrazia.


Le feste egiziane a base di vino erano leggendarie come risulta dai dipinti del Nuovo Regno (1580 a.C. circa). Donne splendidamente vestite e uomini con gioielli costosi siedono comodamente odorando fiori di loto, mentre alcuni servi offrono loro profumi, unguenti, coppe di vino e frutta. In un angolo si vede un tino di vino inghirlandato con piume, più in alto delle danzatrici nude che volteggiano battendo le mani al suono della musica di un’orchestra di donne esotiche. Era facile eccedere, come mostra un altro dipinto descritto da Adolf Erman: «Una signora è accovacciata miseramente a terra, l’abito le scivola dalla spalla, la vecchia serva viene chiamata precipitosamente ma, ahimè, arriva troppo tardi».

Era necessaria una cura per i postumi della sbornia

La prima di cui si abbia conoscenza è riportata su una stele mesopotamica e incidentalmente indica un altro progresso scientifico: un miscuglio di parecchie sostanze in un’unica magica medicina. «Se un uomo beve del vino forte, la sua testa ne rimane colpita e dimentica quello che dice, il suo discorso diventa confuso, la sua mente comincia a vagare e i suoi occhi assumono un’espressione vitrea. Per curarlo, prendi liquerizia, fagioli, oleandro (e altre otto sostanze non identificate), mischiate con olio e vino, prima dell’arrivo della dea Gula (il tramonto). Al mattino, prima dell’alba e prima che qualcuno lo baci faglielo bere e si riprenderà».

Alcune tavolette di Ninive risalenti a circa il 2300 a.C. alludono a delle taverne popolari, chiamate Bit Sakari, e il codice di Hammurabi (quello dell’occhio per occhio, dente per dente) qualche secolo dopo prescrive dure pene per chi si comporta male in questi bar. 
Birra e vino scorrevano liberamente in tutto il mondo.

La Genesi asserisce che Noè, il primo a possedere un vigneto, fosse uno spudorato ubriacone. Gli africani ricavano un ponce da un succo estratto da alcune palme, dal miglio e dal sorgo; gli abitanti del Tibet ricavano il chang dall’orzo; i Peruviani la chica dal granturco; i Messicani il pulque dall’agave. Secondo una leggenda della Cina preistorica, due astronomi reali furono giustiziati per esser stati tanto ubriachi da non aver visto un’eclissi; un’altra racconta che l’inventore del vino di riso venne esiliato.

I Norvegesi adoravano l’idromele, il dolce nettare di miele che era la forza motrice degli exploit di Odino, Freya e Thor. Fra tutti i popoli antichi, i Greci erano i più cauti per quanto riguarda il vino, lo mescolavano sempre con l’acqua e deploravano la pratica barbara di berlo puro. 
Erodoto dice che gli Sciti usavano vino caldo (mescolato a sangue umano) e canape selvatiche e racconta che gli odiati Persiani prendevano tutte le decisioni importanti quando erano completamente ubriachi e riconsideravano le decisioni prese da sobri, quando erano di nuovo ubriachi. 
Come scrive Plutarco, il vino era considerato una medicina. Era anche il liquido con cui venivano somministrati la maggior parte dei rimedi a base di erbe.



A sin. l’idolo di Gazi (Creta), statuetta di terracotta alta 77,5 cm., assegnata al tardo periodo minoico (circa 1350 – 1250 a.C.); a dx sigillo rinvenuto nell’Acropoli di Micene, attribuibile circa allo stesso periodo

I papiri medici egiziani elencano circa 200 farmaci, comprese cipolle, fichi, aglio, anice, ginepro, papavero e semi di sesamo, trangugiati con vino, birra, olio o miele. 
Il commercio di spezie e droghe cominciò incredibilmente presto.

La cassia e la cannella usate per imbalsamare venivano dalla Cina e dall’Asia Sud-orientale, gli aromi di mirra, balsamo e incenso dall’Arabia e dall’India.
Il silphium, la famosa pianta panacea della Grecia, cresceva in Libia e le esportazioni erano così intense che si estinse nel primo secolo d.C..

La più famosa ricetta dell’Egitto era un rimedio per il pianto dei bambini: «Shepen, le granaglie di una pianta di shepen, mescolate con gli escrementi delle mosche appiccicati sul muro, ridotte in poltiglia, passate attraverso un setaccio e somministrate per 4 giorni consecutivi, fermerà il loro pianto immediatamente». 
Se lo shepen era oppio, come molti studiosi pensano, la cura avrebbe dovuto essere veramente efficace, con o senza le cacche delle mosche. Il misterioso nepenthes dell’Odissea potrebbe essere parente di questo.

Quando Telemaco visitò Sparta, la bellissima «Elena, figlia di Zeus, versò nel vino che stavano bevendo una droga, il nepenthes, che calmava tutti i dolori e dava l’oblio. Chi beveva questa mistura non avrebbe versato una lacrima per tutto il giorno, neanche se morivano suo padre o sua madre o se un fratello o l’amato figlio venivano fatti a pezzi da un nemico davanti ai suoi occhi». 
Elena aveva ottenuto la droga da Polidamia, moglie di Tono, in Egitto, «quella terra ricca di molti farmaci, alcuni benefici, altri mortali, e dove tutti conoscono la medicina». L’identità del nephentis ci ha resi perplessi fin da allora. Teofrasto disse che probabilmente si trattava del frutto dell’immaginazione di un poeta; Dioscoride sospettava che fosse una mistura di giusquiamo e oppio; molti hanno pensato si trattasse di hashish. 
Louis Lewin ha dato brevemente la versione moderna: «Esiste solo una sostanza al mondo capace di agire in questo modo, ed è l’oppio».

Quanto sapevano gli antichi sull’oppio ci dà un rapido panorama dello sviluppo di due scienze gemelle: farmacologia e tossicologia. 


Capsule e semi del Papaver sonniferum sono stati portati alla luce in zone neolitiche in tutta Europa. In Egitto, in Grecia e a Cipro sono stati rinvenuti dei vasi a forma di capsula, spilli e amuleti, mentre a Creta è venuta alla luce la statua di una dea Minoica del papavero, incoronata da un diadema di capsule di papavero incise (1300 a.C. circa). Tavolette mediche assire recano le parole Hul Gil che sono state tradotte «pianta che dà gioia» oppure «cetriolo maleodorante».

Alcuni pensano che si tratti di oppio. Infine nel secolo V a.C., Ippocrate, il padre della medicina greca, afferma inequivocabilmente che il succo del papavero è usato in medicina come antidolorifico. Aristotele, che con le sue speculazioni filosofiche su animali e piante è considerato il padre della biologia, nomina il papavero, definendolo «ipnotico» (da Hypnos, dio del sonno). Teofrasto, suo allievo ed erede degli scritti del Maestro, diede il suo contributo, sulla scia della tradizione del Maestro, con una massiccia Ricerca sulle Piante, in cui si parla, forse per la prima volta, di incidere il papavero per ottenere l’oppio.

Un altro allievo famoso di Aristotele, Alessandro Magno, portò con sé, in Persia e in India, degli esperti erboristi; questi ritornarono in Patria con un notevole patrimonio di informazioni relative alle piante medicinali asiatiche, informazioni che tuttavia non impedirono allo stesso Alessandro di morire di febbre a Babilonia dopo una solenne sbornia. 

In seguito vennero fondate delle scuole greche in Sira e ad Alessandria; esse promossero la diffusione della farmacologia e tramandarono gli insegnamenti aristotelici in arabo. 
Si venne così a formare un bagaglio di informazioni disponibili, da aggiungere e quelle fornite dal folclore dei raccoglitori di erbe (rhizotomoi) e dai venditori di medicinali (pharmakopolai).

Inoltre, le ricerche botaniche avevano anche l’appoggio dello Stato, specialmente dei governanti che avevano paura di venire avvelenati. 
Mitridate VI, re del Ponto in Asia Minore (120 – 63 a.C.), descrisse tutte le piante medicinali conosciute nel suo regno e assunse un rizotomo di nome Crateua in qualità di medico personale. Insieme si guadagnarono la fama di saperne più di ogni altro al mondo sui veleni. Il re diede il suo nome al più rinomato sistema per prevenire gli avvelenamenti, che da allora si chiamò cura mitridatica (somministrazione di sostanze tossiche in dosi progressivamente crescenti allo scopo di ottenere l’assuefazione dell’organismo ai veleni e la conseguente immunità), e il suo erborista fornì i disegni più verosimili di piante che siano mai stati fatti a quell’epoca.

Tra queste piante c’era un papavero ora battezzato Papaver dubium, da cui si ricava l’oppio. L’arte dell’avvelenamento era talmente sviluppata che talvolta si rivelava vana persino la precauzione di assumere schiavi in qualità di assaggiatori. Tacito racconta che quando Nerone salì sul trono romano nel 54 d.C. aveva incaricato una donna, precedentemente processata per avvelenamento, di preparare un veleno a effetto rapido da mettere nel vino di suo fratello Britannico. La difficoltà consisteva nell’escogitare un modo per ingannare l’assaggiatore. 

Ricordando che Britannico preferiva il vino riscaldato Nerone gli portò una coppa di vino che, secondo lo schiavo, era troppo caldo per essere bevuto. Il veleno venne quindi versato nella coppa insieme all’acqua fredda e l’ignaro Britannico bevve il vino in un sorso. Pochi secondi dopo la pretesa al trono di Nerone era incontrastata, tranne che da sua madre, anche lei avvelenatrice famosa.

Anticamente la più grande autorità di tutto il Mediterraneo in fatto di medicinali era Dioscoride, un medico nato in Asia Minore che aveva viaggiato in lungo e in largo con l’esercito di Nerone e aveva raccolto una vasta mole di informazioni. 
Dioscoride compilò un’opera fondamentale, De Materia Medica, che comprende un migliaio circa di medicine di origine animale, vegetale e minerale. Di queste, circa 600 erano piante (circa 100 in più di quelle conosciute da Teofrasto e 450 più di Ippocrate). Disegni di molte di queste specie, di cui alcuni si rifacevano a quelli di Crateua, furono conservati in un codice bizantino del 512 d.C. e divennero la base delle illustrazioni botaniche per i successivi mille anni.


Le descrizioni di Dioscoride sui farmaci e i loro effetti, sebbene sommarie, erano di gran lunga superiori alle precedenti. Tra le piante esaltate da Dioscoride si annoverano: la canapa, l’oppio, l’elleboro bianco e nero, il giusquiamo, l’aloe, la cicuta, l’aconito, la ruta siriana, il calamo, le cipolle, il ginepro e una grande quantità di fiori e spezie.

Il suo compendio ebbe una grande influenza su Galeno e Plinio il Vecchio e sui grandi erboristi che seguirono. Fino al culmine del Rinascimento il De Materia Medica fu considerato un’autorità quasi infallibile. Incidentalmente, Dioscoride fu il primo a usare la parola anestesia nella sua accezione moderna. 

L’influsso di Dioscoride sulla farmacologia permane ancora nei testi moderni come il Merck Index, che attualmente comprende 42.000 prodotti chimici e farmaci, facilmente consultabile grazie all’ordine alfabetico introdotto per la prima volta da questo sapiente medico militare quasi 20 secoli fa. D’altra parte il Merck Index segue anche un modello già usato nei papiri egiziani, che elencavano le varie malattie, con le rispettive prescrizioni.

Questo è anche l’ordine che si trova negli insegnamenti medici ayurvedici dell’India, di portata molto più vasta. Le prime tracce scritte della medicina indiana si trovano nei testi religiosi e magici dei Veda del secondo millennio a.C. e successivamente la medicina progredisce e si concretizza in enciclopedie attribuite ai dottori Charaka e Susruta.

«Non esiste sostanza al mondo che non sia medicina» proclamava Charaka, e dimostrava la sua asserzione prescrivendo migliaia di farmaci per ogni malattia possibile o immaginabile. Charaka riporta la prima conferenza del mondo sui farmaci tenutasi nel VII secolo a.C., e sembra probabile che il suo lavoro sia una compilazione di tutto lo scibile indiano dell’epoca, relativo alle piante dell’India. Tra le innovazioni di Charaka si annoverano l’identificazione di circa 80 varietà di vino, il trattamento dei malati mentali in celle imbottite, canti e danze rituali (mantra) per rendere i farmaci più efficaci, addestramento intensivo di danzatrici come avvelenatrici, note minuziose su come conservare i farmaci e fumare erbe aromatiche con pipe di canna o in sigari intrecciati. In casi di tosse tubercolare per esempio, Charaka raccomanda che il «paziente fumi un sigaro arrotolato con tela di lino impregnata di arsenico rosso, palas, carote selvatiche, manna di bambù e zenzero secco. Dopo aver fumato, il paziente può bere il succo della canna da zucchero o acqua gur».

Il medico Susruta elencò più di 760 piante medicinali, compresi anestetici, veleni, narcotici e spezie. 
La liquerizia e il pepe erano le sue medicine preferite; mango, microbolani, peperoni e datura i suoi afrodisiaci. 
Fu il primo chirurgo plastico del mondo; rifaceva i nasi che erano stati tagliati come punizione per l’adulterio. Susruta affumicava le sale operatorie con erbe aromatiche e usava la belladonna, la canapa e la datura per provocare uno stato di torpore. La serpentaria (Rauwolfia serpentina), da cui i chimici moderni estraggono un tranquillante, la reserpina, era prescritta per la febbre, il morso del serpente, il colera, in caso di parto difficile e per la «follia» o demenza.


L’origine della farmacologia cinese è attribuita al mitico imperatore Shen Nung.

Secondo la tradizione egli provò un centinaio di droghe su se stesso e, dato che poteva rendere il suo corpo trasparente quando voleva (una bella metafora per l’introspezione causata dalle droghe!), era in grado di osservare gli effetti di queste droghe e prendere, se necessario, un antidoto. 

Era quindi in grado di classificarle: le droghe «superiori» non erano velenose, ma ringiovanivano; quelle «medie» erano in un certo grado tossiche, a seconda della dose; quelle «inferiori» erano velenose, ma utili per alcune malattie.

La prima farmacopea cinese (Pen T’sao) adottò questo schema e venne attribuita a Schen Nung, sebbene in realtà fosse stata redatta da studiosi della dinastia Han (206 a.C. - 220 d.C.). Vi sono elencate 365 erbe terapeutiche – una per ogni giorno dell’anno – comprese: canapa, efedra, rabarbaro, liquerizia, sesamo, zenzero, cassia, cannella e il meraviglioso afrodisiaco e toccasana ginseng. Come la mandragora nell’Occidente, più la radice di ginseng assomigliava al corpo umano, più era ritenuta efficace.

Alcune polveri effervescenti venivano somministrate nel vino e una di queste, il ma-fei-san, probabilmente un preparato di canapa, fu uno dei primi anestetici usati in Cina. Venne introdotto per la prima volta dal famoso chirurgo Huat’o alla fine della dinastia Han per i casi in cui l’agopuntura, le misture o i balsami si rivelavano inefficaci e si doveva ricorrere alla chirurgia. Hua usava pochi farmaci, ma era talmente esperto in questo campo che un uomo politico del tempo, avendo paura di essere avvelenato, lo fece condannare a morte – arrestando così il progresso della chirurgia cinese per centinaia d’anni.

Comunque, prima di morire, Hua aveva addestrato i suoi allievi in esercizi fisico-ginnici (le posizioni dei 5 animali) che vengono considerati i precursori del T’ai chi ch’uan e di tutte le altre arti marziali. I maghi taoisti incominciarono presto a cercare l’immortalità praticando il kung-fu, nutrendosi di cibi genuini e usando moltissimi farmaci. Indubbiamente molti erano solo ciarlatani, ma questo non si può dire del grande alchimista Ko Hung (300 d.C. circa). 

Ko, secondo una leggenda, era riuscito a trasformare delle erbe e dei metalli preziosi in un elisir dell’immortalità usando il cinabro, e si narra che alla sua morte la sua salma fosse diventata incredibilmente leggera, come se fosse rimasto solo il sudario, svuotato del corpo. Ko stabilì delle regole per migliorare il processo respiratorio e la circolazione sanguigna con l’aiuto di tonici e diete speciali.

Per i disturbi comuni sottolineò la necessità di cure semplici e poco costose, come la sua prescrizione per l’asma: un composto di efedra, liquerizia, cannella e semi polverizzati di albicocche. Rimedi simili furono diffusi in lungo e in largo dai monaci buddisti che, spostandosi lentamente dall’India alla Cina, dal Giappone all’Asia Sud-orientale, raccoglievano le varie erbe. 

Secondo una leggenda, il tè venne scoperto da Bodhidharma, il fondatore del buddismo Ch’an (lo zen), che, essendosi addormentato durante una meditazione, per punizione si tagliò le palpebre; nel punto in cui caddero le palpebre insanguinate crebbe la pianta del tè, dalla quale ricavò una bevanda che in seguito lo avrebbe tenuto sveglio (storie simili abbondano in Arabia a proposito dei monaci Sufi e della scoperta del caffè). 
Questi infusi presero presto posto nella farmacologia cinese accanto al ginseng e ai vini e costituiscono tuttora una parte importante della medicina, dato che vengono ancora usati dai «dottori scalzi» della Cina.

Durante il Medio Evo, mentre la scienza europea sonnecchiava, le farmacologie cinese e araba erano nel loro fulgore e quando queste due tradizioni si incontrarono con la medicina indù sulla via della seta, ogni dottore o «drogato» fu notevolmente interessato.

L’Europa medievale divenne un Continente di storie favolose, un calderone ribollente di segreti magici e di racconti provenienti dall’Arabia, dall’India e dal Catai. La medicina ufficiale si distingueva a malapena dalla stregoneria; le streghe probabilmente avevano una conoscenza più profonda sui farmaci di quella dei dottori. 

Il più importante anestetico, oltre all’alcol, era la spongia sonnifera, un insieme di oppio, mandragora, gelso, cicuta, edera legnosa, romile e succo di lattuga, con cui si imbeveva la spugna. Gli intrugli delle streghe avevano più o meno gli stessi ingredienti, con un’aggiunta di allucinogeni solanacei. 
Carestie, vaiolo, peste, dilagavano nelle città infestate dai topi. I cittadini affamati mangiavano con riluttanza segale di frumento che li avvelenava di ergotismo (il fuoco di Sant’Antonio), una specie di pazzia accompagnata da piaghe aperte e cancrena. I deboli e i moribondi cercavano rifugio nella Chiesa, dove farmacia significava raccogliere erbe nei campi e la medicina significava sperare in Dio.

Un rimedio abbastanza comune per la cecità consisteva nell’ingoiare un verme vivo tutto intero recitando il Padre Nostro; il salasso praticato con sanguisughe e l’applicazione di ventose era la cura indicata per la peste bubbonica. Le droghe ricreative preferite (tranne che dalle streghe) per l’estasi momentanea che procuravano erano ancora l’idromele, la birra e il vino. I centri della cultura ufficiale erano i monasteri dove gli amanuensi trascrivevano a mano, laboriosamente, vecchie pergamene in rovina. 
Alla fine, proprio per questo coscienzioso lavoro di copiatura, la scienza araba, tradotta in latino, filtrò lentamente in Europa facendola uscire dal buio dell’ignoranza.

E che splendori offrì al mondo il genio della farmacologia musulmana! 

I filosofi-scienziati orientali conservarono la tradizione greca e romana e la arricchirono con gli splendori della conoscenza asiatica delle droghe.

Dal profondo dell’Africa e, attraverso la Persia, dall’India e dalla Cina della dinastia T’ang arrivarono le novità fino a Salerno e Cordova tanto velocemente quanto potevano portarle gli stalloni arabi. Quello che era cominciato come misticismo divenne una vera e propria scienza. 

L’alchimista Geber (760 d.C.) sviluppò l’erbario di Dioscoride fino a farlo diventare una rispettata dissertazione sui veleni, aggiungendo elettuari di bhang (canapa), segale cornuta, noce vomica, mercurio, arsenico e cinabro. Cercò di penetrare il mistero della «pietra filosofale» con cui si potevano tramutare i metalli vili in oro, e durante tali studi scoprì l’acido nitrico, l’acido solforico e la distillzione dell’alcol. Rhazes di Bagdad (900 d.C.) comprese la patologia del vaiolo e di altre pestilenze terrificanti, tuttavia, 7 secoli dopo i dottori europei indossavano ancora maschere a forma di uccello per difendersi dalla peste. 

Il visionario persiano Avicenna (980 – 1037) trasformò l’antichissima mitologia in ricerca clinica, provocando gli anestetici su se stesso e registrando i suoi esperimenti in un grosso trattato sui farmaci: si dice che, come risultato, morì di una dose eccessiva di oppio. Nel secolo XIII Ibn Beitar ampliò l’opera di Avicenna e redasse il più completo trattato musulmano in fatto di materia medica, in cui erano contenute le applicazioni terapeutiche di circa 1400 farmaci.

Lentamente anche l’Europa venne a conoscenza di questi progressi. 

Lo scrittore Chaucer, per esempio, conosceva bene «la lunga relazione di Avicenna sul veleno e il suo modus operandi» e le opere di altri farmacologi arabi sono nominate nei suoi Racconti di Canterbury. La ricca tradizione musulmana assorbì la cola e la kanna dall’Africa, il qat dallo Yemen, la datura e il betel dall’India, la noce moscata e i chiodi di garofano dalle Isole delle Spezie, e in cambio diede al mondo l’oppio, l’hashish, il caffè e l’alcol. 

La mandragora, la mirra, la teriaca, la trigonella, l’aconito, il cardamomo e molte altre droghe esotiche ben conosciute in Arabia arricchirono la medicina cinese nel secolo XIII. I capi mongoli come Kublai Khan, che governava la Cina quando Marco Polo la visitò nel secolo XIII, erano degli instancabili bevitori, e i loro eredi, gli imperatori Moghul dell’India, coltivavano l’oppio e la canapa e fecero diventare l’uso di questa droga una pratica comune a corte.

Gli esperti tantrici usavano vino, carne con spezie e frullati di marijuana durane complicate cerimonie erotico-religiose. Le dinastie T’an, Sung, Yuan (mongola) e quella Ming (cinese) raccolsero tutte le informazioni che l’Asia poteva fornire sui farmaci in magnifiche farmacopee, la più importante e famosa delle quali è considerata il Pen Ts’ao Kang Mu di Li Shishchen, del secolo XVI. 

Per completarla ci vollero ben 27 anni; forniva 8160 ricette per 1871 sostanze differenti. 

L’Europa nel frattempo stava cominciando a scoprire il caffè e cercava di bandirlo tacciandolo di essere un intruglio satanico degli infedeli.


Quando Marco Polo tornò a Venezia per parlare ai suoi concittadini dell’ambra grigia, del muschio, del vino di spezie, della canfora, del salnitro, dei chiodi di garofano, del pepe, delle noci di cocco, dello zenzero, del latte condensato, del fiele di coccodrillo, dello spiganardo, della noce moscata e di altre medicine preziose di cui aveva fatto tesoro – per non parlare degli spaghetti, della polvere da sparo, dell’amianto, della carta moneta e della setta degli Assassini – venne considerato un pazzo visionario e bugiardo.

Comunque, l’influenza illuminatrice del grande flusso del sapere musulmano fu senza dubbio importante. Valerio Cordus (1514-44) diede all’Europa la sua prima vera farmacopea, versione riveduta e corretta di quella di Dioscoride. Egli trasformò l’acido solforico di Geber nel soave olio di vetriolo, più tardi denominato etere. Un suo contemporaneo, lo stravagante medico svizzero Paracelso, bruciò i libri di Avicenna per protesta contro la creduloneria tipica e piena di pregiudizi del passato, ma astutamente conservò le ricette dell’etere e della tintura d’oppio (il laudano) per uso personale.

Gli Arabi impararono a fare la carta dai Cinesi ed esportarono questa carta di cotone in tutto il Mediterraneo. In Spagna crescevano rigogliosi i prati di canapa e lino, e dal secolo XIII la carta che se ne ricavava fu largamente usata in Castiglia. Da lì fu introdotta, attraverso i Pirenei, in Francia, poi in Germania, dove nel 1454 J. Gutemberg stampò la Bibbia con caratteri tipografici mobili. La nuova tecnologia permise subito di stampare erbari che resero possibile una più ampia diffusione dell’informazione sui farmaci, invece di affidarsi a dicerie e a vecchi manoscritti ammuffiti.

Incominciò così il Rinascimento, la rinascita del sapere in un’Europa stanca di epidemie letali e di crociate inutili. L’esperienza si sostituì alle dicerie con la conoscenza di centinaia di piante farmacologiche. Nel 1542 apparve l’Historia Stirpium, che rimproverava gli studiosi per la loro ignoranza, riassumendo migliaia di anni di notizie sulle piante locali e straniere e fornendo nuove e sbalorditive illustrazioni xilografiche di numerose piante. Fuchs vi incluse anche alcune piante americane come il mais indiano. L’età delle scoperte era in piena fioritura. 
Al posto dell’oro e delle spezie, Colombo era tornato dall’America con scoperte come il tabacco, il granturco e gli allucinogeni da fiuto (la cohoba delle Antille, che contiene il Dmt).

Improvvisamente si aprì un nuovo Continente, ricco di piante di droga da esplorare e da sfruttare. Grande fu lo stupore degli esploratori quando scoprirono che questo Continente non era certo le Indie dei loro sogni, ma una nuova e strana terra. Quando, nel 1499, Amerigo Vespucci arrivò nell’Isola di Margarita, al largo del Venezuela, invece di Mandarini vestiti di seta che bevevano tè trovò degli indigeni seminudi che masticavano foglie di coca: «Avevano l’apparenza e il comportamento di bruti e masticavano come dei ruminanti le foglie di una certa erba verde, tanto che potevano parlare a malapena… Lo facevano frequentemente e masticavano poche foglie alla volta.
La cosa ci sembrava meravigliosa, perché non capivamo il segreto né il perché». 

Vespucci non sapeva certo di essersi imbattuto in una tradizione sacra, che risaliva a 4000 anni addietro, ma capì che non era arrivato nel Catai. Quando, nel 1532, Pizzarro arrivò in Perù, gli fu offerta la spumeggiante chicha (birra di mais) in calici d’oro. In risposta fece arrestare il re degli Incas, si fece pagare il riscatto, costituito da una stanza piena d’oro, poi lo uccise e fece fondere lo scintillante Tempio del Sole, che era adorno di fregi d’oro che riproducevano ramoscelli di coca. 

I preti dell’Inquisizione sdegnarono la pianta divina degli Incas come se fosse erba del diavolo, ma con essa nutrirono le tribù conquistate per incrementare il lavoro forzato delle miniere. Benché Monardes di Siviglia e altri avessero già notato gli stupefacenti poteri stimolanti della coca, gli europei incominciarono a interessarsi a questa droga solo nel secolo XIX.

Quando Cortes conquistò il vecchio Messico, percorrendo a cavallo il più grande impero psichedelico che il mondo abbia mai conosciuto, domandò dell’oro come rimedio specifico contro «una malattia del cuore» di cui soffrivano gli europei. Montezuma lo coprì d’oro e gli mostrò con orgoglio i vasti giardini di piante medicinali. Offrì ai conquistatori «il cibo degli dèi»: cioccolato schiumoso, sigarette fatte con foglie di tabacco, e pulque. L’ospitale imperatore comandò ai suoi stregoni di preparare pozioni sacre che comprendevano senza dubbio funghi magici, peyotl, semi di ipomea e il sinicuihi, un allucinogeno che agiva sul senso uditivo. 
Cortes rifiutò tutto definendolo «cibo stregato» e continuò imperterrito a massacrare 60.000 e più Aztechi. Poco dopo, Coronado capeggiò una spedizione verso il Nord alla ricerca delle Sette città d’oro. Tutto quello che scoprì fu il bacino di Los Angeles dove notò che il fumo degli accampamenti sembrava non salire mai e che gli indigeni bevevano la datura per diventare chiaroveggenti.

Gli psichedelici sacri del Messico e del Sud-Ovest furono tenuti nascosti, pena la morte. Tutti, eccetto due. Infatti Cortes spedì dei semi di cacao all’Infanta di Spagna e ben presto le nobildonne spagnole iniziarono a bere la cioccolata calda anche in chiesa. E il tabacco… faceva parte degli psichedelici? Era la droga miracolo dell’America, veniva usata molto di più delle altre, ed era spesso mischiata con altre piante. La piacevole Nicotiana tabacum veniva fiutata e bevuta come succo dal Messico al Cile.

Ma in Nord America alcune specie più aspre (la Nicotiana rustia, l’attenuata e la bigelovii) venivano usate nelle cerimonie e i primi racconti lasciano pensare che fossero allucinogene: sciamani che cadevano in trance, guerrieri pellirossa che ridacchiavano davanti a cilindri d’erba alti 60 centimetri, intere tribù che aspiravano una pipa dopo l’altra e danzavano in un delirio magico, molto probabilmente dovuto alle altre droghe fumate insieme al tabacco. 

Comunque, persino nei tabacchi commerciali lavorati, i chimici hanno scoperto degli alcaloidi di armala, che sono strettamente connessi agli alcaloidi dello yagè, il rampicante dell’Amazzonia che provoca le visioni. 

C’è ancora molto da imparare su queste piante sacre. 

William Embodem fa notare che «in pochi decenni ci furono più spagnoli convertiti al fumo che Indiani convertiti al Cristianesimo», e lo stesso vale per gli Inglesi, i Francesi e gli Olandesi. Poco dopo l’arrivo a Londra di alcune pipe, del tabacco e di un indiano, a opera di sir W. Raleigh, il re Giacomo I indisse una fiera «campagna contro il tabacco» (1604), che non trattenne affatto i suoi leali sudditi dal fumarlo! Il tabacco divenne un importante commercio in Virginia e i colonizzatori continuarono a cercare altre sostanze vegetali.

Nel 1676, in America, uno squadrone di soldati, stazionato a Jamestown mangiò della datura e fu talmente scosso dai suoi effetti bizzarri che da quel momento la datura venne popolarmente conosciuta come «erbaccia di Jimson» (da Jamestown). La ricerca di sostanze vegetali nuove fu la base delle spedizioni commerciali. Il tabacco proveniente dall’Occidente e il caffè dall’Oriente conquistarono l’Europa del secolo XVII. Fumose caffetterie servivano da centri di smistamento e di commercio ed erano centri di raccolta di tutte le ciacchiere su ciò che accadeva nel mondo. Qui nacquero l’assicurazione moderna, la novella come forma letteraria e maestose istituzioni scientifiche (come la Reale Accademia Britannica).


Audaci trame di intrighi internazionali diffusero il caffè, il tè e il tabacco in tutto il mondo e queste droghe divennero simboli e forze politiche. 

I coloni americani manifestarono la loro ribellione buttando in mare casse di tè inglese nel porto di Boston (1773). Ben presto si potè facilmente individuare da quale parte della rivoluzione si trovasse una persona da ciò che beveva per colazione. 

Il Godfrey’s Cordial era uno sciroppo contenente laudano (tintura di oppio) in uno sciroppo dolce di melassa, che veniva comunemente usato come sedativo per calmare neonati e bambini nell’Inghilterra vittoriana.

Le droghe erano gli ingredienti chiave nel «commercio triangolare»: rum, schiavi e melassa nelle Indie occidentali: oppio, tè e seta in Asia. 

Il laudano, un soluzione alcolica d’oppio, era particolarmente apprezzato come medicinale. 

Nel secolo XVII il medico Thomas Sydenham lo prescriveva talmente spesso che venne soprannominato dr. Opiatus. La canapa fu piantata in tutto il mondo a causa della fibra che se ne ricavava, ma gli schiavi africani (e più tardi i servitori indiani) ne fecero conoscere all’America un uso diverso. La British East India Company inviò migliaia di avventurieri all’estero. 
L’uso di fumare tabacco e oppio vennero introdotti a forza in Cina e ciò portò nel secolo XIX alle guerre dell’oppio. Gli asiatici persero e questa sconfitta fu ipocritamente descritta dagli Inglesi come «l’apertura della via della Cina».

In Europa giunsero così tante piante medicinali che la scienza e la tecnologia progredirono a un ritmo vertiginoso. Il botanico reale svedese Carlo Linneo inventò la classificazione secondo varietà e specie per portare ordine in questo caos. Coltivò, inoltre, piante di canapa sul suo balcone, per confermare la sessualità delle piante, innalzata in seguito a scienza della genetica dal naturalista agostiniano Gregorio Mendel. I protochimici, come il «marchese de Outrage», nel secolo XVII, fecero esperimenti secondo regole dettate da Cordus e Paracelso: l’estrazione di sostanze mediante soluzioni alcoliche. 

Nel 1798, cercando di trovare una base per strappare l’India agli Inglesi, Napoleone condusse le sue truppe e un contingente di osservatori scientifici in Egitto. Qui, un intero esercito di francesi fece la conoscenza dell’hashish. Nel Nord Africa alcuni dottori francesi impararono a conoscere il valore medico della canapa e J.J. Moreau de Tours creò la moderna psicofarmacologia e una cura a base di droghe psicotomimetiche grazie ai suoi studi sulla datura e sull’hashish (1845).

L’India era la destinazione più ambita dai giovani ufficiali britannici e molti, come Robert Clive, primo governatore del Bengala, diventarono degli oppiomani. Un giovane e brillante chirurgo, William B. O’Shaughnessy, introdusse la canapa nella medicina occidentale (1839) e il telegrafo in India. Ci furono nel parlamento inglese molti dibattiti sull’oppio e sulla canapa che culminarono nelle prime massicce ricerche governative moderne sui medicinali (per esempio The Indian Hemp Drugs Commission Report, del 1894). 

Nel frattempo gli esperti impegnati a studiare i Veda scoprirono che in età remote i loro avi erano legati alla grande famiglia della lingua Indo-Europea. La preparazione di medicinali grezzi fece sviluppare a tal punto le tecniche di analisi chimica che nel 1806 un chimico tedesco, F.W.A. Sertürner, riuscì a estrarre un alcaloide dall’oppio e lo chiamò morfina, in onore di Morfeo, il dio del sonno. 

Ciò diede inizio, nel secolo XIX alla grande era della tossicologia alcaloidea. 

Caventou e Pelletier a Parigi isolarono la stricnina dalla noce vomica, il chinino dalla china, la caffeina dal caffè; altri seguirono con l’atropina dalla belladonna, la conina dalla cicuta e la josciamina dal giusquiamo. La disponibilità di alcaloidi puri pose la farmacologia in una posizione solida e permise un esame minuzioso del rapporto dose-effetto, esposto nel formulaire di François Magendie del 1821, il precursore delle moderne farmacopee.

Ben presto alcuni giovani esploratori perlustrarono il Pianeta alla ricerca di altre medicine. Richard Spruce si inoltrò lungo il Rio delle Amazzoni e, in un fantastico squarcio di preveggenza, raccolse dei ramidi yagè (ayahuasca caapi) per analisi chimiche. 

Se qualcuno si fosse preso il compito di analizzarle si sarebbe reso conto che alcune specie dell’America e dell’Europa, completamente diverse tra loro, possono contenere le stesse sostanze chimiche, e di conseguenza sarebbe nata la scienza della chemiotassonomia che Spruce aveva previsto. 
Solo 70 anni dopo i chimici riconobbero che la «telepatina» ottenuta nel rampicante amazzonico era uguale all’arina contenuta nella vecchia e familiare ruta siriana di Dioscoride.

Ma le cose andarono diversamente e gli esemplari raccolti da Spruce vennero usati per altri scopi. Richard Evans Shultes di Harward li fece analizzare nel 1969 e scoprì la straordinaria longevità di questi allucinogeni: erano attivi esattamente come se fossero stati raccolti il giorno prima. 

Nel frattempo il Rio delle Amazzoni aveva prodotto un’altra rivelazione scientifica. Il naturalista Alfred R. Wallace raccolse piante, farfalle e bestie nelle stesse fertili giungle e Charles Darwin fece altrettanto durante il viaggio del Beagle. Entrambi avevano letto il Saggio sulla popolazione umana di Maltus e, indipendentemente l’uno dall’altro, venero colpiti dai principi della selezione naturale che è divenuta la base della biologia moderna. 

«In base ai principi della selezione naturale il cervello di un selvaggio dovrebbe essere appena poco superiore a quello di una scimmia antropomorfa. 
In realtà però il cervello del selvaggio è solo di poco inferiore a quello del filosofo» scrisse Wallace, osservando molto chiaramente che anche la minima alterazione nella coscienza potrebbe provocare profondi cambiamenti nella specie. «Con la nostra venuta è nato un essere in cui la sottile forza che noi chiamiamo “mente” è divenuta molto più importante della pura e semplice struttura corporea». 

Inevitabilmente ogni scoperta di qualche nuova droga è stata accompagnata da un periodo di intenso uso popolare.

Thomas De Quincey ha fondato la moderna letteratura sulla droga con le sue Confessions of an English Opium Eater (Confessioni di un mangiatore di oppio inglese) (1821), che sono il diretto risultato delle sue esperienze con il laudano che egli aveva preso per calmare i dolori al viso e allo stomaco. Ovviamente non esistevano leggi contro l’uso di narcotici e De Quincey stesso osserva che «il numero di mangiatori di oppio amateur (come li potrei definire io) era, a quel tempo, enorme». 

Non solo ne facevano largo uso poeti come Coleridge, Crabbe e Thompson; c’erano anche migliaia di lavoratori, filatori, casalinghe e commessi che, di notte, annegavano i loro dispiaceri nel gin e nel laudano e, di giorno, intervallavano le ore di lavoro faticoso e ingrato con pause per il caffè.

L’influenza internazionale dell’opera di De Quincey fu enorme. Alfred de Musset e Charles Baudelaire pubblicarono traduzioni di De Quincey, adattando liberamente il testo per poter includere le loro esperienze personali con il vino, l’hashish e l’oppio. 

La maggior parte dei grandi romantici francesi conobbe o fece parte del «Club des Haschichins» fondato da Théophile Gautier, e gli eloquenti Les Paradis artificiels di Baudelaire (1860) gli hanno assicurato una posizione di primo piano tra gli autori classici della letteratura sulla droga. 
Nel frattempo, a Schenectady, New York, uno studente americano di nome Fitz Ludlow leggeva avidamente De Quincey, sperimentava tutte le droghe ottenute nello scaffale del farmacista locale e scriveva il primo grande compendio americano sull’uso di una droga a scopo ricreativo: The Hasheesh Eater (1857).

Ma la sottocultura mondiale della droga di cento anni fa era ancora concentrata sulla vecchia ricerca di nuovi anestetici. 

Sin dal Medio Evo gli unici antidolorifici disponibili per la chirurgia erano la mandragora, l’oppio, la belladonna e le bevande alcoliche, che riuscivano a malapena a calmare le urla dei pazienti legati con cinghie in quelle camere dell’orrore chiamate sale operatorie. È vero che il dolce olio di vetriolo di Valerio Cordus (etere) veniva usato occasionalmente nel secolo XVIII, ma ci vollero ulteriori progressi nella tecnologia per renderlo veramente pratico. 
Joseph Priesteley scoprì l’ossigeno e il protossido d’azoto (1772) e sir Humphry Davy fece esperimenti con il protossido d’azoto nella Pneumati Institution del dott. Thomas Beddoes, a Bristol (1800), come fecero Coleridge, De Quincey e Tom Wegwood (famoso per la ceramica omonima).

Ben presto le feste a base sia di etere che di gas esilarante furono di gran moda tra i giovani. 

Le dimostrazioni della medicina ambulante resero popolare l’etere e il protossido d’azoto, somministrati con strani congegni meccanici. Sam Colt, per esempio, attraversò l’intero West con sei vistosi indiani e una bombola di protossido, cercando di guadagnare abbastanza per poter brevettare il suo nuovo revolver, e dopo poco tempo i medici captarono il messaggio. 
Un giovane dentista, Horace Wells, assistette a una di queste rappresentazioni teatrali e si organizzò con un collega, William Morton, per una dimostrazione sul gas esilarante nell’aula del solenne chirurgo John Collins Warren, nel Massachussetts General Hospital a Boston (1844). Sfortunatamente Wells non conosceva la giusta quantità di gas da somministrare al suo corpulento paziente che si contorceva in agonia mentre gli veniva estratto il dente, e Wells uscì da questo esperimento con la fama di «impostore».

Il dott. Charles Johnson suggerì che venisse usato l’etere, una sostanza più attendibile, e Morton lavorò al perfezionamento di una spugna inalatrice che ne somministrasse dosi più equilibrate. Nel 1846 Morton ritornò nell’aula di Warren e anestetizzò un paziente per permettere a Warren di rimuovere un tumore dalla faccia di un uomo. «Signori», annunciò gravemente Warren nel silenzio stupito che accolse il successo dell’operazione, «questa non è un’impostura». E in realtà non lo era.

Tutti, con qualsiasi scusa, volevano provare, e i dottori gareggiavano fra di loro per scoprire altri anestetici. Sir James Simpson, un grande ostetrico di Edimburgo, riunì la moglie e i suoi amici intorno al tavolo da pranzo per provare varie sostanze chimiche, e scoprì che il cloroformio agiva molto più velocemente dell’etere, quindi si rivelava più efficace nell’alleviare i dolori del parto. (La regina Vittoria partorì sotto l’effetto del cloroformio). 

Un altro celebre insegnante di Edimburgo, sir Robert Christison, capo della British Medical Association, sperimentò su se stesso la coca, la canapa, l’oppio, l’aconicotina, la stricnica e persino alcuni estratti della temibile fava del Calabar dell’Africa occidentale.

L’ultimo dei più importanti alcaloidi vegetali a essere isolato nel secolo XIX fu la cocaina, a opera di Albert Niemann di Göttingen, intorno al 1860. Un intraprendente chimico, Angelo Mariani, introdusse sul mercato un vino a base di coca, molto popolare, e inventò il metodo moderno di pubblicizzare un prodotto facendo inizialmente degli omaggi: Sarah Bernhardt, Alphonse Mucha, Papa Leone XIII, i presidenti Grant e McKinley, H. G. Wells e Thomas Edison furono tra le migliaia di persone che provarono l’inebriante tonico. Successivamente, nel 1884, il giovane Sigmund Freud si comprò un grammo di cocaina Merck ($ 1,27) e pubblicò Uber Coca, una brillante monografia che suggeriva l’uso della droga come anestetico e cura per il morfinismo. 
Un suo amico, Carl Koller, un anno dopo dimostrò l’uso della cocaina come anestetico locale per la chirurgia oculistica, una scoperta che scosse il mondo e che riempì le pagine dei quotidiani e dei giornali scientifici per molti mesi.

Fare esperimenti con un’infinita varietà di droghe su se stessi, animali, pazienti, parenti e amici, divenne parte di ogni corso di addestramento per studenti di medicina, e si ebbe un’intera nuova generazione di medici. 

Il mondo si aprì a una nuova e vasta coscienza: come la medicina era una volta derivata dal magico, così ora si tornava al misticismo scientifico per spiegare i celestiali effetti mentali delle droghe. William James, che aveva riso sotto l’effetto del gas esilarante ad alcune feste da giovane, a Edimburgo, nel 1901, parlò della «rivelazione anestetica». Era nato il secolo XX.

Incominciò l’esplorazione dei mondi interiori attraverso le tecniche della scienza moderna.

Sir Weir Mitchell, che aveva fatto esperimenti con il peyotl e la mescalina sin dal 1880, lo fece provare a James. Lo studio sul peyotl fu il prototipo dello studio contemporaneo sugli allucinogeni e, con la maggiore comunicazione tra i vari circoli scientifici, i ricercatori vennero più tempestivamente a conoscenza dei lavori dei propri colleghi. Il piccolo classico Mescal, opera di Henrich Klüver (1928), per esempio, venne letto nel 1936 dallo studente di Harvard Richard Schultes che, per tale motivo, lasciò lo studio della medicina per la botanica e partì per l’Oklaoma con l’antropologo Weston La Barre per studiare i riti indiani a base di peyotl. 

Il libro di La Barre, The Peyotl Cult, viene ora consultato dai capi indiani come guida alle vecchie usanze; Schultes è ora il botanico più importante del mondo per lo studio degli allucinogeni vegetali, e il suo illustratore, Elmer W. Smith, fornisce i disegni di piante psicoattive più accurati del nostro tempo.

Ci furono altri strani collegamenti. Koller fondò una clinica specializzata in malattie oculari a New York, dove curò un bambino di dieci anni che soffriva seriamente di astigmatismo e miopia. Il ragazzo era Chauncey Leake, che in seguito organizzò il laboratorio di farmacologia dell’Università della California a San Francisco, da cui vennero l’etere di vinile per l’anestesia generale, le anfetamine come stimolanti per il sistema nervoso centrale, la nalorfina come antagonista della morfina.

La scoperta delle anfetamine, a opera di Gordon Alles (1927), avvenne durante la ricerca di sostituti dell’efedrina e dell’epinefrina per l’asma, ricerche che sono state condotte sin dai tempi di Ko Hung. Alles scoprì anche gli effetti psicotropici del Mda, una sostanza sintetica molto simile negli elementi costitutivi alla noce moscata. 

Ma l’esplosione dell’uso delle droghe, avvenuta nel secolo XIX, ci è fuggita dalle mani. 

William Halsted inventò l’anestesia che paralizza i nervi con la cocaina (1885), ma sviluppò una dipendenza così forte per la droga che i suoi amici dovettero metterlo a bordo di una goletta e lasciarvelo per parecchi mesi in modo che potesse disintossicarsi. Lo fece, ma divenne dipendente dalla morfina che si procurava dalla provviste della nave. Per molto tempo il fatto che Halsted, uno dei fondatori dell’Università John Hopkins, fosse un morfinomane, fu un segreto custodito gelosamente all’Istituto. Uno studente di Halsted, James Leonard Corning, inventò l’anestesia spinale con la cocaina.

In ogni famiglia c’era un padre vizioso e ubriacone o uno zio dissoluto; madri intristite scolavano litri su litri di medicinali brevettati, ragazzini allevati con sciroppi per la tosse a base di cocaina passavano poi alle bevande gassate a base di cola. 

Ragazze che lavorano passavano gli intervalli per il pranzo nelle fumerie cinesi; negri «fatti» di coca diventavano invulnerabili alle pallottole; adolescenti fumavano spinelli e massacravano intere famiglie – almeno secondo i giornali popolari e i notiziari della polizia, dove queste terrificanti immagini di «drogati» iniziarono a circolare per prime. 

La febbre della proibizione fece presa sull’America. Inviperiti riformatori come Carrie Nation e tromboni come Henry Anslinger colsero l’opportunità per imporre la loro dubbia moralità sulla Nazione col motto: «Arrestiamo il crimine». Eroina e cocaina vennero bandite dall’Harrison Narcotic Act (1914); l’alcol dal Volstead Tax Act (1937). Per un curioso cavillo della storia, antropologi e capi indiani riuscirono a salvare il peyotl dall’Inquisizione generale (1937), purché il suo uso fosse limitato ai membri della Native American Church.

Venne proibito ai dottori di prescrivere l’eroina anche ai tossicomani che stavano morendo per la sua mancanza, e l’uso delle droghe a scopo ricreativo proseguì di nascosto. Il risultato fu la creazione, non la prevenzione, del crimine organizzato. Sebbene molte droghe svanissero dal mercato, ricomparvero nelle mani dei re del crimine, ancora più contenti di fornire a prezzo inflazionato delle emozioni che prima si potevano provare a poco prezzo. Vennero accumulate fortune con il commercio di gin fatto in casa, di coca a Hollywood, di eroina a New York. 

Ma la proibizione si dimostrò impossibile, come è sempre stata. 

Quando finì la proibizione del liquore, il jazz salì lungo il fiume da New Orleans a New York in una nuvola di fumo di marijuana, e i musicisti negri divennero i precursori della cultura moderna. Gli spacciatori da strada – Mezz Mezzrow e Detroit Red (Malcom X) – diventarono eroi popolari, mentre Lady Day cantava i blues. E gli uomini della legge li arrestavano a migliaia.

La Seconda guerra mondiale interruppe il flusso naturale di droghe vegetali che vennero sostituite da sostanze sintetiche e diventarono l’incubo degli anni Cinquanta: i nazisti con la coca, la metedrina e il metadone, gli americani con la dexedrina e i barbiturici, le casalinghe con i tranquillanti e gli uomini d’affari di nuovo con le bevande alcoliche. 

Sembrava che il mondo stesse diventando tranquillamente matto in un vestito di flanella grigia, incapace di scegliere tra Joe McCarthy e Marilyn Monroe. 

«Ho visto le migliori menti della mia epoca distrutte dalla pazzia, morenti di fame, nude, isteriche, che si trascinavano all’alba tra le strade di quartieri negri cercando una dose di eroina», scriveva Allen Ginsberg, e William Burroughs replicava con la campana a morto del romanticismo di De Quincey sui narcotici: «Posso sentire l’autorità circondarmi, sentire loro là fuori che si muovono sistemare i loro infernali delatori, che cantano sommessamente sul mio cucchiaio e sulla siringa...». 
Ma nel 1943 Albert Holfmann, un chimico che stava facendo delle ricerche sui derivati della segale cornuta nei laboratori Sandoz, in Svizzera, accidentalmente assorbì attraverso le mani del dietilammide di acido lisergico. Improvvisamente i regni della coscienza alterata predicati da James divennero disponibili a dosi di microgrammo.

Sotto la coscienza narcotizzata degli anni Cinquanta stava germogliando una rivoluzione.

Filosofi-scienziati riscoprirono gli allucinogeni magici: Huxley e Osmond, Schultes e Hofmann, Wasson e Heim: una generazione di veterani Sufi dediti alla nuova alchimia. Dapprima, questa bomba atomica della farmacologia, l’allucinogeno più potente che il mondo abbia mai conosciuto, venne salutato come «psicotomimetrico»: una cura adatta per un mondo schizofrenico. 

Certamente l’Lsd imitava molto bene la psicosi negli ambienti clinici dove dottori e pazienti se lo aspettavano. È la natura delle medicine degli stregoni a esagerare la mente naturale. Ma col continuo trasferimento di informazioni nelle comunicazioni moderne, nulla rimane nei laboratori per molto tempo. 
Poeti e artisti sapevano da lungo tempo della marijuana, erano pronti per l’acido, e gli psicologi glielo diedero – a Praga, a Palo Alto, forse persino a Pechino.

Era l’alba dell’età degli «psichedelici» – prima dozzine, poi migliaia, quindi milioni. Kesey la portò fuori dai manicomi; Leary e Alpert la portarono ad Harvard; Ginsberg in India; Snyder in Giappone. 

Gli uomini della legge, sgomenti, cercarono allo stesso modo di diffondere la proibizione in tutto il mondo, con trattati come la Single Convention on Narcotic Drugs delle Nazioni Unite (1961) – un accordo davvero ridicolo di fronte a Nazioni come l’India che promettevano di porre fine all’uso di sacre tradizioni preistoriche in 25 anni. 
Antiche scene ricorrevano in modo moderno: un intero esercito di americani, come i loro predecessori francesi, provarono il fumo e l’eroina in Vietnam. 

Caffè, cocaina, marijuana ed eroina divennero i raccolti più esportati delle antiche terre psichedeliche in Messico e Sud America… I giovani in tutto il mondo incominciarono a coltivarsi la propria erba e i funghi magici. 
Le droghe, una volta disprezzate, emergevano con successo nella borghesia, e la «sottocultura della droga» non rappresentava più una minoranza, se mai lo era stata.

E per il futuro?

«Mediante la somministrazione di agenti psichedelici adatti si può ottenere il comportamento desiderato», scrivevano Willis Harman e James Fadiman, una strana preveggenza nel 1966.

L’abilità di selezione e la tecnologia dello stregone aumenteranno l’uso di droghe specifiche per scopi specifici: qualche volta separatamente, qualche volta combinate, talvolta in modo poco saggio, ma qualche volta fornendo più istruzione in una serata che in vent’anni di scuola. 
Veleni mentali e filtri amorosi, più potenti di quanto oggi si possa immaginare, governeranno il mondo.

Prodotti chimici ibridi, come il Dob e l’Mmda, fluttuano già attraverso le menti di anime avventurose: droghe per il lavoro, per il gioco, per il corpo, per lo spirito; ce ne saranno di più, mai di meno. 

Gli alchimisti continueranno a scoprire molecole nuove e rischiose. L’uso di droghe vegetali e derivati, incessante da tre milioni di anni, continuerà a coprire un mondo sempre più piccolo sotto gli occhi vigili di satelliti di comunicazione. Polizia narcomaniaca cercherà di fermare l’inevitabile. 
Rimarranno da esplorare nuovi mondi in dimensioni lontane; potremo salutare nuove forme di coscienza in alcuni di loro. 
Lo spazio interno incontrerà lo spazio esterno: uno scambio galattico su innumerevoli e immensi Pianeti uniti strettamente. È meraviglioso vivere nel mattino dell’era spaziale.

Fonte: L'alba delle droghe. Contesti, culture, rituali  (Brossura)


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